Corte di cassazione
Sezione II penale
Sentenza 19 febbraio 2015, n. 10069
Presidente: Esposito - Estensore: Lombardo
RITENUTO IN FATTO E IN DIRITTO
1. Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Agrigento ricorre per cassazione avverso l'ordinanza del G.U.P. del locale Tribunale di cui in epigrafe, che - in sede di udienza preliminare - ha escluso la contestazione di nuovi fatti di reato da parte del pubblico ministero. Deduce l'abnormità del provvedimento del G.U.P., che avrebbe impedito al pubblico ministero l'esercizio di un potere assegnatogli dalla legge.
Nella specie, gli imputati R. e C., accusati di associazione per delinquere e di numerose truffe aggravate in danno dell'I.N.A.I.L. per avere attestato - nella qualità di medici - patologie inesistenti derivanti da infortuni sul lavoro mai avvenuti, furono tratti a giudizio dinanzi al giudice dell'udienza preliminare; nel corso dell'udienza preliminare, il P.M., avendo accertato - a seguito di indagini suppletive - a carico degli imputati ulteriori episodi di truffa aggravata commessi ai danni dell'I.N.A.I.L. col medesimo modus operandi e nel medesimo arco temporale, li contestò ai medesimi imputati. Il giudice, tuttavia, a seguito di opposizione degli imputati, negò l'ammissibilità della nuova contestazione, inquadrandola nella fattispecie di cui al comma 2 dell'art. 423 c.p.p. e disponendo la trasmissione del verbale al P.M., ai fini del separato esercizio dell'azione penale.
Secondo il procuratore ricorrente, tale inquadramento giuridico sarebbe errato, in quanto i nuovi reati contestati sarebbero connessi, a norma dell'art. 12, comma 1, lett. b), a quelli di cui alla originaria contestazione (trattandosi di azioni esecutive del medesimo disegno criminoso); pertanto, la nuova contestazione non avrebbe abbisognato né del consenso dell'imputato né dell'autorizzazione del giudice, il quale - con l'ordinanza impugnata - avrebbe impedito l'esercizio doveroso dell'azione penale da parte del pubblico ministero, ponendo in essere un atto abnorme.
2. Il ricorso è inammissibile.
Com'è noto, le ordinanze endoprocessuali non rientrano tra i provvedimenti avverso i quali - ai sensi dell'art. 606, comma 2, c.p.p. - può essere proposto ricorso per cassazione; esse tuttavia - secondo la pacifica giurisprudenza di questa Corte suprema - possono essere impugnate col ricorso per cassazione per violazione di legge quando assumano il carattere della abnormità.
Orbene, nel caso di specie, contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente, deve escludersi che l'ordinanza del giudice dell'udienza preliminare che ha escluso la contestazione suppletiva effettuata dal pubblico ministero rivesta i caratteri della abnormità.
E invero, come hanno affermato le Sezioni Unite di questa Corte, l'abnormità - per essere tale - non deve integrare solo un semplice vizio dell'atto in sé, da cui scaturiscono determinate patologie sul piano della dinamica processuale, ma deve integrare - sempre e comunque - uno sviamento della funzione giurisdizionale, la quale non risponde più al modello previsto dalla legge, ma si colloca al di là del perimetro entro il quale è riconosciuta dall'ordinamento (Cass., Sez. Un., n. 25957 del 26 marzo 2009, Rv. 243590). È perciò affetto da abnormità il provvedimento che, per la singolarità e stranezza del contenuto, risulti avulso dall'intero ordinamento processuale ovvero quello che, pur essendo in astratto manifestazione di legittimo potere, si esplichi al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste, al di là di ogni ragionevole limite.
In particolare, secondo la giurisprudenza di questa Corte, l'abnormità dell'atto processuale può presentarsi sotto due forme, in quanto essa può riguardare o il "profilo strutturale", allorché l'atto - per la sua singolarità - si ponga al di fuori del sistema organico della legge processuale, o il "profilo funzionale", quando esso, pur non estraneo al sistema normativo, determini la stasi del processo e l'impossibilità di proseguirlo (Cass., Sez. Un., n. 26 del 24 novembre 1999, Rv. 215094); non è, invece, abnorme il provvedimento del giudice che, lungi dall'essere avulso dal sistema, costituisce espressione dei poteri riconosciutigli dall'ordinamento e non determina la stasi del procedimento.
Nel caso di specie, è agevole rilevare che l'ordinanza impugnata, nonostante la sua scarsa intelligibilità e a prescindere dalla sua dedotta erroneità, non può ritenersi abnorme né "in senso strutturale" né "in senso funzionale": non "in senso strutturale" perché risponde al modello legale, in quanto costituisce esercizio di un potere specifico del giudice dell'udienza preliminare - quando ne ricorrano i presupposti (si tratti cioè di contestare un "fatto nuovo" non enunciato nella richiesta di rinvio a giudizio) - quello di controllare e autorizzare le contestazioni suppletive ai sensi dell'art. 423, comma 2, c.p.p.; non "in senso funzionale", perché l'ordinanza impugnata non provoca alcuna stasi processuale e non determina una situazione processuale insanabile.
È noto che l'art. 423, comma 1, c.p.p. stabilisce che se, nel corso dell'udienza preliminare, il fatto risulta diverso da come è descritto nell'imputazione ovvero emerge un reato connesso a norma dell'art. 12, comma 1, lett. b), o una circostanza aggravante, il pubblico ministero modifica l'imputazione e la contesta all'imputato presente. In tal caso, la modifica dell'imputazione prescinde dal consenso dell'imputato e dall'autorizzazione del giudice, corrispondendo ad un vero e proprio potere-dovere del pubblico ministero, cui è estraneo alcun profilo di discrezionalità.
Va osservato, in proposito, che tanto l'art. 423 quanto il corrispondente art. 517 c.p.p. (dettato per il dibattimento) richiamano la disposizione dell'art. 12, comma 1, lett. b), la quale originariamente si riferiva solo ai casi di concorso formale e a un ristretto ambito di casi di concorso materiale ("se una persona è imputata di più reati commessi con una sola azione od omissione ovvero con più azioni od omissioni in unità di tempo o di luogo"), ma ora - a seguito delle modifiche introdotte dall'art. 1 del d.l. 20 novembre 1991, n. 367, convertito nella l. 20 gennaio 1992, n. 8 - include nei casi di connessione anche quello del reato continuato ("più azioni od omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso"). Conseguentemente, a seguito di tali modifiche dell'art. 12, comma 1, lett. b) e del loro riflesso sul disposto degli artt. 423 e 517 c.p.p., il pubblico ministero può ora contestare, senza il consenso dell'imputato e senza l'autorizzazione del giudice (sia nell'udienza preliminare sia nel dibattimento), il "reato continuato", ossia una condotta materialmente distinta da quella in ordine alla quale si procede.
Si tratta di una fattispecie - quella in cui si tratti di contestare il reato continuato - radicalmente diversa da quella in cui si tratti di contestare la "diversità del fatto" o una circostanza aggravante (fattispecie queste previste, per l'udienza preliminare, nel medesimo art. 423, comma 1, e, per il dibattimento, negli artt. 516 e 517 c.p.p.), perché, nel caso di "reato continuato", è possibile l'esercizio di un'azione penale separata, come nel caso del "fatto nuovo"; mentre non è possibile il separato esercizio dell'azione penale nel caso in cui risulti la "diversità del fatto" o la sussistenza di una circostanza aggravante.
Quanto detto vuol dire che, ove il giudice, erroneamente qualificando il fatto contestato dal pubblico ministero come "fatto nuovo", piuttosto che come "reato continuato", neghi l'autorizzazione alla nuova contestazione, non per questo si determinerà una stasi del procedimento: si determinerà solo la impossibilità di celebrare il simultaneus processus, ma resterà salva la possibilità per il pubblico ministero di esercitare separatamente l'azione penale.
Non così sarebbe, invece, qualora il giudice impedisse al pubblico ministero di contestare una circostanza aggravante o il "fatto diverso", perché in queste ipotesi - trattandosi del medesimo fatto contestato - non sarà possibile - per il principio del "ne bis in idem" enunciato dall'art. 649 c.p.p. (c.d. "divieto di nuovo giudizio") - un nuovo e separato esercizio dell'azione penale e il giudicato sul fatto originariamente contestato precluderà un nuovo esercizio dell'azione penale in ordine al medesimo fatto, sia pure diversamente descritto.
È questa la ragione per la quale la giurisprudenza di questa Corte - sia pure con riferimento alla disciplina delle nuove contestazione nel dibattimento dettata dagli artt. 516 e 517 c.p.p. - ha affermato che è abnorme, e come tale ricorribile per cassazione, il provvedimento con il quale il giudice del dibattimento disponga la trasmissione degli atti al P.M., inibendogli l'esercizio dell'azione penale attraverso la facoltà di modificare o integrare l'imputazione, a norma degli artt. 516 e 517 c.p.p., quando si tratti di contestare in via suppletiva il "fatto diverso" (Sez. 6, n. 37577 del 15 ottobre 2010, Rv. 248539) o una circostanza aggravante (Sez. 5, n. 2673 del 2 giugno 1999, Rv. 213970).
Tuttavia, per le ragioni dianzi dette, tale principio non può valere allorché si tratti di contestare nuovi fatti di reato legati col vincolo della continuazione a quelli già contestati, giacché in tal caso - a fronte della negazione (sia pure errata) del simultaneus processus da parte del giudice - non rimane precluso il separato esercizio dell'azione penale da parte del pubblico ministero.
In conclusione, l'ordinanza impugnata non può qualificarsi "abnorme", sia perché (a prescindere dalla sua correttezza) risponde al modello legale, sia perché non determina comunque la stasi del procedimento.
Sul punto, va enunciato il seguente principio di diritto:
«Non è impugnabile per cassazione, in quanto non è abnorme, l'ordinanza con la quale il giudice dell'udienza preliminare nega al pubblico ministero, nel corso della stessa udienza, la possibilità di contestare - a norma degli artt. 423, comma 1, e 12, comma 1, lett. b), c.p.p. - nuovi fatti di reato legati col vincolo della continuazione a quelli già contestati, in quanto tale provvedimento - per quanto possa essere errato in ordine alla qualificazione giuridica della nuova contestazione - non priva il pubblico ministero della possibilità di esercitare separatamente l'azione penale e rientra nell'ambito delle prerogative del giudice dell'udienza preliminare, che ha il dovere di controllare se la contestazione del pubblico ministero non riguardi un "fatto nuovo" e non sia impedita dalla negazione del consenso da parte dell'imputato».
3. Alla luce di tale principio, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso.
Depositata il 10 marzo 2015.