Corte di cassazione
Sezioni unite civili
Sentenza 1° aprile 2015, n. 6606

Presidente: Salmè - Estensore: Di Iasi

RITENUTO IN FATTO

IMC s.n.c., subentrata a Energia Petroli 2000 s.r.l. nella gestione di un impianto di distribuzione carburanti, chiese ed ottenne dal Comune di Foligno l'autorizzazione alla riattivazione dell'impianto previa ristrutturazione, nonché dall'ANAS la voltura della concessione già esistente in favore di EP 2000 s.r.l.

Silca s.r.l., titolare di stazione di servizio nel Comune di Spello, sita a circa due chilometri di distanza dalla stazione IMC, impugnò i suddetti provvedimenti dinanzi al TAR, che accolse il ricorso.

Il Consiglio di Stato, in accoglimento dell'appello proposto da IMC, ha affermato il difetto di legittimazione di Silca, non essendo astrattamente configurabile alcuna posizione di interesse legittimo in capo alla suddetta società. In particolare il C.d.S. ha affermato che la disciplina nazionale in materia di impianti di carburante è stata sottoposta ad un severo scrutinio da parte del giudice comunitario, essendo stato l'art. 43 CE - letto in combinato con l'art. 48 CE (ora rispettivamente artt. 49 e 54 TFUE) - interpretato nel senso che una normativa prevedente - come quella italiana statale e regionale - limitazioni alle distanze tra impianti di distribuzione di carburante, costituisce una restrizione alla libertà di stabilimento sancita dal Trattato e viola pertanto le norme sulla concorrenza previste a livello comunitario.

Inoltre, con specifico riguardo all'interesse di Silca "a pretendere il rispetto da parte dell'operatore concorrente di tutte le disposizioni di legge che regolano l'attività esercitata" (affermato dal TAR), il Consiglio di Stato ha in particolare precisato che, secondo i parametri comunitari, la concorrenza non è di per sé fattore legittimante quando è preordinata ad inibire l'esercizio della medesima attività da parte di altri operatori, aggiungendo che l'omesso rispetto della normativa di settore non sostanzia un interesse autonomamente apprezzabile in capo a Silca (che non sia sostanzialmente identificabile con la limitazione della concorrenza), posto che la suddetta omissione non influisce in alcun modo sull'attività svolta da Silca ma riguarda unicamente l'adeguatezza dell'impianto di ICM sotto alcuni specifici profili di sicurezza pubblica, la cui verifica è affidata alla competenza esclusiva dell'ANAS.

Per la cassazione di questa sentenza Silca s.r.l. ricorre nei confronti di Anas s.p.a., Imc s.n.c., Comune di Foligno e Provincia di Perugia, successivamente depositando memoria. Imc resiste con controricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Deducendo "violazione degli articoli 1, 2, 6, 7, 9 e 11 del Codice del processo amministrativo, dei principi generali e delle disposizioni di cui agli artt. 103 e 111 Cost., dell'art. 44 della Carta dei diritti fondamentali dell'U.E. e degli artt. 6 e 13 della CEDU, in relazione all'art. 360 n. 1 c.p.c.", la ricorrente rileva innanzitutto che la decisione del C.d.S. si fonderebbe sulla erronea convinzione che nella specie la questione proposta al giudice amministrativo riguardi le distanze tra impianti di distribuzione, mentre essa riguarderebbe la distanza tra l'uscita degli impianti e gli svincoli stradali - essendo stata denunciata la legittimità delle autorizzazioni rilasciate a IMC ai sensi dell'art. 21 delle norme tecniche approvate dall'ANAS - nonché la lunghezza dell'aiuola spartitraffico ai sensi dell'art. 49 delle stesse norme tecniche. La ricorrente sostiene inoltre che, escludendo la legittimazione attiva della società ricorrente, il C.d.S. avrebbe negato in assoluto la tutela concreta ed effettiva dell'interesse dedotto in giudizio (consistente nella pretesa che la libertà di concorrenza venga esercitata nel rispetto delle norme poste a tutela dell'interesse pubblico), onde il difetto di legittimazione affermato in capo alla odierna ricorrente si risolverebbe in un diniego assoluto di tutela effettiva degli interessi del tipo di quello concretamente dedotto in giudizio.

La censura è inammissibile.

Giova innanzitutto premettere (solo ai fini della necessaria precisione) che il ricorso in esame deve intendersi proposto ai sensi dell'art. 362, primo comma, c.p.c. (norma prevedente l'ipotesi di ricorso per motivi attinenti alla giurisdizione proposto avverso le decisioni - in grado d'appello o in unico grado - di un giudice speciale) e non ai sensi dell'art. 360, n. 1, c.p.c., norma invocata dalla ricorrente e riguardante la diversa ipotesi di impugnazione per motivi attinenti alla giurisdizione proposta avverso le sentenze pronunciate (in grado d'appello o in unico grado) dal giudice ordinario.

È ancora da rilevare che non risponde al vero che la decisione del C.d.S. si fondi esclusivamente sulla (asseritamente) erronea premessa che la questione proposta riguardi soltanto un problema di distanze tra impianti, in quanto, come già sopra specificato, il suddetto giudice ha comunque preso in considerazione la denuncia del mancato rispetto della normativa di settore.

È infine ulteriormente da precisare che - a differenza di quanto sembra voler lasciare intendere parte ricorrente nell'invocare la giurisprudenza sul rifiuto di giurisdizione - il C.d.S. non ha affatto affermato che la domanda proposta non avrebbe mai potuto avere tutela, ma ha precisato che, con riguardo al denunciato mancato rispetto della normativa di settore, non è nella specie apprezzabile un autonomo interesse di Silca (che non sia identificabile con quello di limitare la concorrenza, come tale in sé non meritevole di tutela alla stregua della richiamata giurisprudenza comunitaria) in quanto le presunte violazioni della normativa di settore da parte di IMC non incidono in alcun modo sull'attività svolta da Silca ma si riferiscono soltanto all'adeguatezza dell'impianto di ICM sotto specifici profili di sicurezza pubblica.

Il C.d.S. ha dunque esaminato in tutti i suoi aspetti la domanda proposta ed ha motivatamente dichiarato l'inammissibilità del ricorso introduttivo di Silca per difetto di legittimazione.

La questione nei termini di rifiuto di giurisdizione risulta pertanto mal posta, non venendo nella specie in considerazione il principio secondo il quale la questione di giurisdizione si presenta non solo quando sia in discussione la circostanza che essa spetti al giudice cui la parte si è rivolta - in quanto solo al medesimo competa di provvedere - ma anche allorché si debba stabilire se, in base alla norma attributiva della giurisdizione, ricorrano le condizioni alla cui presenza il giudice abbia il dovere di esercitarla (v. in proposito S.U. n. 30254 del 2008, seguita tra le altre da S.U. n. 2065 del 2011 e n. 15428 del 2012).

La giurisprudenza di queste Sezioni Unite ha infatti in proposito chiarito che il ricorso col quale venga denunciato un rifiuto di giurisdizione da parte del giudice amministrativo rientra fra i motivi attinenti alla giurisdizione, ai sensi dell'art. 362 c.p.c., soltanto se il rifiuto sia stato determinato dalla affermata estraneità della domanda alle attribuzioni giurisdizionali dello stesso giudice, che non possa per questo essere da lui conosciuta (v. S.U. n. 3037 del 2013), onde l'evoluzione del concetto di giurisdizione nel senso di strumento per la tutela effettiva delle parti comunque non giustifica il ricorso avverso le sentenze del Consiglio di Stato, ai sensi dell'art. 111, comma 8, Cost., quando non si verta in ipotesi di aprioristico diniego di giustizia (cfr. S.U. n. 10294 del 2012), ma la tutela giurisdizionale si assuma negata dal giudice speciale in conseguenza di errori "in iudicando" o "in procedendo" che si prospettino dal medesimo commessi in relazione allo specifico caso (cfr. anche S.U. n. 771 del 2014), dovendo aggiungersi che la giurisprudenza di queste Sezioni Unite, con riguardo al sindacato sulle decisioni del Consiglio di Stato per motivi inerenti alla giurisdizione, ha chiarito che è configurabile l'eccesso di potere giurisdizionale con riferimento alle regole del processo amministrativo solo nel caso di radicale stravolgimento delle norme di rito, tale da implicare un evidente diniego di giustizia (v. tra le altre S.U. n. 15428 del 2012).

Peraltro, ove anche il problema si ponesse eventualmente in relazione alla interpretazione della giurisprudenza comunitaria (alla quale in ipotesi potrebbe essere stata data una lettura estensiva), l'eventuale erroneità della decisione sul punto non la renderebbe perciò solo sindacabile in questa sede (v. tra le altre S.U. n. 2242 del 2015, secondo la quale il controllo del limite esterno della giurisdizione - che l'art. 111, ottavo comma, Cost., affida alla Corte di cassazione - non include il sindacato sulle scelte ermeneutiche del giudice amministrativo, suscettibili di comportare errori "in iudicando" o "in procedendo" per contrasto con il diritto dell'Unione europea, salva l'ipotesi, "estrema", in cui l'errore si sia tradotto in una interpretazione delle norme europee di riferimento in contrasto con quelle fornite dalla Corte di Giustizia Europea, sì da precludere l'accesso alla tutela giurisdizionale dinanzi al giudice amministrativo).

Il ricorso deve essere pertanto dichiarato inammissibile e la soccombente deve essere conseguentemente condannata alle spese del presente giudizio liquidate come in dispositivo.

Deve darsi atto che la resistente nel controricorso, ritenendo che vi sia stato abuso del processo da parte della Silca, ne ha chiesto la condanna ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c.

In proposito occorre preliminarmente rilevare che il risarcimento per responsabilità aggravata, di cui all'art. 96, terzo comma, c.p.c., può essere richiesto dalle parti o riconosciuto d'ufficio dal giudice - con condanna del soccombente al pagamento di somma determinata anche in via equitativa - pure nel giudizio di legittimità, essendo stato abrogato, dall'art. 46, comma 20, l. n. 69 del 2009, il terzo comma dell'art. 385 c.p.c. già previsto per tale giudizio e fondato sui medesimi presupposti dell'art. 96, comma 3, citato (v. Cass. n. 4925 del 2013).

Tanto premesso, il collegio ritiene di dare continuità alla giurisprudenza di questo giudice di legittimità formatasi in ordine all'art. 385, comma 3, c.p.c. (prima) ed all'art. 96, comma 3, c.p.c. (poi), secondo la quale la condanna in esame, avendo natura sanzionatoria ed officiosa, presuppone la mala fede o colpa grave della parte soccombente (v. Cass. n. 3003 del 2014), anche perché agire in giudizio per far valere una pretesa che si rivela infondata non è condotta di per sé rimproverabile (v. tra le altre Cass. n. 21570 del 2012), e non è perciò sufficiente ai fini della condanna in questione la mera infondatezza, anche manifesta, delle tesi prospettate (v. tra le altre Cass. n. 22812 del 2013).

In particolare, secondo la citata giurisprudenza, non è configurabile abuso del processo ogni volta che la parte agisca o resista in giudizio in maniera anche palesemente infondata, configurandosi invece il suddetto abuso solo quando, in evidente violazione dei canoni generali di correttezza e buona fede, nonché di lealtà processuale e del giusto processo, il processo venga utilizzato a fini dilatori ovvero per ottenere un beneficio connesso alla sua pendenza, in assenza di intenti diversi dall'uso strumentale ed opportunistico del suddetto processo, ovvero quando venga esercitato nel processo il proprio diritto in forme eccedenti o devianti rispetto alla tutela dell'interesse sostanziale (v. tra le altre Cass. n. 1271 del 2014 in materia tributaria e con riguardo ad impugnazione finalizzata al solo scopo di precostituirsi il presupposto per fruire di un condono, ovvero tra le altre Cass. n. 3207 del 2012 in tema di equa riparazione).

Nella specie non ricorrono i suddetti presupposti, non risultando alcun elemento (al di là della mera inammissibilità dell'impugnazione) per affermare che Silca abbia proposto la suddetta impugnazione in mala fede o con colpa grave e comunque al solo fine di strumentalizzare il processo in vista di un interesse diverso rispetto a quello conseguibile in caso di accoglimento della impugnazione medesima, pertanto non sussistono i presupposti per l'invocata condanna ai sensi del comma 3 dell'art. 96 c.p.c.

P.Q.M.

La Corte a Sezioni Unite dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente alle spese del presente giudizio che si liquidano in Euro 8.000,00 oltre Euro 200,00 per esborsi, spese forfetarie nella misura del 15% ed accessori di legge, dandosi atto ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115 del 2002 della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis del medesimo articolo.