Corte di cassazione
Sezione VI civile
Sentenza 11 giugno 2015, n. 12134
Presidente: Petitti - Estensore: Petitti
Ritenuto che, con ricorso depositato in data 11 novembre 2011 presso la Corte d'appello di Potenza, C. Miranda, V. Celimanna, R. Clara, nonché C. Francesca, C. Maria Rosaria e R. Lucia, nella qualità di eredi di C. Santo Antonio deceduto il 4 giugno 2006, chiedevano la condanna del Ministero della giustizia al pagamento del danno non patrimoniale derivato dalla irragionevole durata della procedura concernente il fallimento della Ditta "EMAG di Magagnino Eupremio", iniziata con dichiarazione di fallimento da parte del Tribunale di Lecce in data 17 luglio 1980;
che l'adita Corte d'appello, stimata come ragionevole una durata di sette anni e considerato che l'inizio del procedimento per ciascun creditore doveva essere individuato nella data di insinuazione al passivo, riteneva che fosse indennizzabile un ritardo di quattordici anni nei confronti di C. Miranda, R. Clara e V. Celimanna, mentre per i ricorrenti C. Francesca, C. Maria Rosaria e R. Lucia, quali eredi di C. Santo Antonio, la durata della procedura fallimentare doveva arrestarsi alla data del decesso del loro dante causa; liquidava, quindi, un indennizzo di euro 2.170,00 in favore di C. Miranda, di euro 1.447,00 in favore di V. Celimanna, di euro 1.653,00 in favore di R. Clara e di euro 2.583,00 in favore di C. Francesca, C. Maria Rosaria e R. Lucia, nei limiti della quota ereditaria, oltre interessi al tasso legale dalla data di presentazione della domanda al soddisfo, sul presupposto che l'indennizzo per irragionevole durata non dovesse superare il valore della causa;
che avverso questo decreto i ricorrenti in epigrafe indicati hanno proposto ricorso affidato a quattro motivi;
che l'intimato Ministero ha resistito con controricorso.
Considerato che il Collegio ha deliberato l'adozione della motivazione semplificata nella redazione della sentenza;
che con il primo motivo i ricorrenti denunciano violazione dell'art. 2 della l. n. 89 del 2001, degli artt. 2056, 1223 e 1226 c.c., dell'art. 1 della l. cost. n. 2 del 1999, dell'art. 6, par. 1, della CEDU, dell'art. 11 delle preleggi, dell'art. 55 del d.l. n. 83 del 2012 e dell'art. 2-bis della l. n. 134 del 2012, nonché vizio di motivazione contraddittoria e omesso esame su fatti decisivi, censurando il decreto impugnato per avere la Corte d'appello fatto applicazione della disposizione da ultimo citata - la quale effettivamente prevede che l'indennizzo non possa superare il valore della causa in relazione alla quale viene chiesto -, sebbene la stessa sia applicabile ai soli ricorsi depositati dopo l'entrata in vigore della legge di conversione, e per avere la Corte d'appello inspiegabilmente ritenuto che la durata irragionevole della procedura presupposta fosse di quattordici anni anziché di ventiquattro, atteso che la stessa aveva avuto una durata complessiva di circa trentuno anni;
che con il secondo motivo i ricorrenti denunciano altra violazione dell'art. 2 della l. n. 89 del 2001, degli artt. 2056, 1223 e 1226 c.c. e dell'art. 429 c.p.c., nonché vizio di motivazione contraddittoria e omesso esame su fatti decisivi, censurando il decreto impugnato nella parte in cui il giudice di seconda istanza non ha concesso, in aggiunta alla condanna della sorte capitale, il maggior danno subito dai lavoratori per la diminuzione del credito oltre gli interessi legali, da accordarsi, come previsto per i giudizi di lavoro, dalla maturazione al soddisfo;
che con il terzo motivo i ricorrenti denunciano la violazione dell'art. 110 c.p.c., nonché vizio di motivazione contraddittoria e omesso esame su fatti decisivi, in relazione alla posizione delle ricorrenti C. Francesca, C. Maria Rosaria e R. Lucia, in qualità di eredi di C. Santo Antonio, per le quali viene fatta cessare la durata non ragionevole del processo alla data del decesso di quest'ultime, avvenuta in data 4 giugno 2006;
che con il quarto motivo i ricorrenti denunciano la violazione dell'art. 3 Cost., degli artt. 2056, 1223 e 1226 c.c., nonché vizio di motivazione e omesso esame su fatti decisivi, per avere la adita Corte liquidato l'indennizzo tenendo conto del valore dei crediti ammessi al passivo e dunque in misura non omogenea per tutti i ricorrenti, nonché vizio di motivazione sul punto;
che all'esame dei motivi occorre premettere che la presente controversia non è soggetta, ratione temporis, all'applicazione delle disposizioni introdotte dal d.l. n. 83 del 2012, convertito, con modificazione, dalla l. n. 134 del 2012, applicabili ai ricorsi depositati a decorrere dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione;
che, del resto, alle disposizioni introdotte nel 2012 non può neanche riconoscersi natura di norme di interpretazione autentica, atteso che, se è vero che per alcuni aspetti vengono recepiti orientamenti della giurisprudenza di questa Corte mutuati dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, non vi è nulla nel d.l. n. 83 del 2012 che possa indurre a ritenere che il legislatore abbia inteso attribuire alle nuove disposizioni efficacia retroattiva, avendo anzi espressamente dettato una specifica previsione per la entrata in vigore dalla nuova disciplina;
che, tanto premesso, il primo motivo di ricorso è fondato in entrambi i profili nei quali si articola;
che è innanzitutto fondato il motivo nella parte in cui censura il decreto della Corte d'appello perché in esso pur dandosi atto di una durata complessiva della procedura fallimentare di trentuno anni circa e pur affermandosi che la durata ragionevole avrebbe dovuto essere di sette anni, la durata irragionevole viene poi individuata in quattordici anni anziché in ventiquattro anni;
che è fondato anche il profilo relativo al quantum dell'indennizzo liquidato, atteso che, come già rilevato e come disposto dall'art. 55, comma 2, del d.l. n. 83 del 2012, modificativo della l. n. 89 del 2001, le previsioni nello stesso contenute si applicano ai ricorsi depositati dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del decreto, ovvero dall'11 settembre 2012;
che, essendo stato il ricorso in questione depositato in un momento antecedente a tale data, nessuna delle nuove disposizioni può essere ad esso direttamente applicata, con la conseguenza che il decreto impugnato è errato nella parte in cui statuisce che, non potendo l'indennizzo superare il valore della causa, lo stesso deve essere liquidato nella minor somma tra la somma astrattamente riconosciuta spettante e quella in concreto ammessa al passivo della procedura;
che il secondo e il quarto motivo di ricorso rimangono assorbiti dall'accoglimento del primo;
che il terzo motivo di ricorso è infondato;
che la continuità della posizione processuale degli eredi intervenuti rispetto a quella del dante causa prevista dall'art. 110 c.p.c., nel caso di specie delle ricorrenti C. Francesca, C. Maria Rosaria e R. Lucia, non toglie che il sistema sanzionatorio delineato dalla CEDU e tradotto in norme nazionali dalla l. n. 89 del 2001, non si fonda sull'automatismo di una pena pecuniaria a carico dello Stato, ma sulla somministrazione di sanzioni riparatorie a beneficio di chi dal ritardo abbia ricevuto danni patrimoniali o non patrimoniali, mediante indennizzi modulabili in relazione al concreto patema subito, il quale presuppone la conoscenza del processo e l'interesse alla sua rapida conclusione (principio oramai consolidato: vedi, da ultimo, Cass. n. 10517 dal 2013; Cass. n. 995 del 2012);
che, dunque, essendo presupposto ineliminabile per la legittimazione a far valere l'equa riparazione l'incidenza che la non congrua durata del giudizio abbia su chi di quel giudizio sia chiamato a far parte, non vi è luogo a discorrere di equa riparazione sin tanto che il chiamato all'eredità non sia, quanto meno, evocato in riassunzione, atteso che fino a quel momento può mancare addirittura la prova dell'assunzione - per accettazione espressa o per facta concludentia - della stessa qualità di erede (Cass. n. 4003 del 2014);
che tale principio risulta estensibile anche al caso in cui il procedimento presupposto sia una procedura fallimentare in quanto, senza una espressa manifestazione in tal senso da parte dell'erede, alcuna prova può essere data del patema d'animo sofferto in proprio dallo stesso a causa della lungaggine processuale;
che, dunque, accolto il primo motivo di ricorso, assorbiti il secondo e il quarto, rigettato il terzo, il decreto impugnato deve essere cassato;
che, tuttavia, non apparendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito ai sensi dell'art. 384, secondo comma, c.p.c.;
che, infatti, accertata la irragionevole durata della procedura fallimentare in anni ventiquattro, alla liquidazione dell'indennizzo può procedersi applicando il criterio di 500,00 euro per anno di ritardo, ritenuto dalla più recente giurisprudenza congruo in relazione alle procedure fallimentari (Cass. n. 16311 del 2014), e determinando quindi l'ammontare dell'indennizzo in favore dei ricorrenti C. Miranda, R. Clara e V. Celimanna in euro 12.000,00 ciascuno;
che, in riferimento alle ricorrenti C. Francesca, C. Maria Rosaria e R. Lucia - sul presupposto che le stesse agiscono nella qualità di eredi di C. Santo Antonio, deceduto nel 2006 -, la durata irragionevole va determinata in diciannove anni, sicché l'indennizzo ad esse spettanti, applicando il medesimo criterio di 500,00 euro per anno di ritardo, ammonta a euro 9.500,00;
che il Ministero della giustizia deve quindi essere condannato al pagamento, in favore dei ricorrenti C. Miranda, R. Clara e V. Celimanna, della somma di euro 12.000,00 ciascuno e, in favore dei ricorrenti C. Francesca, C. Maria Rosaria e R. Lucia, nella qualità di eredi di C. Santo Antonio, della somma di euro 9.500,00 da dividersi in proporzione delle rispettive quote ereditarie, oltre agli interessi legali dalla domanda al soddisfo, ferma la statuizione relativa alle spese del giudizio di merito, ivi compresa la distrazione in favore del difensore antistatario;
che il Ministero deve essere condannato altresì alla rifusione delle spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbiti il secondo e il quarto; rigetta il terzo; cassa il decreto impugnato in relazione alle censure accolte e, decidendo nel merito, condanna il Ministero della giustizia al pagamento, in favore di ciascuno dei ricorrenti C. Miranda, R. Clara e V. Celimanna, della somma di euro 12.000,00 e, in favore dei ricorrenti C. Francesca, C. Maria Rosaria e R. Lucia, quali eredi di C. Santo Antonio, della somma di euro 9.500,00, in proporzione delle rispettive quote ereditarie, oltre agli interessi legali dalla data della domanda al saldo, ferme le statuizioni in ordine alle spese del giudizio di merito; condanna altresì il Ministero alla rifusione delle spese [del] giudizio di cassazione, in euro 700,00 per compensi, oltre agli accessori di legge e alle spese forfettarie.