Consiglio di Stato
Sezione IV
Sentenza 3 novembre 2015, n. 4999
Presidente: Giaccardi - Estensore: Castiglia
FATTO
Con decreto n. 495 del 25 ottobre 2012, il Ministero della difesa ha inflitto alla signora [omissis], tenente dell'Arma dei carabinieri in s.p.e., la sanzione disciplinare della perdita del grado per rimozione a norma dell'art. 861, comma 1, lett. d), del d.lgs. 15 marzo 2010, n. 66.
Il provvedimento rimproverava all'incolpata la frequentazione di una persona di dubbia condotta morale e civile, il mendacio alle contestazioni mosse in uno degli episodi contestati, l'omessa comunicazione al Comando degli eventi nei quali era rimasta coinvolta, nonostante una precedente sanzione disciplinare per la medesima mancanza.
La signora [omissis] ha impugnato il provvedimento insieme con gli atti connessi, proponendo un ricorso che il T.A.R. per il Lazio, sez. I-bis, ha respinto con sentenza 17 luglio 2014, n. 7702.
La ricorrente ha dedotto:
1. violazione del principio nemo tenetur se detegere: sarebbe erroneo e contrario ai principi dell'ordinamento giuridico ritenere che il militare sottoposto a procedimento disciplinare abbia il dovere giuridico di non mentire;
2. eccesso di potere per falsità o erroneità dei presupposti: le verrebbe rimproverata la frequentazione di un pregiudicato, a carico del quale nulla invece risulterebbe al casellario giudiziale;
3. violazione e falsa applicazione di legge: la mancata comunicazione al Comando, imputata alla ricorrente, sarebbe avvenuta in un momento in cui si trovava in aspettativa per motivi di studio, quindi nell'ambito di un rapporto di servizio provvisoriamente quiescente; la recidiva contestata avrebbe dovuto comportare la sanzione del rimprovero, superiore a quella già irrogata del richiamo, e non con la perdita del grado;
4. violazione delle norme costituzionali e internazionali a tutela del matrimonio e della famiglia: la frequentazione rimproverata avrebbe condotto alla formazione di un nucleo familiare, cioè a un bene giuridico costituzionalmente tutelato;
5. violazione dei principi di ragionevolezza, proporzionalità, equità, gradualità delle sanzioni.
Il Tribunale regionale ha ricostruito diffusamente l'articolata vicenda, che si inizia con un primo procedimento disciplinare avviato nel 2010 conclusosi nello stesso anno con la sanzione di corpo del richiamo, e ha ritenuto infondati i cinque motivi del ricorso.
La signora [omissis] ha interposto appello contro la sentenza di cui ha anche chiesto la sospensione dell'efficacia esecutiva, con una domanda cautelare sulla quale non ha insistito nella camera di consiglio del 14 aprile 2015 ove, sull'accordo delle parti, la causa è stata rinviata al merito.
L'appello espone dettagliatamente i motivi del ricorso introduttivo e censura la sentenza di primo grado, che costituirebbe "una sorta di reprimenda moraleggiante".
I motivi dell'appello, oltre alla violazione e falsa applicazione del principio nemo tenetur se detegere, consistono nella:
1. mancanza di presupposti di fatto e di diritto: la sentenza si risolverebbe in un astratto sillogismo e trascurerebbe il fatto che il primo provvedimento disciplinare non sarebbe mai stato revocato; solo in un momento successivo l'appellante avrebbe instaurato la relazione in questione;
2. omessa valutazione della carenza di istruttoria: mancherebbe una valutazione complessiva dell'odierna appellante nella concretezza della sua personalità;
3. ulteriore mancata valutazione della carenza istruttoria: l'Amministrazione argomenterebbe per presunzioni (non sarebbe provato che, al momento di uno degli episodi contestati - il fermo insieme con l'altro soggetto, sottrattosi all'obbligo di dimora - sussistesse la relazione sentimentale; il soggetto "controindicato" risulterebbe libero da precedenti al casellario giudiziale e sarebbe stato poi prosciolto dalle accuse mossegli);
4. confusione dei presupposti: il provvedimento impugnato richiamerebbe a base dell'istruttoria una serie di violazioni che si differenzierebbero solo nominalmente;
5. elusione del principio di proporzionalità e vizio della motivazione, nel senso di una rappresentazione dei fatti intervenuti più grave rispetto alla realtà.
L'Amministrazione della difesa si è costituita in giudizio per resistere all'appello, senza svolgere difese.
La signora [omissis] ha riassunto le proprie ragioni in una successiva memoria, sostenendo di essere già stata giudicata nel precedente procedimento disciplinare per i medesimi fatti e che la sua condotta potrebbe essere considerata al più una leggerezza.
All'udienza pubblica dell'8 ottobre 2015, l'appello è stato chiamato e trattenuto in decisione.
DIRITTO
L'appellante si impegna fortemente nella critica all'impostazione della sentenza di primo grado, ma non ne contesta l'esposizione dei fatti posti a fondamento, cosicché questi devono darsi per assodati - vigendo la presunzione posta dall'art. 64, comma 2, c.p.a. - e per richiamati nella presente sede nella loro integrale narrazione.
In estrema sintesi:
vi è stato un primo procedimento disciplinare, avviato a seguito della circostanza che le Forze di polizia avevano trovato l'appellante in compagnia di una persona di "dubbia condotta morale e civile" durante un controllo nella sua abitazione;
il procedimento è terminato con l'irrogazione della sanzione del richiamo, perché, avendo il Comando ritenuto credibili le giustificazioni addotte circa alcune contestazioni, l'interessata è stata punita per la sola mancata comunicazione del controllo di polizia subito;
successivamente, in due diversi episodi, l'appellante è stata trovata in compagnia della medesima persona nel corso di operazioni, l'una delle quali è si conclusa con l'arresto di quest'ultima in esecuzione di una misura della custodia cautelare in carcere e l'altra con la denuncia all'A.G. per violazione della misura cautelare personale;
ne è seguito il secondo procedimento disciplinare, che ha avuto come esito la perdita del grado per rimozione.
Il provvedimento disciplinare rimprovera all'incolpata:
il mendacio alle contestazioni a lei mosse in occasione di uno dei predetti episodi;
la recidiva nella frequentazione della persona "controindicata";
l'omessa comunicazione al Comando degli eventi in cui era stata coinvolta, nonostante la precedente sanzione per la stessa mancanza.
L'appellante non replica a queste contestazioni, ma critica l'impianto complessivo del provvedimento espulsivo prima, della sentenza di primo grado poi.
Alcune delle difese della signora [omissis] non possono essere condivise.
A questo riguardo, il Collegio osserva che:
nell'ambito del rapporto di subordinazione gerarchica e alla luce degli specifici doveri che ne derivano, a tutela di un particolare interesse pubblico, non esiste per il militare il diritto di mentire;
per le stesse ragioni, il principio nemo tenetur se detegere vale a escludere la responsabilità penale, non quella disciplinare, tenuto conto delle particolari esigenze di disciplina che caratterizzano i corpi militari;
viene rimproverata la frequentazione non di un pregiudicato, ma di una "persona di dubbia condotta morale e civile";
l'aspettativa per motivi di studio varrebbe solo per una delle contestazioni (omessa comunicazione) ed è comunque infondata, posto che il rapporto di servizio permane tuttavia, con i doveri connessi, anche se temporaneamente quiescente;
non vi è contraddizione con il precedente provvedimento disciplinare che si riferisce a un episodio diverso (quello del 2009), riguarda solo una contestazione (omessa comunicazione) e non può certo vincolare l'Amministrazione a infliggere la sola sanzione di corpo immediatamente superiore;
non sono utili le norme costituzionali e internazionali invocate: nulla impedisce alla signora [omissis] di instaurare una relazione affettiva e di contrarre matrimonio, come ha fatto, fermo il potere dell'Arma di valutare ragionevolmente la compatibilità di queste situazioni con il decoro dell'Istituzione.
Qui sta appunto il cuore della questione: se cioè, adottando il provvedimento espulsivo, l'Amministrazione abbia violato i principi generali evocati dall'appellante (proporzionalità, ragionevolezza, equità, gradualità).
A questo proposito, il Collegio ritiene di non discostarsi dalle considerazioni svolte in una recente decisione della Sezione (26 febbraio 2015, n. 964).
Come è noto, il principio di proporzionalità, di derivazione europea, impone all'Amministrazione di adottare un provvedimento non eccedente quanto è opportuno e necessario per conseguire lo scopo prefissato.
Alla luce di tale principio, nel caso in cui l'azione amministrativa coinvolga interessi diversi, è doverosa un'adeguata ponderazione delle contrapposte esigenze, al fine di trovare la soluzione che comporti il minor sacrificio possibile: in questo senso, il principio in esame rileva quale elemento sintomatico della correttezza dell'esercizio del potere discrezionale in relazione all'effettivo bilanciamento degli interessi.
Date tali premesse, la proporzionalità non deve essere considerata come un canone rigido e immodificabile, ma si configura quale regola che implica la flessibilità dell'azione amministrativa e, in ultima analisi, la rispondenza della stessa alla razionalità e alla legalità.
In definitiva, il principio di proporzionalità va inteso "nella sua accezione etimologica e dunque da riferire al senso di equità e di giustizia, che deve sempre caratterizzare la soluzione del caso concreto, non solo in sede amministrativa, ma anche in sede giurisdizionale" (cfr. da ultimo C.d.S., sez. V, 21 gennaio 2015, n. 284).
Parallelamente, la ragionevolezza costituisce un criterio al cui interno convergono altri principi generali dell'azione amministrativa (imparzialità, uguaglianza, buon andamento): l'Amministrazione, in forza di tale principio, deve rispettare una direttiva di razionalità operativa al fine di evitare decisioni arbitrarie o irrazionali.
In virtù di tale principio, l'azione dei pubblici poteri non deve essere censurabile sotto il profilo della logicità e dell'aderenza ai dati di fatto risultanti dal caso concreto: da ciò deriva che l'Amministrazione, nell'esercizio del proprio potere, non può applicare meccanicamente le norme, ma deve necessariamente eseguirle in coerenza con i parametri della logicità, proporzionalità e adeguatezza.
Nella specie, i comportamenti addebitati all'appellante, verosimilmente adottati sotto il dominio del sentimento, manifestano senz'altro ingenuità e scarsa consapevolezza delle conseguenze dei propri atti. Si tratta certo di condotte censurabili, tali da meritare sanzione disciplinare, ma non è dimostrato in modo convincente che, nel loro complesso, esse appaiano così radicalmente incompatibili con il mantenimento dello status da recidere il rapporto fiduciario con l'Amministrazione. Ciò anche alla luce della circostanza che a carico della signora [omissis] non è stata formulata alcuna imputazione penale (è agli atti solo un'informazione di garanzia) e che - secondo le affermazioni rese dalla difesa dell'appellante in udienza e non contraddette dall'Avvocatura generale - la persona "controindicata" è stata assolta con formula piena all'esito del processo penale instaurato nei suoi confronti.
Il Collegio ritiene indispensabile sottolineare quanto la vicenda considerata sia diversa da quelle in cui vengono in questione fatti di rilievo penale o di possesso di sostanze stupefacenti, accertati a carico di un militare, rispetto ai quali - per l'obiettiva gravità della condotta, la contiguità con la malavita e i rischi di ricatti o di indebiti pressioni che ne possono nascere - l'Amministrazione ha amplissima discrezionalità nel valutare i fatti contestati e accertati in relazione con la permanenza del rapporto di servizio, a nulla rilevando la personalità dell'incolpato e i suoi precedenti di carriera (cfr. per tutte, da ultimo, sez. IV, 20 gennaio 2015, n. 123; Id., sez. IV, 16 giugno 2015, n. 2975; ivi riferimenti ulteriori).
Nella specie, invece, la sanzione inflitta appare sproporzionata a fronte delle condotte rimproverate e deve essere annullata in questa sede.
Dalle considerazioni che precedono discende che l'appello è fondato e va perciò accolto, con riforma della sentenza impugnata e accoglimento del ricorso di primo grado.
Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell'art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante: fra le tante, per le affermazioni più risalenti, Cass. civ., sez. II, 22 marzo 1995, n. 3260, e, per quelle più recenti, Cass. civ., sez. V, 16 maggio 2012, n. 7663). Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a condurre a una conclusione di segno diverso.
Apprezzate le circostanze, le spese del doppio grado di giudizio possono essere compensate fra le parti.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l'effetto, in riforma della sentenza impugnata, accoglie il ricorso di primo grado.
Compensa fra le parti le spese del doppio grado di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'art. 52, comma 1, del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, per procedere all'oscuramento delle generalità degli altri dati identificativi dell'appellante, manda alla Segreteria di procedere all'annotazione di cui ai commi 1 e 2 del medesimo art. 52, nei termini indicati.