Corte di cassazione
Sezione III civile
Sentenza 14 ottobre 2016, n. 20728
Presidente: Amendola - Estensore: Graziosi
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Con sentenza del 14-18 novembre 2013 la Corte d'appello di Salerno accoglieva l'appello presentato da Andrea M. avverso sentenza del 28 aprile-13 giugno 2006 del Tribunale di Salerno - con cui era stato condannato, quale direttore responsabile del quotidiano "La Città", a risarcire l'attore Carmelo V. per la pubblicazione di articoli ritenuti dal Tribunale diffamatori -, respingendo la domanda del V.
Si trattava di articoli pubblicati sul suddetto quotidiano il 10 e l'11 aprile 1996, che narravano l'arresto di Carmelo V. all'aeroporto di Fiumicino, dove, camuffatosi con una parrucca per uno scherzo a una hostess con cui aveva una relazione, era stato riconosciuto da una guardia giurata come uno degli autori di un episodio di rapina e sequestro di persona. Il riconoscimento - che dapprima era parso corroborato dal rinvenimento nell'abitazione del V. di attrezzature per mascherarsi - era poi risultato erroneo, per cui il V. era stato scarcerato il 12 aprile 1996. Ad avviso del giudice di prime cure, gli articoli avevano violato il principio di continenza, ma il giudice d'appello lo escludeva.
2. Ha presentato ricorso Carmelo V., sulla base di tre motivi.
Il primo motivo, ex art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, c.p.c., denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 c.c. e 595 c.p. quanto al principio di contestualizzazione della notizia.
Viene richiamata la giurisprudenza per cui il principio di continenza deve essere rispettato anche riguardo ai titoli, come per tutti gli elementi idonei di per sé a fuorviare e a suggestionare i lettori più frettolosi, e si adduce che il giudice d'appello avrebbe considerato solo il testo degli articoli, ma non i titoli e le locandine: e i titoli sarebbero stati lesivi della reputazione del ricorrente, come ritenuto dal Tribunale. Pertanto la sentenza impugnata presenterebbe una grave omissione di considerazione.
Il secondo motivo, ancora ex art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, c.p.c., denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 c.c. e 595 c.p. riguardo al principio di cronaca neutrale.
Il giudice d'appello osserva che l'articolista ha segnalato che il V. era stato arrestato per il travestimento uguale a quello del rapinatore, ed ha evidenziato "tragica fatalità", "equivoco" e "combinazione veramente sfortunata", virgolettando solo la definizione che gli inquirenti avevano dato al rinvenimento di materiale per mascherarsi nell'abitazione del ricorrente ("materiale indiziante tra cui parrucche utili al camuffamento"). In tal modo la corte territoriale sarebbe incorsa nel vizio di omesso esame di punto decisivo, con conseguente violazione di diritto. Nei tre articoli in questione, infatti, secondo il ricorrente "la titolazione è assertiva e sensazionalistica", e dotata di ironia diffamatoria (all'arrestato viene attribuito l'"hobby delle rapine"): e ciò verrebbe poi correlato dagli articoli alla posizione familiare e sociale del V. Questo aspetto sarebbe stato omesso di considerazione da parte della corte territoriale. Gli articoli avrebbero peraltro costruito una propria tesi accusatoria contro il V., con un "suggestionante climax ascendente" che comprenderebbe i titoli e non rispetterebbe il principio della continenza, esponendo i fatti in modo unilaterale e incompleto. La corte avrebbe comunque dovuto applicare il principio di cronaca neutrale e i generali principi che regolano l'esercizio del diritto di cronaca, rispettando in particolare la presunzione di innocenza.
Il terzo motivo denuncia, ex art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 2 e 3 Cost. in aderenza all'art. 21 Cost.
Quel che il ricorrente ora definisce "l'articolo" non rappresenterebbe meramente i fatti - e quindi non eserciterebbe il diritto di cronaca - ma conterrebbe apprezzamenti sull'onore del V., prospetterebbe presumibile infondatezza delle sue difese e verrebbe a sfoderare precedenti del padre per provare che, se quest'ultimo era avvezzo al crimine, lo era anche il figlio. La sentenza "appare motivata solo in astratto ma assolutamente immotivata in concreto" e dall'articolo si desumerebbe la colpevolezza del V., denigrato in modo ironico, offeso nella sua reputazione personale e familiare (anche il padre in realtà sarebbe stato "esente da colpe").
Si difende Andrea M. con controricorso, chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile e, in subordine, sia rigettato.
MOTIVI DELLA DECISIONE
3. Il ricorso è infondato.
3.1. Dalla sintesi sopra tracciata dei tre motivi emerge chiaramente che i primi due vertono sulla stessa tematica, per cui possono essere accorpati nel vaglio. E la doglianza su cui si imperniano, a ben guardare, consiste nella pretesa omessa considerazione, da parte del giudice d'appello, dei contenuti dei titoli e delle locandine attinenti agli articoli che esposero la vicenda, realmente singolare, in cui il V. si era trovato coinvolto. Ad avviso del ricorrente, poiché anche questi elementi - e non solo, quindi, la narrazione contenuta negli articoli - possono realizzare una divulgazione diffamatoria, particolarmente nei confronti dei lettori più frettolosi e superficiali nella loro percezione (viene invocata al riguardo Cass. sez. 3, 7 ottobre 2011, n. 20608, la quale, in un caso di sottotitolo dal tono sprezzante e sdegnato, rileva come il rispetto della continenza - quale regola di moderazione, misura e proporzione delle modalità espressive - deve rapportarsi "non solo al contenuto dell'articolo, ma all'intero contesto espressivo in cui l'articolo è inserito, compresi titoli, sottotitoli, presentazione grafica, fotografie, trattandosi di elementi tutti che rendono esplicito, nell'immediatezza della rappresentazione e della percezione visiva, il significato di un articolo, e quindi idonei, di per sé, a fuorviare e suggestionare i lettori più frettolosi"; la giurisprudenza di legittimità è peraltro consolidata in ordine al rilievo dell'intero contesto espressivo in cui l'articolo viene ad inserirsi, compresi quindi anche titoli, occhielli, sottotitoli e presentazione grafica: Cass. sez. 3, 25 luglio 2000, n. 9746, Cass. sez. 3, 26 settembre 2005, n. 18782, Cass. sez. 3, 14 ottobre 2008, n. 25157, Cass. sez. 3, 7 agosto 2013, n. 18769 e Cass. sez. 3, 5 dicembre 2014, n. 25739), la corte territoriale sarebbe incorsa in violazione degli artt. 2043 c.c. e 595 c.p. nell'ignorarli nel proprio apparato motivazionale, e quindi, a priori, nel suo accertamento sull'esistenza o meno dell'illecito diffamatorio.
Effettivamente, la sentenza impugnata, dopo essersi diffusa ampiamente sulla giurisprudenza di legittimità e sui pertinenti principi normativi, costituzionali e sovranazionali, cui occorre rapportarsi per individuare il delicato punto di equilibrio tra l'interesse pubblico all'informazione e i diritti di cronaca e di manifestazione del pensiero da un lato e la tutela della reputazione e dell'onore dall'altro, è assai sintetica nell'affrontare la concretezza del caso. Esclude comunque la violazione del principio di continenza che era stata rinvenuta, invece, dal giudice di prime cure, rilevando la verità della notizia, l'evidenziazione da parte del giornalista - con varie espressioni in tal senso inequivoche - della natura di "combinazione veramente sfortunata" dell'episodio, la trascrizione tra virgolette delle dichiarazioni degli inquirenti, il riferimento di quanto dichiarato dai legali ("un clamoroso errore di persona"), la sussistenza di un interesse pubblico all'informazione e, soprattutto - requisito cui logicamente viene dedicata maggiore attenzione, essendo stato quello ritenuto insussistente dal Tribunale -, "l'uso di una forma corretta, improntata ad obiettività e priva di qualsivoglia elemento denigratorio", in modo da "rendere chiare al lettore le contrapposte tesi dell'accusa e della difesa ed astenendosi, perciò, dall'enunciare certezze" (e, per di più, valutando quanto riportato sulle vicende del padre del ricorrente ed escludendone l'offensività).
Vero è che in questa concisa parte conclusiva della motivazione (pagine 7-8) la sentenza non menziona affatto i titoli, né le locandine degli articoli in questione. Parimenti vero, come già rimarcato, è che anche elementi diversi dal corpo dell'articolo, come locandine e titoli, possono esplicare un effetto lesivo della reputazione. Peraltro, non può non ricordarsi che il giudice di merito non è tenuto a menzionare esplicitamente nella motivazione ogni elemento addotto dalle parti per far valere la loro prospettazione: e infatti il vigente vizio ex art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., denunciato accanto alla violazione degli artt. 2043 c.c. e 595 c.p. nelle rubriche del primo e del secondo motivo, concerne esclusivamente l'omessa considerazione di un fatto controverso decisivo, il quale è fatto idoneo a scardinare tutta la struttura dell'apparato motivazionale (cfr., per tutte, Sez. un., 25 ottobre 2013, n. 24148). E altresì non può non ricordarsi che la valutazione fattuale compete istituzionalmente al giudice di merito, e non può essere oggetto di revisione - se non appunto tramite il sindacato motivazionale - da parte del giudice di legittimità.
Che poi, realmente, la corte territoriale abbia omesso di esaminare fatti decisivi rappresentati da titoli e locandine - così da impostare erroneamente l'accertamento dell'illecito diffamatorio e da incorrere quindi nella violazione degli artt. 2043 c.c. e 595 c.p. - non emerge dal pur ampio ricorso. Invero, le sue argomentazioni sono sorrette soltanto dall'allegazione di una locandina (allegazione n. 3) nella quale non si ravvisa alcun eccesso trasformante la cronaca in diffamazione, e i cui caratteri che il ricorrente definisce "cubitali" non sono difformi da quel che normalmente - come insegna il notorio - viene utilizzato, appunto, nelle locandine dei giornali per annunciare fatti di cronaca; e quanto poi ai titoli, l'unico tra quelli degli articoli allegati al ricorso che potrebbe, in ipotesi, assumere un aspetto diffamatorio nel senso di attribuire una ripetitività di condotte illecite ("hobby delle rapine") non è riportato in locandina, per cui non può "ingannare" il lettore frettoloso, ed è in realtà un occhiello che anticipa il titolo dell'articolo del 10 aprile 1996, "medico novello Fregoli": occhiello che non può incidere negativamente sulla percezione, perché si inquadra appunto in un titolo semplicemente scherzoso e in una immediata spiegazione, nella stessa pagina, della vicenda.
I primi due motivi, pertanto, non risultano fondati.
3.2. Il terzo motivo, per quanto rubricato ancora come violazione e falsa applicazione di legge - questa volta degli artt. 2 e 3 Cost. in aderenza all'art. 21 Cost. -, in realtà presenta una sostanza direttamente fattuale, perseguendo dal giudice di legittimità una revisione della interpretazione del contenuto di quello che definisce genericamente "l'articolo", nel senso che effettivamente vi sia stato leso l'onore del ricorrente, siano state presentate le sue difese in un'ottica inficiante di dubbio negativo e sia stato utilizzato un infondato precedente del padre per insinuare una tendenza familiare al crimine. Come già sopra si osservava, si esorbita in tal modo dai limiti del ricorso per cassazione, per cui quest'ultimo motivo risulta inammissibile.
In conclusione, il ricorso deve essere rigettato. Considerata la difformità delle valutazioni dei giudici di merito, e tenuto conto della particolarità della vicenda, sussistono giusti motivi per compensare le spese processuali del presente grado.
Sussistono ex art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 115/2012 i presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso compensando le spese processuali del grado.
Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 115/2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.