Consiglio di Stato
Sezione IV
Sentenza 7 novembre 2016, n. 4636

Presidente: Poli - Estensore: Forlenza

FATTO

1. L'oggetto del presente giudizio è costituito dalla sentenza del T.a.r. per il Lazio, Sezione II (in prosieguo TAR), n. 9052 del 6 novembre 2012, con la quale sono stati decisi:

a) i ricorsi nn. 7718/2001 e 8790/2002, con i quali il signor Aldo Q. ha impugnato, rispettivamente, le ordinanze sindacali 28 gennaio 2001, n. 136 e 15 aprile 2002, n. 102, di determinazione dapprima dell'indennità provvisoria (pari a lire 1.772.500), poi dell'indennità definitiva (pari ad Euro 915,42), a lui spettanti quale affittuario di terreni, nell'ambito della procedura di asservimento promossa dal Comune di Roma per l'acquisizione degli immobili necessari per la realizzazione della fognatura dal Forte Braschi al collettore Valle Aurelia;

b) il ricorso n. 7975/2009 r.g., con il quale la SEP - Società Edilizia Pineto s.p.a. (in prosieguo SEP), ha chiesto l'accertamento della responsabilità del Comune di Roma per tutti i danni ad essa cagionati con l'abusiva occupazione dell'area e degli immobili di sua proprietà per la realizzazione del parco pubblico "Il Pineto" (I stralcio), con conseguente condanna dell'amministrazione al risarcimento dei danni (per perdita della proprietà dei beni; per loro mancato godimento dal momento dell'occupazione; per mancato guadagno derivante dalla mancata vendita degli edifici che sarebbero stati costruiti sul fondo in attuazione del piano di lottizzazione presentato nel 1970; per le spese sostenute in relazione alla redazione di detto piano), oltre rivalutazione ed interessi legali;

c) nell'ambito del citato ricorso n. 7975/2009 r.g., la domanda proposta dal Q., in qualità di affittuario degli immobili innanzi citati, volta ad ottenere il risarcimento dei danni causati a lui ed ai suoi familiari per abusiva occupazione dell'area e degli immobili (danni morali, da perdita di status, da perdita delle abitazioni e del lavoro, per il mancato godimento del bene, da mancata vendita diretta dei prodotti del fondo), con rivalutazione monetaria ed interessi legali;

d) il ricorso n. 5157/2011, con il quale il Q. ha chiesto l'accertamento della responsabilità del Comune di Roma per tutti i danni cagionati a lui ed ai suoi familiari con l'abusiva occupazione dell'area e degli immobili innanzi citati, con conseguente condanna al risarcimento dei danni connessi alla mancata percezione dell'indennità aggiuntiva di cui all'art. 17, comma 2, l. n. 865/1971, da quantificare tenendo conto dell'intera area (di superficie pari a 162 ettari) concessa in affitto alla famiglia Q., con rivalutazione monetaria ed interessi legali.

1.1. La sentenza impugnata espone, innanzi tutto e succintamente, le vicende giudiziarie (anche antecedenti) relative alla destinazione urbanistica ed alla procedura espropriativa interessanti, complessivamente, una vasta area di circa 52 ettari (facenti parte di un più vasto comprensorio immobiliare di circa 162 ettari), che si estende nella zona nord-ovest della Capitale, della quale è proprietaria la SEP.

Relativamente a tale area risultano promosse due procedure ablatorie, la prima volta all'asservimento di immobili necessari alla realizzazione delle fognature dal Forte Braschi al collettore Valle Aurelia; la seconda relativa alle aree necessarie per le realizzazione del "Parco del Pineto".

1.2. In sintesi, occorre ricordare sin da ora che, sul piano urbanistico:

a) la zona interessata era originariamente classificata come E1 (zona residenziale di espansione) e sulla stessa veniva presentato dalla SEP un progetto di lottizzazione, interessante parte del comprensorio, dapprima in data 13 gennaio 1967 e poi in data 15 luglio 1970;

b) tuttavia, con delibera 30 marzo 1976, n. 1132, il Consiglio comunale di Roma adottava una prima variante urbanistica, che determinava una diversa destinazione (zona N) del comprensorio;

c) in data 8 maggio 1979 (delibera n. 1384), il Consiglio comunale rigettava il progetto di lottizzazione (ed il ricorso proposto avverso tale delibera veniva dichiarato improcedibile dal TAR Lazio con sentenza n. 6399/2008);

d) con delibera 5 maggio 1981 n. 898, il Consiglio comunale riadottava la variante urbanistica, confermando la destinazione del comprensorio a zona N, destinazione di seguito definitivamente confermata con delibera 23-24 luglio 1991, n. 279 (ed un ricorso proposto avverso quest'ultima è stato rigettato dal TAR Lazio, con sentenza n. 942/1993, confermata dal Consiglio di Stato con sentenza n. 7452/2004).

1.3. Sul piano espropriativo, occorre inoltre ricordare che:

a) con delibera 27 ottobre 1982, n. 4392, il Consiglio comunale approvava un primo stralcio del progetto di opera pubblica denominato "parco pubblico del Pineto", riguardante un'area di circa 52 ettari;

b) il procedimento espropriativo (preceduto da occupazione di urgenza in forza della delibera G.C. n. 11138/1982), si concludeva con il decreto di esproprio n. 643/1991 ed in data 9 marzo 1993 la SEP incassava la somma depositata, maggiorata di interessi, di oltre 17 miliardi, e precisamente pari a lire 17.757.662.135;

c) tuttavia, in accoglimento di ricorsi proposti dai signori Q. (in qualità di affittuari e coltivatori diretti dell'area), il TAR per il Lazio, con sentenza n. 1860/1993 (poi confermata dal Consiglio di Stato, con sentenza n. 336/1997), annullava le già citate delibere n. 898/1981 CC (di variante urbanistica), n. 4392/1982 CC (di approvazione del progetto "parco pubblico del Pineto") e n. 11138/1982 G.C. (di occupazione di urgenza delle aree), "nella parte in cui interessano le aree contemplate dai contratti sottoscritti dal ricorrente";

d) a seguito di tale decisione, il TAR per il Lazio, con sentenza n. 35895/2010, dichiarava improcedibili per sopravvenuta carenza di interesse i ricorsi proposti dalla SEP avverso i medesimi atti (e l'appello r.g. n. 5219/2011 proposto dal Comune di Roma avverso tale decisione, non risulta ancora definito).

1.4. In sede civile, a seguito di una pluralità di giudizi (riassunti dall'impugnata sentenza alle pagine 9-10), si è avuto che:

a) la Corte di appello di Roma, con sentenza n. 2595/2004 ha rigettato tutte le domande risarcitorie proposte da Aldo Q. e dai suoi familiari nei confronti del Comune di Roma;

b) la medesima Corte di appello di Roma, con sentenza n. 699/2009, preso atto di quanto deciso dal TAR per il Lazio con sentenza n. 1860/1993, ha dichiarato cessata la materia del contendere nel giudizio di opposizione alla determinazione dell'indennità definitiva di esproprio, instaurato dalla SEP, condannando contestualmente quest'ultima a restituire quanto già dalla stessa percepito a titolo di indennità definitiva di esproprio;

c) il Tribunale di Roma, con sentenza n. 5767/2011, ha dichiarato il proprio difetto di giurisdizione sulla domanda proposta dal signor Q. per la condanna del Comune di Roma al risarcimento dei danni causati dall'occupazione connessa all'illegittima procedura di esproprio.

1.5. La sentenza impugnata, previa riunione dei quattro ricorsi innanzi indicati (retro § 1), ha statuito quanto segue.

1.5.1. Con riferimento ai ricorsi nn. 7718/2001 e 8790/2002, ha pronunciato l'inammissibilità dei medesimi per difetto di giurisdizione "trattandosi di controversie non rientranti tra quelle previste dall'art. 133, comma 1, lett. f), c.p.a.". Infatti, i ricorsi - con i quali si impugnano atti inerenti la procedura di asservimento volta all'acquisizione di immobili necessari per la realizzazione della fognatura dal Forte Braschi al collettore Valle Aurelia, atti che "sono autonomi e distinti da quelli annullati dal TAR del Lazio con la sentenza n. 1860/1993 (relativi alla procedura di esproprio delle aree necessarie alla realizzazione del Parco del Pineto)" - sono essenzialmente finalizzati a censurare la quantificazione dell'indennità stabilita dall'amministrazione capitolina ai sensi dell'art. 17, comma 2, l. n. 865/1971; le controversie relative, dunque, afferendo "alla corretta determinazione delle indennità in conseguenza dell'adozione di atti di natura espropriativa o ablativa", rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario.

1.5.2. Con riferimento al ricorso n. 7975/2009, proposto dalla SEP (e relativo alla espropriazione finalizzata alla realizzazione del "Parco del Pineto"):

a) ha ribadito, anche sulla scorta della giurisprudenza del Consiglio di Stato (in particolare, sez. IV, 2 settembre 2011, n. 4970 e 3 ottobre 2012, n. 5189, citate), l'incompatibilità dell'istituto della occupazione appropriativa con la Convenzione europea dei diritti dell'uomo e l'impossibilità di attribuire alla domanda risarcitoria per equivalente un effetto abdicativo della proprietà del bene illegittimamente espropriato; di conseguenza, ha stabilito che "in presenza di una radicale e definitiva trasformazione del suolo, conseguente alla sua occupazione ed alla realizzazione dell'opera pubblica, il diritto di proprietà del suolo non si estingue e non si determina un acquisto a titolo originario da parte dell'amministrazione", di modo che "il proprietario del bene immobile può chiedere solo la restituzione del bene, fermo restando che l'amministrazione può paralizzare tale domanda mediante l'adozione del provvedimento con cui dispone che il bene venga acquisito non retroattivamente al suo patrimonio indisponibile", con indennizzo per il proprietario, in attuazione dall'art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001;

b) conseguentemente ha dichiarato l'inammissibilità della domanda proposta da SEP di risarcimento del danno per perdita dei beni di sua proprietà e di contestuale adozione di provvedimenti in ordine al trasferimento della proprietà dei beni in capo all'amministrazione, e ciò in quanto "non avendo ancora Roma Capitale fatto uso di alcuno dei mezzi giuridici (consensuali e autoritativi) a sua disposizione per acquisire la proprietà dei beni immobili di cui trattasi, deve ritenersi che tali beni siano ancora di proprietà della SEP, che può senz'altro agire con l'azione di restituzione", né il giudice può imporre all'amministrazione valutazioni in ordine a poteri amministrativi da esercitare;

c) ha ritenuto che l'inammissibilità della domanda risarcitoria "principale" (relativa alla supposta perdita dei beni), non incida sulle ulteriori domande risarcitorie proposte dalla SEP, definibili come "danni medio tempore subiti" (e cioè: per mancato godimento dell'immobile a decorrere dalla data di commissione dell'illecito; per mancato guadagno da vendita degli edifici di cui al realizzando piano di lottizzazione e per spese sostenute in relazione a detto piano), poiché, anche adottando il provvedimento di acquisizione ex art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001 ovvero procedendo all'acquisizione consensuale degli immobili, ciò non avrebbe alcuna efficacia retroattiva e quindi "la società ricorrente ha comunque diritto ad essere ristorata di ogni danno ingiusto medio tempore subito, sempreché ne sussistano i presupposti di legge";

d) con riferimento ai diritti relativi alla mancata attuazione del piano di lottizzazione, ha stabilito che "è maturata la prescrizione quinquennale di cui all'art. 2947 c.c., trattandosi di un provvedimento lesivo risalente al maggio 1979" (delibera CC 8 maggio 1979, n. 1384), poiché "se la proposizione dell'azione risarcitoria non è subordinata al positivo esperimento della domanda di annullamento... il diritto al risarcimento del danno inizia a decorrere dal momento dell'adozione (rectius, dalla notifica o dalla piena conoscenza) del provvedimento lesivo"; né può costituire atto interruttivo della prescrizione la proposizione del ricorso con il quale si è impugnato il citato provvedimento del maggio 1979 "stante la piena autonomia tra l'azione risarcitoria e quella di annullamento";

e) quanto, invece, al diritto al risarcimento dei danni derivanti dal mancato godimento dei beni dal momento dell'occupazione, ha considerato la relativa domanda "tempestivamente proposta solo limitatamente ai danni maturati a partire dal quinquennio anteriore alla proposizione della domanda risarcitoria notificata in data 25 settembre 2009", individuando altresì (per le ragioni esposte alle pp. 69-71) il dies ad quem nel giorno di pubblicazione della emananda decisione (6 novembre 2012);

f) ha quantificato il danno nella misura del 5% annuo sul valore venale del bene (tenuto conto, in compensazione, della somma di lire 17.757.662.135, già ricevuta dalla SEP a titolo di indennità definitiva di esproprio (pagine 72-73).

1.5.3. Con riferimento alle domande risarcitorie proposte dal Q. (nel ricorso SEP n. 7975/2009 e con ricorso n. 5157/2011 r.g.), la sentenza ha innanzi tutto dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, relativamente alla domanda di risarcimento del danno in quanto proposta (anche) nei confronti della SEP, nonché l'inammissibilità del ricorso e dell'atto di intervento per carenza di legittimazione attiva "nella parte in cui il signor Aldo Q. dichiara di agire in rappresentanza della famiglia Q., perché trattasi di due azioni risarcitorie promosse senza neppure specificare quali siano i componenti della famiglia coltivatrice nei confronti dei quali la sentenza dovrebbe produrre i suoi effetti".

Infine, poiché la pretesa risarcitoria del Q. è stata fondata sulla esistenza e validità di contratti di affitto stipulati con la SEP (esistenza e validità negate dalla Corte di appello di Roma, con sentenza n. 2595/2004, che ha affermato "l'inesistenza di una qualsivoglia azienda agricola"), il TAR ha sospeso il giudizio, fino alla definizione del ricorso per revocazione della sentenza di Cassazione n. 22631/2011; quest'ultima sentenza aveva dichiarato inammissibile il ricorso per Cassazione proposto avverso la sentenza della Corte di appello di Roma n. 3903/2006 che, a sua volta, aveva dichiarato inammissibile il ricorso per revocazione proposto avverso la precedente sentenza della medesima Corte di appello n. 2595/2004 (cioè quella che ha escluso l'esistenza di una qualsivoglia azienda agricola); giova fin da ora anticipare che la Corte di cassazione, con ordinanza n. 3990 del 2014, ha dichiarato inammissibile il ricorso in revocazione della precitata sentenza n. 22631 del 2011.

2. Avverso la sentenza del TAR oggetto del presente giudizio, il signor Q. ha proposto ricorso in appello (n. 750/2013 r.g.), composto da un atto di 217 pagine, nell'ambito del quale il Collegio ha ritenuto di poter desumere i motivi di appello che saranno successivamente esaminati, precisandosi sin da ora che la loro scansione in distinti errores in iudicando è frutto di elaborazione del giudicante.

2.1. Si sono costituiti nel presente giudizio Roma Capitale, che ha altresì proposto appello incidentale (e di cui si dirà al successivo § 4) e la SEP.

Quest'ultima ha concluso per l'inammissibilità dell'appello, ostando alle proposte domande risarcitorie il giudicato formatosi sulle medesime innanzi al giudice ordinario, e dunque la violazione del principio del ne bis in idem (v., in particolare, pagine 13-15 della memoria del 8 maggio 2014). La SEP ha comunque insistito per il rigetto dell'appello, stante la sua infondatezza.

2.2. Dopo il deposito di ulteriori documenti da parte dell'appellante in data 24 aprile 2014 e di ulteriori memorie e repliche, all'udienza pubblica di trattazione del 31 marzo 2016 la causa è stata riservata in decisione.

3. Anche la SEP ha proposto appello (n. 1179/2013 r.g.) avverso la medesima sentenza n. 9052 del 2012, nella parte in cui:

a) ha dichiarato inammissibili le domande volte ad ottenere il risarcimento del danno da perdita sostanziale della proprietà, derivante dalla illegittima occupazione degli immobili di cui alla delibera C.C. 27 ottobre 1982, n. 4392;

b) ha accolto solo in parte, limitandola ai danni successivi al quinquennio anteriore alla proposizione della domanda notificata il 25 settembre 2009, la richiesta risarcitoria relativa al danno da perdita del godimento dei terreni disponendo oltre tutto la compensazione con quanto dovuto dalla SEP a Roma Capitale, per effetto della sentenza della Corte di appello di Roma n. 699/2009.

3.1. Avverso la predetta decisione, SEP ha proposto i seguenti motivi di appello:

a) error in iudicando; violazione art. 55 d.P.R. n. 327/2001; violazione e falsa applicazione artt. 2043, 2056, 1223 e 2058 c.c. e dei principi generali in materia di risarcimento danni; violazione artt. 11 e 117 Cost., in relazione all'art. 1 del I Protocollo addizionale alla Convenzione Europea dei diritti dell'uomo; in subordine, illegittimità derivata per illegittimità costituzionale dell'art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001; ciò in quanto il TAR, sostenendo che il proprietario del bene illecitamente occupato avrebbe diritto a richiedere la restituzione ma non il danno pari al controvalore del bene, si è posto in contrasto con le disposizioni nazionali (in primo luogo con l'art. 55 t.u. sugli espropri) e sopranazionali nonché con la giurisprudenza della CEDU e della Corte costituzionale (come da ricostruzione normativa e giurisprudenziale effettuata alle pagine 10-25 del ricorso in appello), e ciò perché non ha tenuto conto del fatto che "il proprietario di un bene abusivamente occupato dall'amministrazione rimane tale solo sulla carta, in quanto il suo diritto è svuotato di ogni suo sostanziale contenuto a seguito della irreversibile trasformazione del bene mediante la realizzazione dell'opera pubblica". A fronte di ciò, la possibilità di richiedere la restituzione dell'area è "una previsione puramente teorica e nella pratica inattuabile laddove sia stata realizzata l'opera pubblica"; ne consegue che la sentenza deve essere riformata "laddove ha negato che il proprietario, in assenza da parte della P.A. di un atto acquisitivo del bene illecitamente occupato, possa rinunciare alla domanda di restituzione e agire per il risarcimento del danno pari al valore pieno del bene medesimo"; né l'art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001 ha "l'effetto di vanificare la tutela del risarcimento pieno riconosciuta dall'art. 55", poiché esso, per un verso, "è rivolto essenzialmente alla pubblica amministrazione per consentirle da un lato la formalizzazione del titolo di proprietà... e dall'altro di bloccare l'eventuale domanda di restituzione del bene", per altro verso, "le previsioni indennitarie e risarcitorie connesse all'emanazione dell'atto di acquisizione, contenute nel comma 3... si applicano solo in mancanza di diverse disposizioni e quindi rivestono un carattere chiaramente residuale" (ove ciò non fosse condiviso, si pone la questione di legittimità costituzionale del citato art. 42-bis per violazione degli artt. 3, 24, 42, 97 Cost., nonché degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 1 del I protocollo addizionale alla CEDU);

b) error in iudicando, poiché, dalla errata declaratoria di inammissibilità della domanda risarcitoria, discende la necessità di provvedere a quantificare detto risarcimento, dovendosi fare riferimento "al valore del bene al momento in cui è stata posta in essere la condotta illegittima", e quindi alla adozione della delibera CC 27 ottobre 1982, n. 4392, allorché la destinazione dell'area "continuava ad essere quella E/1 di espansione attribuita dal PRG del 1965";

c) violazione e falsa applicazione (sotto altro profilo) degli artt. 2043 e 2947 c.c.; dell'art. 1227 c.c. e art. 39 c.p.a.; artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 1 del I protocollo addizionale alla CEDU; ciò in quanto - con riferimento all'intervenuto riconoscimento del danno per il mancato godimento del bene occupato, riconoscimento limitato al quinquennio anteriore alla proposizione della domanda (notificata il 25 settembre 2009), stante l'intervenuta prescrizione, e con termine alla data di pubblicazione della sentenza (6 novembre 2012) - la sentenza "non ha tenuto conto che la condotta posta in essere dall'amministrazione costituisce un illecito permanente al quale è inapplicabile la prescrizione quinquennale ex art. 2947 c.c.", né il proprietario può essere tenuto a chiedere la restituzione del bene "se questa è di impossibile attuazione".

Quanto alla concreta determinazione (v. pagine 52-54 del ricorso in appello), può farsi riferimento alla CTU svolta nel corso del giudizio innanzi la Corte d'Appello di Roma, con aggiunta del danno da mancato godimento del bene, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali e con sottrazione di "quanto a suo tempo percepito dalla SEP per indennità provvisoria di esproprio".

3.2. Si sono costituiti nel relativo giudizio Roma Capitale, che ha altresì proposto appello incidentale (e di cui si dirà al successivo punto 4) e il signor Aldo Q., che ha concluso per la reiezione dell'appello SEP, previa riunione del medesimo al giudizio di appello da lui proposto (recante il n. 750/2013 r.g.).

3.3. Dopo il deposito di ulteriori documenti da parte dell'appellante in data 24 dicembre 2015 e da parte del Comune di Roma in data 17 dicembre 2014, nonché di ulteriori memorie e repliche, all'udienza pubblica di trattazione del 31 marzo 2016 la causa è stata riservata in decisione.

4. In ambedue i giudizi innanzi indicati, come già anticipato, si è costituita Roma Capitale, proponendo appello incidentale, sostenuto dai seguenti motivi:

a) quanto alla posizione giuridica e processuale del sig. Aldo Q. nel ricorso n. 7975/2009 r.g.:

a.1) intervenuta formazione di giudicato giurisdizionale, poiché, in tema di risarcimento danni, il Q. ha già istaurato giudizio innanzi al giudice ordinario ed in nessuno stato e grado del medesimo è stata mai declinata la giurisdizione, di modo che la medesima risulta oggetto di giudicato;

a.2) inammissibilità della domanda risarcitoria, in quanto introdotta in giudizio con atto di intervento, poiché nel giudizio amministrativo non è ammesso l'intervento cd. autonomo;

a.3) inammissibilità delle azioni e domande (di intervento e ricorso r.g. n. 5157/2011) del Q. per difetto di legittimazione attiva non avendo "i genitori dell'interveniente/ricorrente subito alcun danno dall'occupazione";

a.4) inammissibilità dell'appello, stante la "confusione" del medesimo, che "rende quasi impossibile ricostruire, attraverso la lettura dell'atto, la realtà di situazioni di fatto e processuali", e ciò non potendosi "accettare che una parte renda oggettivamente non comprensibile le sue pretese ragioni giuridiche";

b) quanto alla posizione giuridica e processuale della società SEP nel ricorso n. 7975/2009 r.g.:

b.1) risulta errata la sentenza laddove essa ha "individuato i criteri per la determinazione del danno da mancato godimento del terreno occupato in modo forfettario, parametrandoli su quelli di cui all'art. 42-bis t.u. espropriazioni", laddove "ai fini della quantificazione del ristoro patrimoniale era necessario prendere in esame la situazioni di fatto e di diritto del bene e non definire criteri astratti e forfettari;

b.2) a tal fine, andava tenuto presente che:

I) il terreno avrebbe potuto essere utilizzato al massimo "come area agricola con una serie di limitazioni e vincoli posti alla stessa possibilità di coltivazione del fondo";

II) rispetto alle porzioni di terreno occupate dal Comune, la SEP ha ottenuto titoli processuali di rientro nel possesso di distinte aree solo nel 1998 e nel 1991 (pagina 30 dell'appello incidentale);

III) la reale redditività dei terreni "tutti oggetto di contratti agricoli con canoni assolutamente risibili";

IV) "l'assoluto stato di abbandono in cui versava l'area oggetto di occupazione".

In definitiva (sintetizzando le conclusioni di cui alle pagine 45-49 dell'appello incidentale), Roma Capitale ha richiesto:

- in relazione all'appello Q., in accoglimento dell'appello incidentale proposto, dichiarare il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo rispetto alla domanda svolta nel ricorso n. 7975/2009 r.g. ovvero l'inammissibilità della domanda medesima e di quelle proposte con ricorso autonomo; infine, comunque, il rigetto dell'appello;

- il rigetto dell'appello della società SEP o, in subordine, l'accoglimento dell'appello incidentale, procedendosi ad una diversa valutazione del danno risarcibile, secondo i criteri ivi specificati; ovvero ancora la sospensione del giudizio in attesa della definizione del ricorso avente per oggetto l'impugnazione della sentenza del TAR per il Lazio n. 35895/2010.

DIRITTO

5. Gli appelli proposti, poiché hanno ad oggetto la medesima sentenza, devono essere riuniti, ai sensi di quanto disposto dall'art. 96, comma 1, c.p.a.

5.1. Per tale ragione, non può essere accolta l'istanza di "trattazione disgiunta" proposta dall'appellante Q. (in ambedue i giudizi in data 16 maggio 2014 e reiterata con istanza del 25 dicembre 2015), nonché dall'appellante SEP (con la memoria del 22 dicembre 2014).

5.2. Non può essere, altresì, accolta l'istanza di "sospensione nel merito nonché di differimento all'Adunanza Plenaria", proposta congiuntamente dall'appellante SEP e dal Comune di Roma e depositata in data 10 dicembre 2014 (reiterata dal solo Comune nella memoria depositata il 22 dicembre 2014), poiché, alla luce delle evoluzioni della giurisprudenza amministrativa e della Corte costituzionale, non sussistono - così come invece prescritto dall'art. 98, comma 1, c.p.a. - punti di diritto che possono dar luogo a contrasti giurisprudenziali.

6. Il Collegio dichiara inammissibile, per violazione del divieto dei nova sancito dall'art. 104 c.p.a. (cfr. sul punto la sentenza della Sez. IV, 29 agosto 2013, n. 4315; successivamente Sez. IV, 11 novembre 2014, n. 3509, cui si rinvia a mente dell'art. 88, comma 2, lett. d), c.p.a.), il deposito di documenti effettuato dalle parti in questo grado, e precisamente:

- nel giudizio n. 750/2013 r.g., dei documenti depositati dall'appellante Q. in data 24 aprile 2014 (verbale di "stato di consistenza" redatto dalla Direzione del Genio militare il 12 maggio 1981 e decreto del Prefetto di Roma 10 maggio 1989);

- nel giudizio n. 1179/2013 r.g., dei documenti depositati da Roma Capitale in data 17 dicembre 2014 (aerofotogrammetrie del 19 aprile 1984, n. 1185 e 23 maggio 2007, nn. 308 e 309, in ordine al deposito delle quali vi è specifica eccezione di inammissibilità della SEP 5 gennaio 2015) e dalla SEP in data 23 dicembre 2015 (delibera G.M. di Roma 4 giugno 1990, n. 3621).

Nella specie trattasi di atti che erano senza dubbio conosciuti o conoscibili dalle parti fin dal giudizio di I grado, attraverso i normali rimedi offerti dall'ordinamento ovvero (come nel caso di Roma Capitale) per esserne depositarie.

7. Al fine di rendere maggiormente comprensibile una vicenda che si caratterizza per complessità e per avere formato oggetto (tra giurisdizioni differenti - ordinaria ed amministrativa - e tra distinti gradi di giudizio) di oltre venti sentenze di giudici diversi, appare opportuno sottolineare come l'oggetto sostanziale del giudizio si possa scindere in tre distinte parti:

a) l'impugnazione dei decreti di determinazione dell'indennità provvisoria e, successivamente, di quella definitiva, emessi nell'ambito della procedura promossa dal Comune di Roma per l'acquisizione degli immobili necessari per la realizzazione della fognatura dal Forte Braschi al collettore Valle Aurelia, proposta dal Q. (con i ricorsi nn. 7718/2001 e 8790/2002 r.g.), in ordine ai quali la sentenza impugnata ha dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo;

b) la domanda di risarcimento danni, proposta dalla società SEP (con il ricorso n. 7975/2009), in conseguenza dell'abusiva occupazione dell'area e degli immobili di sua proprietà per la realizzazione del parco pubblico "Il Pineto" (I stralcio), con conseguente condanna dell'amministrazione al risarcimento dei danni (per perdita della proprietà dei beni; per loro mancato godimento dal momento dell'occupazione; per mancato guadagno derivante dalla mancata vendita degli edifici che sarebbero stati costruiti sul fondo in attuazione del piano di lottizzazione presentato nel 1970; per le spese sostenute in relazione alla redazione di detto piano, oltre rivalutazione ed interessi legali); domanda che la sentenza impugnata ha accolto con riferimento al mancato godimento di detti beni (nei limiti temporali precisati in sentenza), e respinto con riferimento al resto, ed in particolare con riferimento al danno da perdita della proprietà;

c) le domande di risarcimento dei danni subiti, in relazione alla predetta espropriazione di terreni destinati al realizzando "Parco del Pineto", proposte da Q., dapprima con atto di intervento nel giudizio instaurato dalla SEP con il proprio ricorso r.g. n. 7975/2009), e successivamente oggetto del ricorso n. 5157/2011 r.g.; domande in ordine alle quali la sentenza del TAR ha disposto la sospensione del giudizio, in attesa della definizione del ricorso per revocazione della sentenza di Cassazione n. 22631/2011 e, per quanto riguarda la proposizione nei confronti della SEP (limitatamente all'atto di intervento), il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.

7.1. Così succintamente individuati i distinti punti della sentenza impugnata, il Collegio ritiene che, ai fini della decisione, occorra sul piano logico-giuridico procedere ad esaminare:

a) quanto alle domande proposte dal Q. (nei limiti della loro comprensibilità) e, con appello incidentale autonomo, da Roma Capitale:

I) in primo luogo, l'eccezione di inammissibilità dell'appello Q. proposta da Roma Capitale (pagina 44 della comparsa di costituzione e appello incidentale), basata sulla "confusione" del medesimo, che "rende quasi impossibile ricostruire, attraverso la lettura dell'atto, la realtà di situazioni di fatto e processuali", e ciò non potendosi "accettare che una parte renda oggettivamente non comprensibile le sue pretese ragioni giuridiche";

II) in secondo luogo, l'eccezione di "intervenuta formazione di giudicato giurisdizionale", poiché, in tema di risarcimento danni, il Q. ha già istaurato analogo giudizio innanzi al giudice ordinario ed in nessuno stato e grado del medesimo è stata mai declinata la giurisdizione, di modo che la medesima risulta oggetto di giudicato (pagine 35-43 dell'appello incidentale di Roma Capitale); ovvero (limitatamente alla domanda risarcitoria proposta con atto di intervento nel giudizio instaurato dalla società SEP in primo grado), di inammissibilità della domanda medesima perché "nel giudizio amministrativo non è ammesso l'intervento cd. autonomo; ovvero ancora di inammissibilità per originario difetto di interesse, non avendo i genitori dell'istante "subito alcun danno dall'occupazione";

III) in terzo luogo, la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo in ordine alla domanda di risarcimento danni proposta nei confronti della SEP (reiterata anche nelle conclusioni dell'atto d'appello);

IV) in quarto luogo, la fondatezza della declaratoria di difetto di giurisdizione in merito ai ricorsi di primo grado nn. 7718/2001 e 8790/2002 contestata dall'appello del Q., il cui accoglimento - o meno - condiziona l'esame dell'ultimo mezzo di gravame con cui si ripropongono i motivi dei predetti ricorsi, non esaminati in I grado;

V) in quinto luogo, la (eventuale) legittimazione del Q. ad agire in giudizio, con riferimento alle domande risarcitorie, anche "per conto della famiglia coltivatrice";

VI) in sesto luogo, la correttezza della decisione impugnata nella parte in cui ha disposto la sospensione del giudizio concernente le domande di risarcimento danni proposte dal Q., con conseguente pronuncia in ordine alla fondatezza di tali pretese;

b) quanto alle domande proposte dalla SEP e, con appello incidentale autonomo, da Roma Capitale, occorre esaminare:

I) in primo luogo, la domanda di risarcimento del danno da perdita di proprietà, riproposta dalla SEP, censurando la declaratoria di inammissibilità pronunciata in sentenza, con conseguente quantificazione di detto danno;

II) in secondo luogo, la esatta quantificazione del danno subito dalla SEP per mancato godimento del bene.

7.2. In ordine logico è prioritario l'esame dell'eccezione di inammissibilità globale dell'appello del Q. sotto il profilo che la "confusione" del medesimo "rende quasi impossibile ricostruire, attraverso la lettura dell'atto, la realtà di situazioni di fatto e processuali", e ciò non potendosi "accettare che una parte renda oggettivamente non comprensibile le sue pretese ragioni giuridiche".

Attraverso tale eccezione, in buona sostanza, Roma Capitale ha inteso dedurre la violazione del dovere di specificità dei motivi di ricorso sancito dal combinato disposto degli artt. 40, comma 1, lett. d), e 101, comma 1, c.p.a. nonché del dovere di sinteticità sancito dall'art. 3, comma 2, c.p.a.

7.2.1. Il Collegio ritiene l'eccezione fondata.

7.2.2. In ordine alla natura, al fondamento ed alla consistenza dei doveri di sinteticità, chiarezza e specificità (degli scritti delle parti e in particolare degli atti di impugnazione), ed alle conseguenze discendenti dalla loro violazione, il Collegio non intende discostarsi dai principi elaborati dalla giurisprudenza civile ed amministrativa (cfr. Cass., sez. II, 20 ottobre 2016, n. 21297; sez. lav., 30 settembre 2014, n. 20589; sez. un., 11 aprile 2012, n. 5698; C.d.S., sez. V, 31 marzo 2016, n. 1268; sez. III, 21 marzo 2016, n. 1120; sez. VI, 4 gennaio 2016, n. 8; sez. V, 2 dicembre 2015, n. 5459; sez. V, 30 novembre 2015, n. 5400; sez. IV, 6 agosto 2013, n. 4153; Cons. giust. amm., 14 settembre 2014, n. 536; 19 aprile 2012, n. 395), secondo cui:

a) gli artt. 3, 40 e 101 c.p.a. intendono definire gli elementi essenziali del ricorso, con riferimento alla causa petendi (i motivi di gravame) ed al petitum, cioè la concreta e specifica decisione richiesta al giudice; con particolare riguardo alla stesura dei motivi, lo scopo delle disposizioni è quello di incentivare la redazione di ricorsi dal contenuto chiaro e di porre argine ad una prassi in cui i ricorsi, oltre ad essere poco sintetici non contengono una esatta suddivisione tra fatto e motivi, con il conseguente rischio che trovino ingresso i c.d. "motivi intrusi", ossia i motivi inseriti nelle parti del ricorso dedicate al fatto, che, a loro volta, ingenerano il rischio della pronuncia di sentenze che non esaminano tutti i motivi per la difficoltà di individuarli in modo chiaro e univoco e, di conseguenza, incorrano nel rischio di revocazione;

b) la chiarezza e specificità degli scritti difensivi (ed in particolare dei motivi) si riferiscono all'ordine delle questioni, al linguaggio da usare, alla correlazione logica con l'atto impugnato (sentenza o provvedimento che sia), alle difese delle controparti; ne consegue che è onere della parte ricorrente operare una sintesi del fatto sostanziale e processuale, funzionale alla piena comprensione e valutazione delle censure, così evitando la prolissità e la contraddittoria commistione fra argomenti, domande, eccezioni e richieste istruttorie;

c) l'inammissibilità dei motivi di appello non consegue solo al difetto di specificità di cui all'art. 101, comma 1, c.p.a., ma anche alla loro mancata "distinta" indicazione in apposita parte del ricorso a loro dedicata, come imposto dall'art. 40 c.p.a. applicabile a giudizi di impugnazione in forza del rinvio interno operato dall'art. 38 c.p.a.; conducano alla inammissibilità per violazione dei doveri di sinteticità e specificità dei motivi, come sancito dagli artt. 3 e 40 c.p.a. (C.d.S., sez. V, 30 novembre 2015, n. 5400);

d) il dovere di sinteticità sancito dall'art. 3, comma 2, c.p.a., strumentalmente connesso al principio della ragionevole durata del processo (art. 2, comma 2, c.p.a.), è a sua volta corollario del giusto processo, ed assume una valenza peculiare nel giudizio amministrativo caratterizzato dal rilievo dell'interesse pubblico in occasione del controllo sull'esercizio della funzione pubblica; tale impostazione è conforme alla considerazione della «... giurisdizione come risorsa a disposizione della collettività, che proprio per tale ragione deve essere impiegata in maniera razionale, sì da preservare la possibilità di consentirne l'utilizzo anche alle parti nelle altre cause pendenti e agli utenti che in futuro indirizzeranno le loro controversie alla cognizione del giudice statale» (l'idea della funzione giurisdizionale quale "risorsa scarsa" è stata sviluppato dall'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato in due recenti pronunce, 25 febbraio 2014, n. 9 e 27 aprile 2015, n. 5, e ripreso dalle Sezioni unite della Corte di cassazione nelle sentenze 12 dicembre 2014, nn. 26242 e 26243 e, da ultimo, nella sentenza 20 ottobre 2016, n. 21260);

e) gli oneri di specificità sinteticità e chiarezza incombenti sulla parte ricorrente (e sul suo difensore, che tecnicamente la assiste in giudizio) trovano il loro fondamento:

I) nell'art. 24 Cost., posto che solo una esposizione chiara dei morivi di ricorso o, comunque, delle ragioni che sorreggono la domanda consente l'esplicazione del diritto di difesa delle altre parti evocate in giudizio;

II) nella loro strumentalità alla attuazione del principio di ragionevole durata del processo, ex art. 111, comma secondo, Cost., poiché un giudizio impostato in modo chiaro e sintetico, quanto alla causa petendi ed al petitum, rende più immediata ed agevole la decisione del giudice, evita l'attardarsi delle parti su argomentazioni ed eccezioni proposte a mero scopo tuzioristico, rende meno probabile il ricorso ai mezzi di impugnazione e, tra questi, in particolare al ricorso per revocazione, a maggior ragione se proposto con finalità meramente dilatorie del passaggio in giudicato della decisione;

III) nella necessità della difesa "tecnica", il che contribuisce a rendere evidente la natura della professione legale quale "professione protetta", ai sensi dell'art. 33, comma quinto, Cost. e degli artt. 2229 e seguenti del codice civile (cfr. Corte cost., 17 marzo 2010, n. 106);

f) l'esigenza "forte" della brevità degli scritti difensivi non è solamente una caratteristica dell'ordinamento processuale italiano; si pensi alle istruzioni pratiche relative ai ricorsi ed alle impugnazioni adottate - il 15 ottobre 2004 (G.U. L 29 dell'8 dicembre 2004) e modificate il 27 gennaio 2009 (G.U. L 29 del 31 gennaio 2009) - dalla Corte di giustizia dell'Unione europea;

g) in definitiva, lungi dal porsi come un "ostacolo" alla esplicazione del diritto alla tutela giurisdizionale, i principi di specificità chiarezza e sinteticità sono funzionali alla più piena e complessiva realizzazione del diritto di difesa in giudizio di tutte le parti del processo, in attuazione degli artt. 24 e 111 Cost., e sostengono, una volta di più, le ragioni della necessità di difesa tecnica e, dunque, della natura "protetta" della professione intellettuale legale.

A rafforzare gli approdi esegetici cui è pervenuta la giurisprudenza sopra riportata, è sopraggiunta la disciplina normativa recata dall'art. 7-bis, d.l. n. 168 del 2016, convertito con modificazioni dalla l. n. 197 del 2016, che, allo scopo di rendere effettivo il dovere di sinteticità e chiarezza degli scritti difensivi, ha esteso a tutti i riti del processo amministrativo il peculiare meccanismo previsto in origine dall'art. 120, comma 6, c.p.a. per il solo rito concernente le procedure di affidamento di appalti pubblici; tali norme, benché non direttamente applicabili ratione temporis al presente giudizio, rappresentano il punto di emersione del riconoscimento della fondatezza delle elaborazioni giurisprudenziali dianzi illustrate.

7.2.3. Nel caso di specie - premesso che la difesa del Q. non ha specificamente contestato l'eccezione di inammissibilità sollevata da Roma Capitale e non ha proposto di ridurre e semplificare i motivi di gravame - il Collegio rileva che l'atto di appello (di 217 pagine), risulta caratterizzato da plurime reiterazioni delle medesime argomentazioni, dalla conseguente esposizione delle stesse in modo non specifico ed esaustivo ma attraverso motivi intrusi, da interpolazioni con atti giudiziari ed amministrativi (talora fotocopiati ed inseriti nel testo), dallo stralcio di dibattiti in sedute di organi collegiali nonché da manifesta prolissità.

Tale esposizione ha reso estremamente difficile la comprensione del thema decidendum da parte del Collegio che - pur avendo effettuato una attività di "estrazione" dei motivi come desumibili dalla lettura del ricorso - resta non certo né della esaustività dei motivi di appello, né della loro esatta definizione contenutistica.

Tanto basta a che l'appello proposto dal Q. sia dichiarato inammissibile per difetto di specificità dei motivi proposti e violazione del dovere di sinteticità.

8. Ferma la declaratoria di inammissibilità complessiva dell'appello del signor Q., il Collegio ritiene - anche al fine di dissipare ogni incertezza in ordine ad una controversia che, come si è detto, ha interessato giudici di ambedue le giurisdizioni, ordinaria ed amministrativa, con la pronuncia di oltre venti sentenze - di dovere esporre anche le ulteriori, concorrenti ragioni per le quali l'appello (con riferimento ai motivi desumibili nei limiti del possibile dal Collegio), deve essere comunque dichiarato in parte inammissibile, in parte improcedibile, in parte infondato.

Tale esame, salvo che per quanto esposto al successivo § 8.1, sarà effettuato, per ragioni di consequenzialità logico-giuridica, dopo l'esame dell'appello incidentale proposto da Roma Capitale.

8.1. Il Q., con un motivo del proprio appello riferibile all'intera decisione, ritiene che "la decisione gravata... è stata adottata in spregio dei principi del contraddittorio, della parità delle parti e della terzietà ed imparzialità del giudice, con evidenti e gravi ripercussioni sulla motivazione", poiché, in particolare, il dibattimento non è stato condotto imparzialmente dal Presidente del Collegio, che avrebbe inoltre dovuto astenersi; il che comporterebbe - nella prospettazione dell'appellante - la violazione e falsa applicazione dell'art. 111 Cost. e dell'art. 6, par. 1 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, nonché dell'art. 2 c.p.a.

8.1.1. Il motivo è inammissibile.

8.1.2. Assodata la imprescindibile specificità dei motivi di appello per tutto quanto illustrato al precedente § 7.2. il Collegio rileva che la prospettazione della violazione (da parte del giudice) della parità processuale delle parti, ovvero del principio del contraddittorio, per assumere rilevanza ai fini della declaratoria di nullità della sentenza di I grado, ai sensi dell'art. 105 in relazione all'art. 2, comma 1, c.p.a., deve concretizzarsi in atti processuali da cui tale violazione si evinca in concreto.

Al contrario, nel caso di specie, l'appellante:

- per un verso, ha genericamente prospettato violazioni del diritto di difesa (par condicio processuale, principio del contraddittorio) con riferimento alla conduzione della discussione in udienza pubblica;

- per altro verso, ha inteso censurare, con motivo di appello, non già la decisione o un capo della medesima, con riferimento alla pronuncia ivi espressa, bensì il comportamento del giudice quale sintomo di "spregio... della terzietà e della imparzialità" e costituente una "violazione del dovere di astensione".

Appare evidente la estraneità della doglianza alla finalità ed al contenuto specifici dei motivi di appello.

In ordine al primo aspetto, occorre comunque ricordare che, ai sensi dell'art. 11, comma 1, norme di attuazione c.p.a. (all. 2), "l'udienza è diretta dal presidente del collegio" e che, ai sensi dell'art. 73, comma 2, c.p.a., le parti, ove lo ritengano, nell'udienza possono "discutere sinteticamente".

Ne consegue che rientra nell'esercizio degli ordinari poteri di conduzione dell'udienza che il presidente possa dare la parola ai difensori, ovvero invitarli al rispetto del principio di sinteticità, ovvero anche, ove l'invito non sia accolto, ritenere esaurita la discussione e/o sufficiente l'esposizione orale ai fini della decisione del Collegio. E ciò a maggior ragione in un processo, quale quello amministrativo, in cui il diritto di difesa si esercita essenzialmente in via "documentale", per il tramite di atti instaurativi e di costituzione, memorie e repliche.

Né, infine, assume rilievo la pur dedotta violazione del dovere di astensione da parte del giudice, poiché per un verso tale deduzione è anch'essa estranea alla "logica" dell'impugnazione, come innanzi indicata, e, per altro verso, a fronte di tale eventualità, l'ordinamento appresta rimedi diversi, quali in via preventiva la ricusazione (art. 52 c.p.c.), ed in via successiva, la revocazione della sentenza emessa, una volta accertato con sentenza passata in giudicato il dolo del giudice (art. 395, n. 6, c.p.c.), come si argomenta agevolmente dalle sentenze dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato nn. 4 e 5 del 2014 che negano la possibilità di dedurre come motivo di impugnazione la mancata astensione del giudice ove non sia stata proposta istanza di ricusazione, fatto salvo il caso - qui non ricorrente - dell'interesse proprio del giudice nella causa).

9. Roma Capitale, con il proprio appello incidentale (autonomo) deduce l'inammissibilità dell'appello Q. (relativamente ai capi della sentenza con i quali si è sospeso il giudizio sulle domande di risarcimento danni proposte con l'atto di intervento nel ricorso r.g. n. 7975/2009, e successivamente oggetto del ricorso n. 5157/2011 r.g.).

Ciò in quanto, nella prospettazione dell'appellante incidentale, con riferimento alle originarie domande di risarcimento danni (sulle quali il TAR ha sospeso il giudizio):

a) è intervenuto un giudicato giurisdizionale, poiché il Q. ha già istaurato identico giudizio risarcitorio innanzi al giudice ordinario (definito con sentenza di merito sfavorevole) ed in nessuno stato e grado del medesimo è stata mai declinata la giurisdizione, di modo che la medesima risulta oggetto di giudicato;

b) limitatamente alla domanda risarcitoria proposta con atto di intervento nel giudizio instaurato dalla società SEP in primo grado, la stessa è inammissibile perché nel giudizio amministrativo non è ammesso l'intervento cd. autonomo;

c) ab origine difetta l'interesse ad agire del Q. non avendo i genitori dell'istante "subito alcun danno dall'occupazione".

9.1. Come si è già ricordato, la sentenza impugnata - poiché la pretesa risarcitoria del Q. si fonda sulla esistenza e validità di contratti di affitto stipulati con la SEP, esistenza e validità negate dalla Corte di appello di Roma, con sentenza n. 2595/2004, che ha affermato "l'inesistenza di una qualsivoglia azienda agricola" - ha sospeso il giudizio, fino alla definizione del ricorso per revocazione della sentenza di Cassazione n. 22631/2011 (questa sentenza ha dichiarato inammissibile il ricorso per Cassazione proposto avverso la sentenza della Corte di appello di Roma n. 3903/2006 che aveva a sua volta dichiarato inammissibile il ricorso per revocazione proposto avverso la precedente sentenza della medesima Corte di appello n. 2595/2004, cioè quella che ha escluso l'esistenza di una qualsivoglia azienda agricola). La Corte di cassazione, con ordinanza 19 febbraio 2014, n. 3990, ha dichiarato inammissibile il ricorso per revocazione, determinando in tal modo il passaggio in giudicato della sentenza della Corte di appello di Roma 31 maggio 2004, n. 2595.

Occorre osservare che avverso tali capi della sentenza anche il Q. è insorto - per quanto è dato comprendere - censurando la correttezza della decisione impugnata, laddove essa dispone la sospensione del giudizio in ordine alle domande di risarcimento danni proposte, richiedendo, di conseguenza, la pronuncia sulla fondatezza di tale pretesa.

Nel caso di specie, mentre i motivi di impugnazione proposti dal Q. sono rivolti alla espressa censura della decisione interlocutoria assunta dal giudice di I grado, i motivi dell'appello incidentale proposti da Roma Capitale propongono una (pregiudiziale) questione di ammissibilità dell'atto di intervento e del ricorso Q., assumendo in primis l'inammissibilità dei medesimi per essersi già pronunciato sulle medesime domande risarcitorie il giudice ordinario, con radicamento della giurisdizione in capo al medesimo.

L'esame dell'appello incidentale del Comune di Roma è pertanto pregiudiziale, posto che dal suo accoglimento risulterebbe:

a) "travolta" l'ordinanza di sospensione e, dunque, ogni altra questione in ordine alla sussistenza dei presupposti per l'adozione della medesima (in primis l'accertamento della fondatezza della pretesa risarcitoria azionata dal Q.); infatti, se tale decisione certamente determina l'improcedibilità dei motivi di appello del Q., in quanto rivolti avverso la decisione di sospensione del giudizio (per essere stato ormai rimosso il presupposto della sospensione stessa e potendosi dunque riprendere il giudizio sospeso - ed in tal senso Roma Capitale dichiara di avere già proposto la riassunzione: v. memoria del 8 maggio 2014), non altrettanto può dirsi in ordine al motivo di appello incidentale proposto da Roma Capitale, che pone, nei sensi innanzi esposti, una questione pregiudiziale e antecedente (sul piano logico-giuridico) alla stessa sospensione a suo tempo disposta dal primo giudice; una questione che, ove accolta, determina la definizione (sia pure "in rito") delle domande proposte dal Q. con l'atto di intervento e con il ricorso n. 5157/2011 r.g. e che dispiega efficacia di giudicato ai fini delle successive determinazioni del giudice di primo grado, innanzi al quale, una volta riassunto, il giudizio (già) sospeso dovrà concludersi;

b) l'accertamento del difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, a seguito della intervenuta formazione del giudicato sulla proponibilità delle domande di risarcimento del danno innanzi al giudice ordinario, che impedirebbe al Q. di coltivare ulteriormente la causa davanti al TAR.

9.2. Il Q., dichiarando di agire jure proprio et jure hereditatis, richiede (come sembra desumersi dalle conclusioni del ricorso in appello, v. pagine 207-210):

- con il ricorso n. 5157/2011: "il risarcimento del danno inferto... per l'illegittima procedura di esproprio";

- con l'atto di intervento nel ricorso n. 7975/2009, il risarcimento dei seguenti danni (condannandosi in solido Roma Capitale e società SEP): danni morali (sofferenza morale per aver subito una terribile ingiustizia); danni da perdita di status (non più essendo "agricoltori benestanti"); danni da perdita delle abitazioni e del lavoro; danni per mancata utilizzazione dei beni (che avrebbe dovuto detenere per circa trenta anni); danni da mancata vendita diretta dal produttore al consumatore (dei prodotti dell'allevamento del bestiame ed agricoli); spese sostenute per il finanziamento bancario ed i lavori eseguiti per la piena utilizzazione della tenuta.

9.3. In sede civile, in conseguenza delle domande proposte con atto di citazione del 19 giugno 1990, dal Q. attuale appellante e dai suoi familiari:

- il Tribunale di Roma, con sentenza 29 maggio 2001, n. 20373, ha condannato il Comune di Roma al pagamento dei danni subiti dai Q. "a seguito della illecita occupazione delle... aree detenute legittimamente dalla famiglia Q. nella misura di Lire 1.464.175.000, con interessi legali dalla data della sentenza al soddisfo";

- la Corte di appello di Roma, con sentenza 11 maggio 2004, n. 2595:

- - in accoglimento dell'appello proposto dai medesimi Q., con il quale questi deducevano che era stata loro liquidata una somma a titolo di indennizzo spettante al coltivatore diretto ex art. 17 l. n. 865/1971, laddove la loro domanda era diretta "alla rivendicazione di tutti i profili di danno emergenti ex art. 2043, esclusi ovviamente i profili indennitari legati all'applicazione dell'art. 17 della l. n. 865/1971", ha riconosciuto sussistente il vizio di ultrapetizione, annullando "il capo della condanna contenuto nella sentenza impugnata relativo al pagamento della suddetta indennità di cui all'art. 17 l. n. 865/1971"; peraltro, la Corte d'Appello rilevava che per la corresponsione dell'indennità ex art. 17 cit., i Q. avevano già proposto domanda innanzi ad altro giudice;

- - rigettando nel resto l'appello Q. ed anche in accoglimento dell'appello incidentale del Comune di Roma, ha statuito: a) che l'indennizzo ex art. 17 l. n. 865/1971 "è incompatibile e non è certamente cumulabile con la domanda di risarcimento dei danni ex art. 2043 c.c. ... che necessariamente presuppone che l'acquisizione del fondo non sia avvenuta attraverso il rituale espletamento della procedura espropriativa"; b) che, comunque, con riferimento alla domanda ex art. 2043 c.c., "nessuna prova hanno allegato circa l'esistenza di un'azienda agricola e comunque dell'esercizio di qualsivoglia attività agricola e comunque non risulta in atti alcuna prova certa dell'avvenuta lesione di diritti soggettivi degli attori, né a livello materiale né a livello morale" (giova osservare che, con l'appello, i Q. avevano richiesto il risarcimento dei danni, ex art. 2043 c.c., "per la perdita non solo del lavoro, dell'attività impiantata sui terreni oggetto dell'espropriazione (ha 51) ma anche delle residue attività attivate sui restanti fondi coltivati... resi sostanzialmente inutilizzabili dall'espropriazione", ed inoltre i danni morali).

Avverso la sentenza n. 2595/2004 sono stati proposti due distinti mezzi di impugnazione:

- il ricorso per Cassazione, che è stato rigettato con sentenza della Sez. II, 20 dicembre 2005, n. 28126 (e tale sentenza è stata impugnata con ricorso per revocazione, dichiarato inammissibile con ordinanza 3 marzo 2009, n. 5110, così come è stato dichiarato inammissibile, con sentenza 29 agosto 2011, n. 17714, il ricorso per revocazione della su citata ordinanza n. 5110/2009);

- il ricorso per revocazione, che è stato dichiarato inammissibile con sentenza della Corte di appello di Roma 14 settembre 2006, n. 3903 (e il ricorso per Cassazione avverso tale decisione è stato dichiarato inammissibile con sentenza 31 ottobre 2011, n. 22631).

Da ultimo, è stato proposto il ricorso per revocazione anche della menzionata sentenza della Cassazione n. 22631/2011, il quale è stato definito dalla medesima Corte con la più volte citata ordinanza sez. VI, 19 febbraio 2014, n. 3990.

Esauriti i mezzi di impugnazione in sede civile, è, dunque, passata in giudicato la sentenza della Corte di appello di Roma n. 2595/2004 e le statuizioni in essa contenute.

Nella presente sede, occorre prescindere - per estraneità al thema decidendum - dagli effetti della predetta sentenza quanto all'indennità ex art. 17 l. n. 865/2001, in ordine alla quale la Corte di appello ha accolto l'appello dei Q., riconoscendo il vizio di ultrapetizione ed annullando, per tale capo, la sentenza del Tribunale di Roma. Ne consegue che non vi è luogo a provvedere sulla domanda (peraltro proposta solo in via subordinata da Roma Capitale) relativa alla restituzione/compensazione della somma di Lire 1.880.000, versate dal Comune di Roma in esecuzione della sentenza n. 20373/2001 del Tribunale di Roma.

Al contrario, per quel che interessa nella presente sede, è passata in giudicato il rigetto della domanda di risarcimento danni, ex art. 2043 c.c. (come innanzi precisata), stante l'inesistenza della azienda agricola Q. e l'assenza di prove certe in ordine alla "avvenuta lesione di diritti soggettivi degli attori, né a livello materiale né a livello morale".

Il rigetto della domanda di risarcimento da parte della sentenza n. 2595/2004, dunque, non è conseguenza solo della incompatibilità di tale domanda con quella di indennizzo ex art. 17 l. n. 865/1971, ma anche per ragioni "di merito", e cioè per insussistenza del presupposto (esistenza dell'azienda agricola) e del danno, consistente in lesione di diritti soggettivi patrimoniali e morali.

A fronte di ciò, non assume rilievo quanto più volte dedotto dall'appellante Q. in ordine alla supposta esistenza di un "giudicato" relativo alla esistenza di contratti di affitto (v. tra l'altro, memorie 16 maggio 2014, pag. 9, 16 dicembre 2014, pag. 4; 14 dicembre 2015, pag. 5), poiché le richiamate sentenze del giudice amministrativo (TAR Lazio, n. 1860/1993; C.d.S., n. 336/1997 e 6953/2010) hanno al più accertato la qualità di affittuario solo in via incidentale e per la verifica di sussistenza delle condizioni dell'azione, non avendo, peraltro, il giudice amministrativo giurisdizione in materia.

9.4. Chiariti, in tal modo, sia il contenuto delle domande proposte dal Q., sia il decisum della sentenza n. 2595/2004 della Corte di appello di Roma, passata in giudicato, il Collegio ritiene che le domande di risarcimento del danno proposte da quest'ultimo in primo grado innanzi al TAR (con l'atto di intervento nel ricorso n. 7795/2009 e con il ricorso n. 5157/2011), corrispondono a quelle che hanno già formato oggetto del giudicato di rigetto (in ciò concordando con quanto dedotto da Roma Capitale e dalla SEP: v. pagine 13-15 memoria del 8 maggio 2014).

Tale giudicato di merito, alla stregua dei principi elaborati dalla costante giurisprudenza (cfr. da ultimo Cass. civ., sez. un., nn. 21260 del 2016; 15208 del 2015; C.d.S., sez. V, n. 4542 del 2012) ha implicato la formazione del giudicato implicito sulla giurisdizione del giudice ordinario a conoscere del rapporto controverso, con autorità c.d. esterna perché capace di spiegare i propri effetti al di fuori del processo nel quale siano state adottate le statuizioni di merito.

Pertanto, una volta che il giudice ordinario (nella specie, la Corte di appello di Roma con sentenza n. 2595/2004) si è pronunciato sulle domande di risarcimento del danno ex art. 2043 c.c., non è ammissibile la riproposizione delle medesime domande innanzi al giudice amministrativo, carente di giurisdizione all'epoca della proposizione della domanda, pur se successivamente divenutone attributario. E ciò in quanto il "fatto illecito" sostanziale, per il quale si è richiesta la tutela giurisdizionale, è stato già oggetto di domanda proposta innanzi al giudice ordinario, (allora) attributario di giurisdizione e da questi giudicata.

Le conclusioni alle quali si è pervenuti non sono revocate in dubbio dal fatto che il giudice ordinario (nella specie, Tribunale di Roma), con sentenza n. 5767/2011, ha dichiarato il proprio difetto di giurisdizione sulla domanda proposta da Aldo Q. per la condanna del Comune di Roma al risarcimento dei danni causati dall'occupazione connessa all'illegittima procedura di esproprio; sentenza cui ha fatto seguito la proposizione del ricorso n. 5157/2011, innanzi al TAR per il Lazio; tale pronuncia, infatti, non impedisce il rilievo di un giudicato di merito con autorità di giudicato esterna anche sulla giurisdizione, da parte del giudice amministrativo successivamente adito.

Da quanto sin qui esposto, in accoglimento dell'appello incidentale di Roma Capitale,discende l'inammissibilità dell'atto di intervento nel giudizio instaurato con il ricorso SEP n. 7795/2009 r.g. e del ricorso n. 5157/2011 r.g. e la conseguente declaratoria di improcedibilità dell'appello del signor Q.

10. Ferme, come si è detto, le assorbenti ragioni per le quali l'appello del signor Q. deve essere dichiarato inammissibile e improcedibile, sussistono ancora ulteriori, concorrenti ragioni di inammissibilità e di infondatezza delle domande da questi proposte.

10.1. Invero l'appello, nella parte in cui è stato proposto avverso il capo della sentenza che ha dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo in ordine ai ricorsi nn. 7718/2001 e 8790/2002, risulterebbe comunque infondato.

Come ha condivisibilmente affermato la sentenza impugnata, gli atti impugnati (ordinanze sindacali 28 gennaio 2001, n. 136 e 15 aprile 2002, n. 102, unitamente ai relativi atti di comunicazione), sono essenzialmente finalizzati a censurare la quantificazione dell'indennità stabilita dall'amministrazione capitolina ai sensi dell'art. 17, comma 2, l. n. 865/1971.

Tale considerazione non è superata dal motivo di appello proposto, secondo il quale, peraltro, le contestazioni svolte nei due gravami riguardano (per ammissione dello stesso appellante, pag. 105 app.) "in parte vizi del procedimento... e per altro verso il difetto di motivazione del provvedimento e l'eccesso di potere per avere erroneamente valutato le conseguenze dell'esproprio e dell'asservimento ed occupazione del fondo" sull'attività agricola, affermandosi inoltre che "ciò che si contesta con il presente motivo non è la misura dell'indennità riconosciuta all'affittuario, ma il criterio che ha portato l'amministrazione all'applicazione del citato art. 17" (pag. 115 app.).

La sussistenza della (normativamente riaffermata) giurisdizione del giudice ordinario in ordine alle controversie "riguardanti la determinazione e la corresponsione delle indennità in conseguenza della adozione di atti di natura espropriativa o ablativa" (art. 133, comma 1, lett. f) e g), c.p.a.) attrae, come è ovvio, la cognizione in ordine a tutte le doglianze rivolte avverso tali atti, sia se relative al procedimento finalizzato alla loro adozione, sia se relative alla "motivazione" dell'atto adottato dall'amministrazione (ovvero, più precisamente, alla qualificazione della natura del suolo o del diritto reale su di esso vantato, al metodo di quantificazione dell'indennità, etc.).

Ne consegue che tali controversie, afferendo alla corretta determinazione delle indennità in conseguenza dell'adozione di atti di natura espropriativa o ablativa, rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario (v., tra le tante, Cass. civ., sez. un., 25 luglio 2016, n. 15283; 30 maggio 2014, n. 12178).

10.2. La domanda di risarcimento del danno proposta innanzi al giudice amministrativo, nei confronti di un soggetto privato, al quale non sia assolutamente attribuibile la natura di pubblica amministrazione e/o di organismo pubblico, anche se evocato come responsabile in solido con una pubblica amministrazione, è proposta innanzi a giudice sprovvisto di giurisdizione.

Ciò in quanto, ai sensi dell'art. 103 Cost. e dell'art. 7, commi 1 e 2, c.p.a., la giurisdizione, anche esclusiva, del giudice amministrativo si esercita nei confronti di pubbliche amministrazioni, così come già affermato dalla sentenza impugnata, laddove essa ha dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo sulle domande di risarcimento del danno proposte dal Q. nei confronti della SEP (cfr. da ultimo Cass. civ., sez. un., n. 19677 del 2016).

10.3. In ogni caso, le domande di risarcimento del danno, in quanto proposte dal Q., anche in (asserita) rappresentanza di altri familiari, sono inammissibili per difetto di legittimazione attiva, non potendo invocarsi a tal fine né l'art. 48 l. n. 203/1982, in tema di rappresentanza della impresa familiare coltivatrice, né l'art. 2257 c.c., in tema di amministrazione disgiuntiva nelle società semplici.

Ed infatti, la rappresentanza anche processuale della famiglia coltivatrice spetta a ciascuno dei componenti del gruppo, in assenza di nomina del rappresentante, solo nell'ambito del rapporto agrario tra concedente e famiglia coltivatrice, e tenuto inoltre conto del fatto che pretese di carattere risarcitorio, anche se trovano la propria origine nel rapporto agrario, non perdono la loro essenza squisitamente individuale (Cass. civ., sez. I, 31 ottobre 2011, n. 22631; 12 gennaio 2010, n. 254; 5 gennaio 2001, n. 124).

10.4. In via ulteriormente gradata, si evidenzia che la domanda di risarcimento del danno proposta con atto di intervento nel giudizio instaurato dalla società SEP con il ricorso n. 7795/2009 r.g. è inammissibile, posto che nel giudizio amministrativo non è previsto il cd. intervento autonomo (invece contemplato dall'art. 105, comma 1, c.p.c.), ma solo interventi ex artt. 28 e 50 c.p.a., riconducibili al c.d. intervento adesivo dipendente (cfr. C.d.S., sez. IV, 6 maggio 2013, n. 2446 e 30 novembre 2010, n. 8363; sez. V, n. 1640 del 2012), e prevedendosi, altresì, il ricorso incidentale per proporre "domande il cui interesse sorge in dipendenza della domanda posta in via principale (art. 42, comma 1, c.p.a.), ovvero, per i casi di giurisdizione esclusiva, la possibilità di proporre le sole domande riconvenzionali nei termini e con le modalità del ricorso incidentale (art. 42, comma 5, c.p.a.).

10.5. Per ulteriore completezza, e senza che quanto di seguito esposto acquisti valore di pronuncia, occorre ricordare, quanto alla fondatezza della domanda di risarcimento del danno, che, se è vero che l'affittuario che sia costretto ad abbandonare il fondo da lui coltivato in difetto di un valido provvedimento espropriativo, ovvero a seguito del suo annullamento, non ha diritto all'indennità prevista dall'art. 17 della l. 22 ottobre 1971, n. 865, ma al risarcimento del danno cagionatogli dall'illegittima costruzione dell'opera pubblica, liquidato, ai sensi dell'art. 2043 c.c., con riferimento all'entità dell'indennità aggiuntiva non percepita e di cui avrebbe beneficiato in caso di emanazione di un valido provvedimento ablativo, è altrettanto vero che al medesimo non spetta il danno da perdita di "chance", atteso che, anche se la P.A. avesse ritualmente concluso la procedura espropriativa, egli avrebbe avuto diritto unicamente alla menzionata indennità, senza poter reclamare il ristoro di ulteriori danni, come quelli derivanti dalla pretesa alla continuazione del rapporto agrario, incompatibile con la soppressione, ad una certa data, di ogni diritto sul bene (Cass. civ., sez. I, 23 luglio 2014, n. 16731). Inoltre, in nessun caso può essere richiesta indennità (o risarcimento del danno) per parti ulteriori del fondo coltivato dal fittavolo, mezzadro o colono, ma non oggetto di occupazione e poi di espropriazione, non essendovi fatti interruttivi della coltivazione (Cass., sez. I, 15 maggio 2008, n. 12306). Dal che discende, in ogni caso, l'infondatezza della domanda di risarcimento del danno come articolata nell'atto di intervento nel giudizio instaurato con ricorso n. 7795/2009 r.g.

10.6. In definitiva, in ordine all'appello Q. occorre concludere per l'inammissibilità del medesimo, ai sensi degli artt. 3, comma 2, 40, comma 2, lett. d), e 101, comma 1, c.p.a., evidenziate le concorrenti ragioni che ne determinerebbero, comunque, in parte l'inammissibilità, in parte l'improcedibilità ed in parte l'infondatezza.

Inoltre, in accoglimento del corrispondente motivo dell'appello incidentale di Roma Capitale, ed in riforma della sentenza impugnata, devono dichiararsi inammissibili le domande di risarcimento del danno proposte dal Q. in primo grado, con l'atto di intervento nel giudizio instaurato da SEP con ricorso n. 7795/2009 r.g. e con il ricorso autonomo n. 5157/2011 r.g., stante la precedente proposizione di identica domanda innanzi al giudice ordinario definita con statuizione di rigetto passata in giudicato.

L'accoglimento in parte qua dell'appello incidentale di Roma Capitale rende superfluo esaminare gli ulteriori motivi posti a sostegno del medesimo gravame, da intendersi assorbiti in senso proprio, al pari dell'eccezione di prescrizione del diritto al risarcimento del danno del Q. (secondo le coordinate esegetiche tracciate dall'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 5 del 2015).

È bene precisare, infine, che tale accoglimento travolge il capo della sentenza di primo grado che ha disposto la sospensione del giudizio ex art. 295 c.p.c. in adesione ad espressa istanza formulata dalla difesa di Roma Capitale

11. Come si è già illustrato nella esposizione in fatto, la società SEP ha proposto appello avverso la sentenza n. 9052/2012 del TAR per il Lazio, nella parte in cui:

- essa ha dichiarato inammissibili le domande volte ad ottenere il risarcimento del danno da perdita sostanziale della proprietà, derivante dalla illegittima occupazione degli immobili di cui alla delibera C.C. 27 ottobre 1982, n. 4392;

- essa ha accolto solo in parte, limitandola ai danni successivi al quinquennio anteriore alla proposizione della domanda notificata il 25 settembre 2009, la richiesta risarcitoria della SEP riferita al mancato godimento dei beni a causa dell'occupazione, ordinando per l'effetto al Sindaco di Roma Capitale di proporre entro novanta giorni dalla comunicazione della sentenza il pagamento di una somma di denaro, secondo i criteri indicati in motivazione, da compensare con quanto dovuto dalla SEP a Roma Capitale, per effetto della sentenza della Corte di appello di Roma n. 699/2009.

11.1. A sua volta, Roma Capitale ha proposto appello incidentale, deducendo che la sentenza risulta errata laddove essa ha "individuato i criteri per la determinazione del danno da mancato godimento del terreno occupato in modo forfettario, parametrandoli su quelli di cui all'art. 42-bis t.u. espropriazioni", laddove "ai fini della quantificazione del ristoro patrimoniale era necessario prendere in esame la situazioni di fatto e di diritto del bene e non definire criteri astratti e forfettari".

Secondo l'appellante incidentale, va considerato che:

a) il terreno avrebbe potuto essere utilizzato al massimo "come area agricola con una serie di limitazioni e vincoli posti alla stessa possibilità di coltivazione del fondo";

b) rispetto alla quota di territorio occupata dal Comune, la SEP ha ottenuto titoli processuali di rientro nel possesso di distinte porzioni dell'area solo nel 1998 e nel 1991 (v. pagina 30 dell'appello incidentale);

c) la reale redditività dei terreni "tutti oggetto di contratti agricoli con canoni assolutamente risibili";

d) "l'assoluto stato di abbandono in cui versava l'area oggetto di occupazione".

11.2. Giova ricordare, ai fini della presente decisione, che:

a) l'occupazione dei suoli dell'appellante è divenuta sine titulo per effetto della sentenza n. 1860/1993 (poi confermata dal Consiglio di Stato, con sentenza n. 336/1997), con la quale il TAR per il Lazio annullava le delibere n. 898/1981 CC (di variante urbanistica), n. 4392/1982 CC (di approvazione del progetto "Parco pubblico del Pineto") e n. 11138/1982 G.C. (di occupazione di urgenza delle aree), in accoglimento di ricorsi proposti dai signori Q.;

b) per effetto del decreto di esproprio n. 643/1991, poi travolto dall'annullamento degli atti del procedimento espropriativo, la SEP, in data 9 marzo 1993, ha incassato la somma depositata, maggiorata di interessi, di oltre 17 miliardi, e precisamente pari a lire 17.757.662.135.

A seguito delle decisioni innanzi riportate, il TAR per il Lazio, con sentenza n. 35895/2010, dichiarava improcedibili per sopravvenuta carenza di interesse i ricorsi proposti dalla SEP avverso i medesimi atti, essendosene già verificato l'annullamento (e l'appello r.g. n. 5219/2011 proposto dal Comune di Roma avverso tale decisione, non risulta allo stato definito).

11.3. Per completezza si deve dare atto che:

a) l'impugnata sentenza, fra la altre statuizioni inerenti il rapporto fra SEP e Roma Capitale, ha dichiarato prescritta e comunque inammissibile la domanda di risarcimento del danno da mancata lottizzazione, ed ha disposto la compensazione fra il credito risarcitorio della SEP e quanto dalla medesima percepito a titolo di indennità di esproprio;

b) tali capi non sono stati impugnati come esplicitamente riconosciuto dalla difesa della SEP (pagina 54 dell'atto di appello).

12. Alla luce dei motivi di cui agli appelli principale ed incidentale, che in quanto intimamente connessi possono essere esaminati congiuntamente, occorre procedere:

a) innanzi tutto, a verificare la fondatezza della domanda di risarcimento del danno avanzata dalla SEP, per effetto della perdita del diritto di proprietà (individuandone il fatto o atto determinante e, dunque, il dies di riferimento), quale conseguenza della abusiva occupazione degli immobili di sua proprietà, e, in caso positivo, procedere alla quantificazione del danno risarcibile, ovvero ad indicare i criteri ex art. 34, comma 4, c.p.a.;

b) in secondo luogo, a verificare l'an ed il quantum del danno risarcibile per mancato godimento degli immobili di proprietà.

12.1. In ordine ad entrambe le questioni innanzi evidenziate, il Collegio ritiene di attenersi a quanto affermato dalla più recente giurisprudenza della Corte costituzionale (sentenza 30 aprile 2015, n. 71), delle Sezioni unite della Corte di cassazione (sentenze 19 gennaio 2015, n. 735, 29 ottobre 2015, n. 22096 e 25 luglio 2016, n. 15283) e dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (sentenza 9 febbraio 2016, n. 2).

Il quadro che ne risulta - ricostruito alla luce dei principi elaborati dalla Corte di Strasburgo - è, in estrema sintesi, il seguente:

a) quale che sia la sua forma di manifestazione (vie di fatto, occupazione usurpativa, occupazione acquisitiva), la condotta illecita dell'amministrazione incidente sul diritto di proprietà non può comportare l'acquisizione del fondo e configura un illecito permanente ex art. 2043 c.c. - con la conseguente decorrenza del termine di prescrizione quinquennale dalla proposizione della domanda basata sulla occupazione contra ius, ovvero dalle singole annualità per quella basata sul mancato godimento del bene;

b) l'illecito permanente viene a cessare solo in conseguenza:

I) della restituzione del fondo;

II) di un accordo transattivo;

III) della rinunzia abdicativa da parte del proprietario implicita nella richiesta di risarcimento del danno per equivalente monetario a fronte della irreversibile trasformazione del fondo;

IV) di una compiuta usucapione;

V) di un provvedimento emanato ex art. 42-bis t.u. espr.

12.2. Per completezza espositiva (in considerazione della rilevanza degli interessi in gioco e del ribaltamento di consolidati indirizzi dogmatici non a caso posti a sostegno, su versanti contrapposti, dei rispettivi gravami), il Collegio ripercorre brevemente la storia degli effetti dell'occupazione sine titulo della proprietà privata che ha interessato in modo complesso la legislazione e la giurisprudenza (ordinaria ed amministrativa) degli ultimi trenta anni, sia con riferimento al "dato sostanziale" ed alle sue conseguenze, sia con riferimento al riparto di giurisdizione.

Nel tempo sono stati elaborati i distinti istituti della occupazione "appropriativa" e di quella "usurpativa", caratterizzati, nel primo caso, "da una anomalia del procedimento espropriativo, a causa della sua mancata conclusione con un formale atto ablativo", nel secondo caso dalla "trasformazione del fondo di proprietà privata, in assenza di dichiarazione di pubblica utilità".

Nell'ipotesi di occupazione acquisitiva, la giurisprudenza (in primis, Cass., sez. un., 26 febbraio 1983, n. 1464; successivamente anche Cass., sez. un., 10 giugno 1988, n. 3940 e 25 novembre 1992, n. 12546, con precisazioni in tema di decorrenza del termine di prescrizione) aveva individuato il modo di acquisto della proprietà come conseguenza di una inversione del modus civilistico dell'accessione, di cui agli artt. 934 ss. c.c., in considerazione della intervenuta irreversibile trasformazione del fondo per effetto della realizzazione dell'opera pubblica. Tale fatto comportava "l'estinzione del diritto di proprietà del privato e la contestuale acquisizione a titolo originario della proprietà in capo all'ente costruttore", ed inoltre, costituendo "un fatto illecito (istantaneo, sia pure con effetti permanenti)", esso "abilita(va) il privato a chiedere nel termine prescrizionale di cinque anni dal momento della trasformazione del fondo... la condanna dell'ente medesimo a risarcire il danno derivante dalla perdita del diritto di proprietà, mediante il pagamento di una somma pari al valore che il fondo aveva in quel momento, con la rivalutazione per la eventuale diminuzione del potere di acquisto della moneta, fino al giorno della liquidazione" (e tanto era ritenuto costituzionalmente legittimo da Corte cost., 23 maggio 1995, n. 188).

È appena il caso di ricordare, nella presente sede, che la cd. "accessione invertita", correlata alla cd. "occupazione acquisitiva", tentava di comporre i contrapposti interessi, superando una precedente giurisprudenza (Cass., sez. I, 2 giugno 1977, n. 2234; 26 settembre 1978, n. 4323), secondo la quale, nelle ipotesi considerate, il privato restava proprietario del bene occupato, aveva diritto al solo risarcimento del danno determinato dalla perdita del godimento della res occupata ed era comunque soggetto alla tardiva (rispetto ai termini stabiliti per l'espropriazione) emanazione del decreto di esproprio, ritenuto comunque idoneo a ricondurre il "fatto" dell'occupazione nell'alveo della legittimità procedimentale (affermandosi anche che l'eventuale opposizione già proposta innanzi alla Corte di appello avverso il decreto di determinazione dell'indennità di occupazione si "convertiva" ipso facto in domanda di risarcimento del danno, con necessità di riassunzione del giudizio innanzi al Tribunale competente).

Successivamente, la giurisprudenza ha ulteriormente approfondito il caso della occupazione sine titulo della proprietà altrui, distinguendo - pur con qualche "scostamento" in ordine all'attribuzione dei singoli casi all'una o all'altra figura, emergente all'analisi dettagliata delle decisioni - tra una occupazione cd. acquisitiva ed una occupazione cd. usurpativa.

Secondo la giurisprudenza:

a) l'occupazione appropriativa si realizza allorché vi sia trasformazione irreversibile del fondo, con destinazione ad opera pubblica o ad uso pubblico, e ciò avviene in assenza di decreto di esproprio, con carattere di illecito, che si consuma alla scadenza del periodo di occupazione legittima, se nel frattempo l'opera pubblica è stata realizzata, ovvero al momento della trasformazione, nel caso in cui l'ingerenza nella proprietà privata abbia già carattere abusivo o se essa acquisti tale carattere perché la trasformazione medesima avviene dopo la scadenza del periodo di occupazione legittima; e ciò sempre che vi sia una dichiarazione di pubblica utilità che attesti la destinazione pubblicistica dell'opera (Cass. civ., sez. un., 6 maggio 2003, n. 6853); essa comporta l'obbligo dell'amministrazione espropriante di risarcire il danno nei confronti del privato (Cass. civ., Sez. un., ordinanza 21 gennaio 2005, n. 1235);

b) la occupazione usurpativa, invece, si ha (secondo Cass. civ., sez. I, 12 dicembre 2001, n. 15710), "nell'ipotesi in cui la dichiarazione di pubblica utilità manchi ovvero debba ritenersi giuridicamente inesistente (come nei casi in cui essa sia stata annullata dal giudice amministrativo, o sia carente dei suoi caratteri essenziali tipici, fra i quali la prefissione dei termini richiesti dall'art. 13 l. n. 2359/1865 per il compimento delle espropriazioni e dei lavori) o, ancora, sia divenuta inefficace..., configurandosi in tal caso solo una mera occupazione-detenzione illegittima dell'immobile privato, inquadrabile nella responsabilità ex art. 2043 c.c., con le necessarie implicazioni sia in punto di prescrizione del diritto al risarcimento del danno derivante dalla permanenza della illecita occupazione, sia in punto di esperibilità delle azioni reipersecutorie a tutela della non perduta proprietà del bene, potendo tale tutela trovare ostacolo solo nella eccessiva onerosità della reintegrazione in forma specifica (art. 2058, comma 2, c.c.), nonché dal pregiudizio arrecato dalla distruzione dell'opera alla economia nazionale (art. 2933, comma 2, c.c.), con la conseguente possibilità per l'interessato di scegliere di abbandonare l'immobile danneggiato all'amministrazione occupante ed ottenere in cambio l'integrale risarcimento del danno" (in senso sostanzialmente conforme, Cass. civ., sez. I, 16 maggio 2003, n. 7643; sez. I, 21 settembre 2004, n. 18916).

Diverse le conseguenze derivanti dalle due forme di occupazione in relazione al momento acquisitivo della proprietà da parte dell'amministrazione:

c) nel caso di occupazione appropriativa, tale momento deve essere individuato in quello in cui si realizza l'irreversibile trasformazione del bene occupato (Cass. civ., sez. un., 6 maggio 2003, n. 6853; C.d.S., sez. IV, 17 settembre 2004, n. 6184);

d) nel caso di occupazione usurpativa, il momento di acquisto della proprietà deve essere invece individuato in un momento successivo che "dipende da una scelta del proprietario usurpato che, rinunciando implicitamente al diritto dominicale, opta per una tutela (integralmente) risarcitoria in luogo della (pur possibile) tutela restitutoria" (Cass. civ., sez. I, 28 marzo 2001, n. 4451).

12.3. I meccanismi ora descritti per porre riparo alle conseguenze dell'illecito commesso dall'amministrazione, sono stati, però, censurati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo che, con sentenza 30 maggio 2002 (in causa Carbonara-Ventura contro Italia), ha affermato che l'evoluzione giurisprudenziale "potrebbe condurre ad un risultato imprevedibile e arbitrario e privare gli interessati di una protezione efficace dei loro diritti e, di conseguenza, sarebbe incompatibile con il principio di legalità".

Richiamati i principi della sentenza della Cassazione n. 1464/1983, la Corte europea afferma che tale giurisprudenza "emette delle riserve sulla compatibilità con il principio della legalità di un meccanismo che, in maniera generale, permette all'amministrazione di poter beneficiare di una situazione illegale e per effetto della quale il privato si trova davanti al fatto compiuto. La Corte rileva infine che il risarcimento per la privazione della proprietà non è automaticamente versato dall'amministrazione, ma deve essere reclamato dall'interessato e questo entro un termine di cinque anni, cosa che potrebbe rilevarsi una protezione non adeguata".

In un primo momento, nell'ordinamento interno vi sono state tesi contrastanti, poiché

- per un verso, si è ritenuto che tale decisione non avesse immediata efficacia nei rapporti intersoggettivi, esaurendo essa i suoi effetti solo a livello sovranazionale (C.d.S., sez. I, 9 aprile 2003, n. 1926/2003; Cass. civ., sez. I, 17 novembre 2004, n. 21750);

- per altro verso, si è affermato che la Convenzione Europea dei diritti dell'uomo, in quanto recepita nell'ordinamento nazionale con la l. n. 848/1955, ha valore di fonte normativa primaria, e, dunque, le decisioni degli organi giurisdizionali che di essa fanno applicazione non possono non imporsi anche nei rapporti intersoggettivi (Cass. sez. un., 6 maggio 2003, n. 6853).

A fronte di ciò, la Corte Europea dei diritti dell'uomo ha confermato il proprio orientamento, censurando le forme di cd. "espropriazione indiretta" elaborate nell'ordinamento italiano, ed in particolare in sede giurisprudenziale (come nell'ipotesi di cd. occupazione acquisitiva), affermando - in controversie instaurate contro lo Stato Italiano - che:

- l'acquisizione del diritto di proprietà non può mai conseguire a un illecito (sentenze 15-29 luglio 2004, Scordino; 19 maggio 2005, Acciardi; 21 dicembre 2006, De Angelis; 4 dicembre 2007, Pasculli; 15 luglio 2008, Carletta);

- "l'esistenza in quanto tale di una base legale non basta a soddisfare il principio di legalità", non potendo l'espropriazione indiretta comunque costituire un'alternativa ad una espropriazione "in buona e dovuta forma" (sentenze 12 gennaio 2006, Sciarrotta; 13 gennaio 2006, Serrao, 20 aprile 2006, Sciselo; 23 maggio 2006, Cerro s.a.s.; 14 gennaio 2014, Pascucci; 3 giugno 2014, Rossi e Variale).

12.4. Per tutte queste ragioni, si è giunti alla elaborazione dei principi riportati retro nel § 12.1, superando anche la posizione (medio tempore espressa e fatta propria anche dal TAR con la sentenza impugnata) della persistenza del diritto di proprietà in capo all'originario proprietario, non scalfita nemmeno dalla proposizione della domanda di risarcimento del danno, quest'ultima da rigettarsi proprio perché presupponente una perdita del diritto di proprietà, invece non intervenuta (C.d.S., sez. IV, 29 agosto 2011, n. 4833; 2 settembre 2011, n. 4970; 3 ottobre 2012, n. 5189).

Con riferimento alla specifica ipotesi in cui il proprietario formuli non già domanda di restituzione ovvero di riduzione in pristino del proprio bene illecitamente occupato dall'amministrazione, bensì di risarcimento del danno patito (con effetti abdicativi del diritto di proprietà), muovendo da tali principi, occorre ancora affermare che:

a) stante la natura abdicativa e non traslativa dell'atto di rinuncia, il provvedimento con il quale l'amministrazione procede alla effettiva liquidazione del danno - rappresentando il mancato inveramento della condizione risolutiva implicitamente apposta dal proprietario al proprio atto abdicativo che di esso rappresenta il presupposto - costituisce atto da trascriversi ai sensi degli artt. 2643, primo comma, n. 5 e 2645 c.c., anche al fine di conseguire gli effetti della acquisizione del diritto di proprietà in capo all'amministrazione, a far data dal negozio unilaterale di rinuncia;

b) in ordine alla determinazione del quantum del risarcimento, questo deve essere commisurato al valore venale del bene al momento in cui si perfeziona la rinuncia abdicativa del proprietario al proprio diritto reale, e, trattandosi di debito di valore, con rivalutazione ed interessi al tasso legale, da calcolarsi fino al momento dell'effettivo soddisfo, tenendo presente che in materia di occupazione acquisitiva di un terreno, il risarcimento del danno è calcolato esclusivamente sul suo valore al momento in cui si è verificata la perdita del diritto di proprietà e l'ammontare del danno deve poi essere rivalutato e devono essere corrisposti gli interessi legali semplici applicati al capitale progressivamente rivalutato, non potendo essere riconosciute ulteriori ragioni di danno (cfr. Corte europea diritti dell'uomo, 22 dicembre 2009, Guiso-Gallisay c. Italia; successivamente Cass. civ., sez. I, 9 luglio 2014, n. 14604);

c) quanto alla determinazione del risarcimento del danno per mancato godimento del bene a cagione dell'occupazione illegittima (per il periodo antecedente al momento abdicativo del diritto di proprietà), questo può essere calcolato - ai sensi dell'art. 34, comma 4, c.p.a., in assenza di opposizione delle parti e in difetto della prova rigorosa di diversi ulteriori profili di danno - facendo applicazione, in via equitativa, dei criteri risarcitori dettati dall'art. 42-bis t.u. espr. (cfr. da ultimo sul punto C.d.S., sez. IV, 23 settembre 2016, n. 3929; 28 gennaio 2016, n. 329; 2 novembre 2011, n. 5844), e dunque in una somma pari al 5% annuo del valore del terreno;

d) non spetta, invece, in difetto di prova specifica (tanto più necessaria in quanto ad agire in giudizio è un ente commerciale che non lamenta la lesione di valori fondamentali della propria personalità, il che rende insuperabile l'ostacolo frapposto dall'art. 2059 c.c., cfr. sul punto Cass., sez. lav., 1° ottobre 2013, n. 22396), alcuna liquidazione in misura forfettaria del danno non patrimoniale (per giunta nel caso di specie non richiesto dalla società SEP), sia in quanto ciò è previsto, dall'art. 42-bis, comma 1 e 5, t.u. espr. solo per il caso di correlativa acquisizione del bene con decreto della pubblica amministrazione (e non già in presenza di un negozio abdicativo del privato), sia in quanto - con riferimento non già alla perdita del diritto di proprietà ma solo con riferimento alla compressione delle facoltà di godimento - la misura del risarcimento disposta in via equitativa è da ritenersi omnicomprensiva di ogni ulteriore posta, ivi compresi gli accessori (interessi legali e rivalutazione monetaria);

e) quanto alla prescrizione del diritto al risarcimento del danno da mancato godimento, occorre precisare che esso cessa, come è evidente, nel momento stesso in cui si verifichi la perdita del diritto di proprietà e dunque, nel caso di specie, nel momento in cui risulta perfezionata la rinuncia a tale diritto, implicita nella proposizione della domanda di risarcimento del danno in sede giudiziaria; pertanto,la prescrizione quinquennale ex art. 2947, comma 1, c.c. (trattandosi di illecito extracontrattuale), avuto riguardo alla domanda riferita al mancato godimento del bene (e cioè alla mancata percezione di un reddito annuo derivante dall'utilizzazione giuridicamente legittima del terreno occupato), decorre dalle singole annualità e fino al momento di perdita del diritto di proprietà.

13. Facendo applicazione dei su illustrati principi al caso di specie, l'appello della società SEP deve essere parzialmente accolto nei termini di seguito meglio precisati.

13.1. La tesi della società SEP è condivisibile laddove afferma l'erroneità della sentenza impugnata, che "ha negato che il proprietario, in assenza da parte della P.A. di un atto acquisitivo del bene illecitamente occupato, possa rinunciare alla domanda di restituzione e agire per il risarcimento del danno pari al valore pieno del bene medesimo", essendo la restituzione del bene "un'ipotesi meramente teorica e inattuabile nella pratica" (pagina 31 dell'appello).

Al contrario, non può essere accolto l'appello allorché la parte ritiene che, ai fini della determinazione del danno, "dovrà farsi riferimento al valore del bene al momento in cui è stata posta in essere la condotta illegittima", individuando tale momento "a seguito dell'annullamento giurisdizionale dell'intera procedura ablatoria... (nel) primo atto di questa costituito dalla delibera del Consiglio comunale n. 4392 del 27 ottobre 1982... senza che abbiano rilevanza le successive destinazioni urbanistiche attribuite all'area e i vincoli sopravvenuti di natura paesaggistico - ambientale" (pagina 40 dell'appello).

Per le stesse ragioni per le quali - superando la giurisprudenza in tema di espropriazione indiretta - si ammette (in riforma della sentenza impugnata) la proposizione della domanda di risarcimento del danno (che costituisce altresì atto unilaterale abdicativo del diritto di proprietà), occorre anche affermare che il danno da perdita di proprietà non può che essere determinato se non con riferimento a tale momento.

E ciò comporta anche che, ai fini di tale determinazione, rilevano tutte le destinazioni urbanistiche ed i vincoli (segnatamente, di tipo paesaggistico-ambientale) imposti al bene prima del momento di rinuncia al diritto di proprietà, momento in cui cessa il danno da mancato godimento del bene (per compressione delle facoltà di godimento connesse al diritto reale) e si configura un danno da illecito extracontrattuale conseguente alla perdita dello stesso diritto di proprietà.

13.2. Quanto alla determinazione del danno per mancato godimento del bene per effetto della illecita occupazione, non può trovare accoglimento il motivo di appello della SEP che censura la sentenza impugnata nella parte in cui "ha riconosciuto il danno temporaneo per il mancato godimento del bene occupato limitatamente al periodo con inizio dal quinquennio anteriore alla proposizione della domanda (notificata il 25 settembre 2009) e con termine alla data di pubblicazione della sentenza (6 novembre 2012)". Ciò in quanto, trattandosi di illecito permanente, "è inapplicabile la prescrizione quinquennale ex art. 2947 c.c.".

Orbene, è del tutto evidente che l'occupazione sine titulo costituisce illecito permanente, che può essere - come si è già ampiamente affermato - causativo di due distinti profili di danno:

- il danno da perdita di godimento del bene, stante la compressione delle facoltà dominicali;

- il danno da perdita della proprietà (laddove intervenga uno degli eventi, fra quelli ricordati retro al § 12.1., che ciò determinano), che è danno insorgente in momento successivo al precedente e che di quest'ultimo determina la cessazione.

Tale precisazione comporta, a rettifica del percorso argomentativo sviluppato dal TAR, innanzi tutto che - una volta riconosciuto nella domanda di risarcimento per equivalente monetario l'atto unilaterale abdicativo del diritto di proprietà - a tale data non sarà più configurabile il diverso danno da mancato godimento del bene. In sostanza, la proposizione della domanda di risarcimento con atto notificato in data 25 settembre 2009 costituisce il termine ultimo per il possibile riconoscimento del risarcimento per il danno da mancato godimento (e ciò proprio perché, nel caso di specie, si è accolto l'appello riferito al mancato riconoscimento del danno da perdita della proprietà).

Il fatto illecito rappresentato dall'occupazione sine titulo (tale per annullamento degli atti della procedura espropriativa: sentenze del TAR n. 1860/1993 e del Consiglio di Stato n. 336/1997), determina il momento di proponibilità della domanda di risarcimento del danno per mancato godimento, consistente nella impossibilità di realizzare un reddito annuo derivante dall'utilizzazione giuridicamente legittima del terreno occupato. Tale diritto si prescrive nell'ordinario termine quinquennale decorrente a ritroso, come già puntualizzato, per le singole annualità antecedenti l'atto interruttivo della prescrizione.

Nel caso di specie l'atto interruttivo si identifica con la proposizione del ricorso di primo grado da parte della SEP (notificato il 25 settembre 2009).

Conseguentemente risulta prescritto il diritto al risarcimento del danno relativo alle annualità antecedenti al settembre 2004.

13.3. In relazione al criterio di determinazione del quantum del risarcimento del danno da mancato godimento del bene, deve trovare parziale accoglimento il relativo motivo di appello incidentale di Roma Capitale.

Con tale motivo, l'appellante incidentale:

- per un verso, contesta l'applicazione, propria della sentenza impugnata, di una liquidazione effettuata con riferimento ai criteri di cui al più volte menzionato art. 42-bis; secondo l'appellante incidentale, "ai fini della quantificazione del ristoro patrimoniale era necessario prendere in esame la situazione di fatto e di diritto del bene e non definire criteri astratti e forfettari";

- per altro verso, afferma che, ai fini della quantificazione, occorre tenere presente che "l'immobile occupato dal Comune poteva al massimo essere utilizzato come area agricola con una serie di limitazioni e vincoli posti alle stesse possibilità di coltivazione del fondo" (limitazioni rappresentate, in particolare, dal rispetto dei "valori ambientali e paesaggistici").

Orbene, si è già innanzi precisato (retro § 12.4) che, quanto alla determinazione del risarcimento del danno per occupazione illegittima (per il periodo antecedente al momento abdicativo del diritto di proprietà), questo può essere calcolato - ai sensi dell'art. 34, comma 4, c.p.a. e in difetto della prova rigorosa di diversi ulteriori profili di danno ma facendo applicazione del potere di equità integrativa sancito dall'art. 1226 c.c. - tenendo conto dei criteri risarcitori dettati dall'art. 42-bis, comma 3, nonché dell'andamento del tasso degli interessi legali e della svalutazione monetaria nel periodo di riferimento, e dunque in una somma pari al 5% annuo del valore del terreno (moltiplicata per cinque anni), omnicomprensiva di ogni ulteriore posta o voce di danno, anche accessorio (ad esempio interessi compensativi e rivalutazione monetaria).

Tuttavia, si è anche precisato (§ 13.1) che, ai fini della determinazione del valore del bene, rilevano tutte le destinazioni urbanistiche ed i vincoli (segnatamente, di tipo paesaggistico - ambientale) imposti al bene medesimo prima del momento determinativo della rinuncia al diritto di proprietà, momento in cui cessa il danno da mancato godimento del bene (per compressione delle facoltà di godimento connesse al diritto reale) e si configura un danno da illecito extracontrattuale conseguente alla perdita dello stesso diritto di proprietà.

Pertanto, in questi limiti, l'appello incidentale di Roma Capitale deve essere accolto, dovendosi definire il quantum dovuto per il risarcimento del danno da mancato godimento del bene (5% annuo del valore del terreno), con riferimento ad una determinazione di tale valore, che tenga conto delle prescrizioni innanzi riportate.

A tanto consegue la irrilevanza della questione di legittimità costituzionale del più volte menzionato art. 42-bis, sollevata dalla difesa di Roma Capitale (a pagina 34 e ss. dell'appello incidentale), nel presupposto, dimostratosi insussistente, dell'applicazione diretta delle norme ivi sancite.

13.4. Quanto sin qui affermato, con riferimento alla esatta determinazione del risarcimento del danno da mancato godimento, sorregge anche il rigetto dell'ulteriore profilo del motivo di appello, con il quale la società SEP lamenta "il non riconoscimento dei danni successivi alla pubblicazione della sentenza" (pagine 50 e ss. dell'atto di appello).

14. In definitiva, in parziale accoglimento dell'appello principale proposto dalla società SEP e dell'appello incidentale proposto da Roma Capitale, ed in riforma della sentenza impugnata, Roma Capitale, ai sensi e per gli effetti dell'art. 34, comma 4, c.p.a., dovrà proporre alla società SEP, con riferimento ai beni illecitamente occupati ed entro il termine di centottanta giorni dalla data di comunicazione della presente sentenza, o da quella di notificazione se anteriore, il pagamento di una somma a titolo di risarcimento del danno da perdita del diritto di proprietà, nonché di una somma per risarcimento del danno da mancato godimento dei beni occupati, ambedue definite secondo i criteri innanzi indicati e nei limiti temporali innanzi precisati.

La somma complessivamente offerta dovrà, inoltre, essere decurtata di quanto già corrisposto alla SEP a titolo di indennità di espropriazione, e precisamente pari a lire 17.757.662.135, importo che dovrà essere ragguagliato in euro e maggiorato degli interessi legali calcolati dalla data del pagamento e fino alla stima effettuata da Roma Capitale.

15. Stante la complessità e la novità delle questioni trattate (e la reciproca soccombenza di SEP e Roma Capitale), devono essere compensate le spese e gli onorari concernenti entrambi i gradi di giudizio in relazione al rapporto processuale corrente tra Roma Capitale e la SEP e tra quest'ultima e il signor Aldo Q.

Deve, invece, disporsi la condanna del Q. al pagamento delle spese e degli onorari di ambedue i gradi di giudizio in favore di Roma Capitale.

16. Il Collegio rileva che la reiezione dell'appello proposto dal signor Q. si fonda, come dianzi illustrato, su ragioni manifeste che denotano la temerarietà dell'azione proposta e integrano i presupposti applicativi delle norme sancite dall'art. 26, comma 2, c.p.a., secondo l'interpretazione che ne è stata data dalla giurisprudenza di questo Consiglio (cfr., da ultimo e fra le tante, sez. IV, n. 4165 del 2016; sez. V, n. 930 del 2015, cui si rinvia a mente degli artt. 74 e 88, comma 2, lett. d), c.p.a. anche in ordine alle modalità applicative ed alla determinazione della pena pecuniaria ex art. 26, comma 2, c.p.a.).

17. La condanna del signor Q. ai sensi dell'art. 26 c.p.a., rileva, infine, anche agli effetti di cui all'art. 2, comma 2-quinquies, lett. a) e d), della l. 24 marzo 2001, n. 89 come da ultimo modificato dalla l. 28 dicembre 2015, n. 208 (cfr. ex plurimis C.d.S., sez. IV, n. 4165 del 2016).

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sugli appelli proposti dal signor Aldo Q. (n. 750/2013 r.g.) e da SEP - Società edilizia Pineto s.p.a. (n. 1179/2013 r.g.):

a) riunisce gli appelli;

b) dichiara inammissibile l'appello n. 750/2013 r.g.;

c) accoglie l'appello incidentale di Roma Capitale, nei sensi di cui in motivazione, e, per l'effetto, dichiara inammissibili le domande di risarcimento del danno proposte dal signor Aldo Q. nei giudizi di primo grado n. 7795/2009 r.g. e n. 5157/2011 r.g.;

d) in parziale accoglimento dell'appello della società SEP e dell'appello incidentale di Roma Capitale, ed in parziale riforma della sentenza impugnata, dichiara il diritto della società SEP al risarcimento del danno da perdita della proprietà e da mancato godimento della medesima, nei sensi e limiti indicati in motivazione;

e) ordina a Roma Capitale, ai sensi dell'art. 34, comma 4, c.p.a., di proporre alla società SEP, entro il termine di centoottanta giorni decorrente dalla data di comunicazione della presente sentenza, o da quella di notificazione se anteriore, l'eventuale pagamento di una somma di denaro, a titolo di risarcimento dei danni, calcolata secondo i criteri e nei limiti temporali indicati in motivazione;

f) dichiara integralmente compensate tra Roma Capitale e la società SEP e tra quest'ultima e il signor Aldo Q., le spese e gli onorari concernenti entrambi i gradi di giudizio;

g) dispone che il contributo unificato anticipato dalla società SEP, in relazione ad entrambi i gradi di giudizio, e quello anticipato da Roma Capitale in riferimento all'appello incidentale proposto nel ricorso n. 1179/2013 r.g., rimangano definitivamente a carico di ciascuna delle parti;

h) condanna il signor Aldo Q. al pagamento, in favore di Roma Capitale, delle spese ed onorari di entrambi i gradi di giudizio, che liquida in complessivi Euro 8.000,00 (ottomila/00), oltre accessori come per legge (spese generali al 15%, IVA e CPA);

i) condanna il signor Aldo Q. al pagamento della somma di Euro 2.000,00 (duemila/00), ai sensi dell'art. 26, comma 2, c.p.a., da versarsi secondo le modalità di cui all'art. 15 delle norme di attuazione del c.p.a., mandando alla Segreteria per i successivi adempimenti;

j) dispone che il contributo unificato anticipato dal signor Aldo Q., in relazione ai ricorsi di primo e secondo grado, rimanga definitivamente a suo carico;

k) condanna il signor Aldo Q. a rifondere il contributo unificato anticipato da Roma Capitale per la proposizione dell'appello incidentale nel ricorso n. 750/2013 r.g.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.