Corte di cassazione
Sezione VI penale
Sentenza 22 settembre 2016, n. 49538

Presidente: Paoloni - Estensore: Corbo

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza emessa il 21 ottobre 2015, la Corte di appello di Roma, in riforma della decisione di condanna pronunciata dal Tribunale di Roma, ha assolto perché il fatto non costituisce reato Gioacchino Genchi e Luigi De Magistris dai reati di abuso di ufficio agli stessi ascritti (Capi A, B, C, D, E, F, G, e H della rubrica), con conseguente caducazione delle statuizioni in favore delle costituite parti civili.

L'accusa mossa ai due imputati è di avere, il De Magistris quale sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Catanzaro, ed il Genchi quale consulente tecnico del magistrato, agendo in concorso tra loro e nell'ambito di un procedimento in fase di indagini preliminari, acquisito, elaborato e trattato illecitamente i tabulati telefonici relativi ad utenze riconducibili ai parlamentari o ex-parlamentari Giuseppe Pisanu (capo A), Sandro Gozi (capo B), Romano Prodi (capo C), Clemente Mastella (capo D), Antonio Gentile (capo E), Domenico Minniti (capo F), Francesco Rutelli (capo G) e Giancarlo Pittelli (capo H), in violazione della disposizione di cui all'art. 4 della l. 20 giugno 2003, n. 140, che prescrive la preventiva richiesta di autorizzazione a tal fine alla Camera di appartenenza, intenzionalmente arrecando ai medesimi un ingiusto danno consistente nella conoscibilità di dati esterni di traffico relativi alle loro comunicazioni in violazione delle garanzie riservate ai membri del Parlamento. I fatti risultano contestati come accertati il 21 gennaio 2009; la Corte distrettuale, tuttavia, ha precisato che gli stessi non possono ritenersi commessi in epoca successiva all'ottobre 2007, poiché in quel mese è stata avocata l'indagine dalla Procura generale della Repubblica presso la Corte d'appello di Catanzaro e revocato l'incarico di consulenza al Genchi.

2. Hanno presentato ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello indicata in epigrafe l'avvocato Marco Franco, quale difensore di fiducia della parte civile Gozi, l'avvocato Titta Madia, quale difensore di fiducia della parte civile Mastella, l'avvocato Maria Cristina Calamani, quale difensore di fiducia della parte civile Rutelli, e l'avvocato Fabio Repici, quale difensore di fiducia dell'imputato Genchi.

In prossimità dell'udienza, ha presentato motivi aggiunti l'avvocato Fabio Repici, sempre quale difensore di fiducia dell'imputato Genchi.

3. Il ricorso presentato dall'avvocato Franco, nell'interesse della parte civile Gozi, è articolato in due motivi.

3.1. Nel primo motivo, si lamenta violazione di legge, con riguardo all'art. 129, comma 2, c.p.p., a norma dell'art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p., per avere la Corte d'appello emesso sentenza di assoluzione nel merito, in riferimento al capo B, cui era interessato il Gozi, nonostante il reato fosse ormai prescritto.

Si deduce che difetta, nella specie, l'evidenza della prova del difetto di dolo, ossia della prova della circostanza posta a fondamento della pronuncia assolutoria.

Si premette che, in presenza di una causa estintiva del reato, come la prescrizione, la sentenza di assoluzione, a norma dell'art. 129 c.p.p., può essere pronunciata solo se dagli atti risulta evidente che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o che non è previsto dalla legge come reato. Si aggiunge, poi, che la nozione di evidenza della prova implica una totale mancanza di prove a carico o la sussistenza di prove a discarico, sì che sia possibile la pronuncia assolutoria senza approfondita analisi delle risultanze istruttorie. Si rileva, quindi, che la Corte d'appello si è limitata ad offrire una differente interpretazione del materiale istruttorio senza indicare le ragioni da cui emerge l'evidenza della prova del difetto dell'elemento soggettivo; la stessa, anzi, ha affermato che «la rassegna degli elementi indiziari non appare sufficiente a comprovare il dolo intenzionale del danno ingiusto [...]», che «non si può sostenere che sia pienamente provato che i due imputati avessero contezza che i numeri rinvenuti nelle agende e rubriche del Saladino fossero tutti da ricondurre a soggetti protetti dal Parlamento», e che «il dubbio non è risolvibile».

Si rappresenta, inoltre, ed analiticamente, che, contro questa conclusione, militano molteplici elementi.

Invero, come risulta dalla sentenza di primo grado, il Genchi, in occasione del conferimento dell'incarico di consulenza, datato 21 marzo 2007, aveva preso in consegna l'agenda cartacea ed i telefonini Nokia modello 9300 e modello E61, sequestrati ad Antonio Saladino, tutti documenti che riportavano le utenze dei parlamentari, ed aveva segnalato al dott. De Magistris i tabulati da acquisire: in particolare, sulla base delle indicazioni del Genchi, formulate in apposite «Relazioni», il De Magistris, senza chiedere alcuna autorizzazione alla Camera o al Senato, aveva disposto l'acquisizione, in data 31 marzo 2007, tra gli altri, di tabulati relativi ad utenze riferibili al senatore Pisanu, e, in data 20 aprile 2007, tra gli altri, di tabulati relativi ad utenze riferibili ai parlamentari Sandro Gozi, Romano Prodi, Clemente Mastella, Antonio Gentile, Domenico Minniti e Francesco Rutelli. Inoltre, già alla data del 20 aprile 2007, il Genchi, nella sua Relazione n. 2, abbinava il numero di una delle utenze riferibili al Gozi con la dicitura «$Belgio(Gozi Sandro)», il numero di una seconda utenza riferibile al Gozi con la dicitura «in corso di acquisizione (Gozi Sandro)», ed il numero di una terza utenza, sempre riferibile al Gozi, con la dicitura «GOZI SANDRO (Gozi Sandro)». Ancora, sia la seconda sia la terza delle utenze appena indicate erano registrate nella rubrica del Nokia 9300 sequestrate al Saladino con l'indicazione «Sandro Gozi - Pres. Comitato Bicamerale sull'immigrazione dell'area Schengen», ed, anzi, la terza era registrata con pressoché identica dicitura («GOZI Sandro - Pres. Comit. Bicamerale sull'immigrazione dell'area Schengen») nel database rubrica della memory card del medesimo cellulare in sequestro.

Si aggiunge, poi, sempre richiamandosi le motivazioni della sentenza di primo grado, che, in data 22 maggio 2007, il Genchi aveva ricevuto una e-mail dal De Magistris nella quale si segnalava «ATTENZIONE GOZI È DEPUTATO IN CARICA», e che, ciononostante, in data 25 giugno 2007, nella Relazione n. 6 del Genchi si procedeva all'esame dei contatti tra la prima delle tre utenze riferibili all'onorevole Gozi (quella richiesta con la dicitura «$Belgio(Gozi Sandro)») ed una utenza riferita all'onorevole Prodi; inoltre, nel frattempo, in data 15 giugno 2007, erano state consegnate le anagrafiche delle utenze mobili i cui tabulati erano stati richiesti, e dalle quali era possibile apprendere che la terza delle utenze precedentemente indicate era riferibile a «Gozi On. Sandro» e a «CAMERA DEI DEPUTATI PIAZZA MONTECITORIO SNC» dal 19 marzo 2007. In linea generale, poi, ed ulteriormente, ancora atteso quanto rilevato dal Tribunale, non va trascurato che, a fronte di oltre 2000 utenze desumibili dai dispositivi sequestrati al Saladino, il Genchi ha sollecitato l'acquisizione dei tabulati relativi solo a 167 utenze ed a 14 apparati IMEI.

Alla luce di questi elementi, si conclude che correttamente la sentenza di primo grado aveva ritenuto che «il fine principale perseguito NON fosse la ricerca della prova, bensì l'uso strumentale delle tecniche d'indagine telefonica in danno dei parlamentari ed a fini privati, d'inserimento nel cd. "Archivio Genchi", e d'ulteriore trattamento non autorizzato», che l'attività investigativa fosse stata compiuta «nella consapevolezza ex ante di non poterne validare gli effetti dell'inutilizzabilità patologica che ne sarebbe derivata», e che, quindi, sussistesse il dolo intenzionale richiesto dalla fattispecie di cui all'art. 323 c.p.

3.2. Nel secondo motivo, si lamenta vizio di motivazione, a norma dell'art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., con riferimento all'affermata insussistenza della fattispecie di abuso di ufficio e, in particolare, del dolo intenzionale.

Si deduce che la sentenza impugnata, dopo aver ammesso la configurabilità (anche) del reato di abuso di ufficio in relazione alla condotta consistente nel costituire una banca dati privata avvalendosi dei dati acquisiti quale consulente di Autorità Giudiziarie, ha ritenuto insufficiente la prova del dolo intenzionale senza confrontarsi con le puntuali indicazioni sul punto contenute nella sentenza di primo grado. Quest'ultima, infatti, aveva valorizzato la circostanza costituita dalla prosecuzione della trattazione dei dati relativi alle utenze dell'onorevole Gozi, nonostante l'avvertimento fatto al Genchi dal De Magistris con la e-mail del 22 aprile 2007, in particolare mediante l'immissione, operata in data 16 giugno 2007, nel sistema Teseo, formato dal consulente, dei dati concernenti l'apparato identificato con la dicitura «$Belgio(Gozi Sandro)», ed il successivo esame dei contatti tra questa utenza ed altra riferita all'onorevole Prodi, esposto nella Relazione n. 6 del 25 giugno 2007. In particolare, la sentenza di appello ha omesso completamente di valutare la prova costituita dalla citata e-mail del 22 aprile 2007.

4. Il ricorso presentato dall'avvocato Madia, nell'interesse della parte civile Mastella, è articolato anch'esso in due motivi, preceduti da una premessa, nella quale si sottolinea come, secondo giurisprudenza consolidata, il giudice di appello è gravato da un obbligo di motivazione rafforzata quando riforma una sentenza di primo grado, anche se mutando l'esito da condanna in assoluzione (si cita Sez. 2, n. 32619 del 24 aprile 2014).

4.1. Nel primo motivo, si lamenta violazione di legge, con riguardo agli artt. 323 c.p. e 4 l. n. 140 del 2003, nonché vizio di motivazione, a norma dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), c.p.p., per avere la Corte d'appello escluso la sussistenza del dolo richiesta dalla fattispecie di abuso di ufficio, e, in particolare, la consapevolezza degli imputati circa la riconducibilità di una delle utenze, i cui dati sono stati trattati, all'onorevole Mastella.

Si deduce che numerosi sono gli elementi esposti nella sentenza di primo grado dai quali desumere la consapevolezza degli imputati in ordine alla riferibilità di una specifica utenza all'onorevole Mastella. In particolare, nella pronuncia del Tribunale si evidenzia che: a) il numero dell'utenza in questione, nelle memorie dei due telefoni cellulari sequestrati ad Antonio Saladino, era associato alla persona di Clemente Mastella; b) dai tabulati relativi alle utenze del Saladino emergeva che lo stesso aveva inviato 2 SMS all'utenza di Clemente Mastella; c) già in data 12 febbraio 2007, erano pervenute al dott. De Magistris trascrizioni di conversazioni intercorse tra il Saladino ed il Mastella nel marzo 2006, nelle quali il secondo, denominato «Clemente», risultava contattato su quella stessa utenza, intestata alla Camera dei Deputati, i cui tabulati erano stati oggetto di provvedimento di acquisizione emesso dal De Magistris su indicazione del Genchi; d) in data 20 aprile 2007, quindi prima dell'inoltro del decreto di acquisizione dei tabulati, il Genchi, come da lui ammesso, aveva ricevuto nel suo studio direttamente dal De Magistris le trascrizioni cartacee delle intercettazioni, ed aveva inserito i riferimenti di queste nel sistema TESEO; e) il Genchi, prima di redigere la Relazione n. 2 (datata 20 aprile 2007), aveva proceduto all'ascolto delle predette conversazioni intercorse tra il Saladino ed il Mastella, nelle quali vi erano espliciti riferimenti alla carica di Ministro ricoperta dal secondo; f) dalle anagrafiche delle utenze, già acquisite al momento della Relazione n. 2, e, quindi, prima dell'invio del decreto di acquisizione dei tabulati, risultava che l'utenza in questione era intestata «Camera dei Deputati», poi «Ministro della Giustizia», poi ancora «Camera dei Deputati», quindi infine «Partito Popolari Udeur».

Si contesta che la sentenza di appello ha escluso rilevanza a questi elementi limitandosi ad osservare laconicamente che alcune schede anagrafiche relative agli intestatari delle utenze non erano ancora pervenute alla data del 20 aprile 2007 e che le intestazioni «Camera dei Deputati» e «Dipartimento amministrazione della giustizia» non offrivano una univoca indicazione circa gli utilizzatori degli apparati telefonici. Tuttavia, la prima osservazione è generica, perché non precisa quali siano le anagrafiche non pervenute alla data del 20 aprile 2007, mentre la seconda è compiuta in assenza di qualunque confronto con gli altri elementi indicati nella decisione di prima cura.

Si aggiunge, poi, che i giudici di secondo grado non si sono confrontati nemmeno con gli ulteriori elementi elencati nella memoria depositata dalla parte civile Clemente Mastella durante il giudizio di appello.

In particolare, nell'atto di parte, si rappresentava, richiamandosi la richiesta ed il decreto di archiviazione nei confronti di Clemente Mastella nel procedimento cd. "Why not", che l'utenza in uso all'onorevole Mastella era indicata, nella Relazione n. 2 del Genchi del 20 aprile 2007, precedente al decreto di acquisizione dei tabulati, come riferita ad «intestatario in corso di acquisizione», nonostante sulla stessa fossero intercorse due conversazioni intercettate tra il Saladino ed il Mastella, il cui contenuto era a quella data già noto ai due imputati: invero, da un lato, in entrambe dette conversazioni, intercorse il 9 ed il 16 marzo 2006, uno dei due interlocutori era chiamato «Clemente» ed anzi nella prima di esse si era parlato della situazione politica nazionale e regionale; dall'altro, le trascrizioni di tali colloqui erano state completate entro il 12 febbraio 2007, immediatamente consegnate al De Magistris, e trasmesse, unitamente a tutta la documentazione di indagine, al Genchi in data 21 marzo 2007, all'atto del conferimento dell'incarico. Nel medesimo atto, inoltre, si segnalava, sempre richiamandosi la richiesta ed il decreto di archiviazione nei confronti di Clemente Mastella nel procedimento "Why not", che, nelle date del 3 aprile 2007 e del 19 aprile 2007, erano pervenute al Genchi le anagrafiche da cui risultava che l'utenza in questione (ossia quella in uso al Mastella) era intestata alla Camera dei Deputati, che, nelle rubriche dei due cellulari sequestrati al Saladino, e consegnati al Genchi il 21 marzo 2007, detta utenza era abbinata alle diciture «MASTELLA C», «Clemente Mastella» e «Mastella», e che i dati estratti dai cellulari sequestrati al Saladino erano stati inseriti, nel corso delle operazioni di consulenza, in un CD di "salvataggio" sotto i files denominati «saladino» e «Nokia E61 saladino», entrambi creati il 23 marzo 2007, l'uno alle ore 12,01, l'altro alle ore 15,23. Ancora, nella memoria, si riportavano tra l'altro: a) le risultanze delle indagini del consulente tecnico del P.M. dott. Bernaschi, dalle quali, in particolare, si evince che l'esame e l'estrapolazione dei dati dai cellulari del Saladino è stata realizzata dal Genchi nelle date del 23 e del 24 marzo 2007 ed esposta in una Relazione priva di data, e che il medesimo Genchi aveva restituito al De Magistris i due cellulari sequestrati in data 27 marzo 2007; b) le risultanze della Relazione n. 1 alla Procura della Repubblica di Salerno redatta dal Genchi in data 4 febbraio 2008, nella quale, tra l'altro, si afferma che i reperti relativi alle conversazioni intercettate intercorse tra il Mastella ed il Saladino di cui si è fatto cenno sono stati a lui consegnati nel suo studio direttamente dal dott. De Magistris nel pomeriggio 20 aprile 2007, che le relative risultanze sono state immesse nel sistema TESEO immediatamente prima di avviare la procedura di acquisizione dei tabulati relativi all'utenza in uso al Mastella, e che, in generale, le acquisizioni sono state disposte sulla base dell'esame delle numerazioni in[s]erite nelle memorie e nelle rubriche dei cellulari sequestrati al Saladino; c) le dichiarazioni del teste Angelosanto, colonnello dei Carabinieri, da cui si evince che, quando nella Relazione del 20 aprile 2007, si indica una certa utenza (risultata in uso all'onorevole Prodi), si impiega la dicitura «utenza rilevata nei dati di traffico dei seguenti codici o utenze, codici Imei o utenze», che tale dicitura è associata all'indicazione dei codici Imei dei due apparecchi cellulari sequestrati al Saladino, che analoga conclusione poteva essere tratta con riferimento ad un'utenza risultata nella disponibilità dell'onorevole Francesco Rutelli, e che, in generale, il sistema TESEO non era completamente automatico, esigendo l'intervento umano dell'operatore nella fase di immissione dei dati e di coordinamento degli stessi (sicché anche alla luce di tale deposizione trova conferma l'assunto secondo cui il Genchi, già all'epoca di redigere la precisata Relazione, aveva esaminato i dati e le relative indicazioni desumibili dai dispositivi sequestrati al Saladino); d) le dichiarazioni del teste Santoro, luogotenente dei Carabinieri, dalle quali emerge che il Genchi, pur avendo indicato nella Relazione del 25 luglio 2007 la riferibilità dell'utenza al Mastella, aveva utilizzato i dati risultanti dai relativi tabulati per individuare altre utenze in relazione alle quali acquisire ulteriori dati; e) le risultanze della Relazione n. 2 del 20 aprile 2007, a firma del Genchi, laddove esplicitamente si rappresenta che l'utenza relativa ad «intestatario in corso di acquisizione», ma in realtà riferibile al Mastella, era stata estratta dai cellulari sequestrati al Saladino, dove il numero era associato al nome di Clemente Mastella; f) le dichiarazioni spontanee del Genchi in data 28 novembre 2012, dalle quali risulta che il medesimo ha ammesso di aver avuto contezza da subito degli abbinamenti presenti nelle rubriche telefoniche del Saladino tra numeri e nominativi, pur precisando di non poter fare affidamento sulle stesse; g) le dichiarazioni rese dal Genchi nel corso dell'esame dibattimentale, nelle quali si ribadisce sostanzialmente il contenuto delle spontanee dichiarazioni; h) le dichiarazioni del teste Musardo, maresciallo dei Carabinieri, da cui si evince che il De Magistris intratteneva costanti contatti con il Genchi al fine di essere aggiornato sull'evoluzione delle sue attività; i) le dichiarazioni rese dal De Magistris nel corso dell'esame dibattimentale, dalle quali si desume il costante contatto tra i due imputati in ordine all'evoluzione delle indagini.

Si censura, infine, la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso, ai fini della configurabilità del reato di abuso di ufficio, la sufficienza del dolo eventuale in ordine alla violazione di legge.

Ciò in considerazione del fatto che la motivazione dei giudici di secondo grado (p. 108-109) riconosce esplicitamente che le indagini furono condotte «accettando consapevolmente il rischio che [...] le utenze [...] fossero effettivamente in uso a soggetti tutelati dalle guarentigie parlamentari, e che la elaborazione degli stessi dati avrebbe potenzialmente comportato per i parlamentari coinvolti un danno ingiusto». D'altro canto, la l. n. 140 del 200 impone di richiedere l'autorizzazione della Camera di appartenenza anche quando l'utenza sia oggetto di utilizzazione promiscua, discontinua e saltuaria, ed è pertanto erronea l'affermazione dei giudici di appello (a pag. 103 della sentenza impugnata), secondo cui nemmeno la formale intestazione di un'utenza ad un parlamentare sarebbe dirimente, poiché l'utenza potrebbe essere concessa in uso a terzi, collaboratori o familiari.

4.2. Nel secondo motivo, si lamenta vizio di motivazione, a norma dell'art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., in riferimento all'esclusione della sussistenza del dolo intenzionale di danno.

Si deduce che, anche in relazione a questo profilo, la sentenza di appello offre una motivazione manifestamente illogica e contraddittoria. La sentenza di primo grado aveva affermato che l'espletamento della «attività investigativa - nella consapevolezza ex ante di non poterne validare gli effetti dell'inutilizzabilità patologica che ne sarebbe derivata - attesta come gli imputati non tendessero al corretto svolgimento delle indagini, ma alla raccolta di elementi informativi sui parlamentari tout court». I giudici di seconda cura si limitano a contestare che le indagini avessero questo obiettivo, affermando che, verosimilmente, si era «cercato di colpire specificamente eventuali stretti collaboratori dei parlamentari», e pretermettono ogni rilievo desumibile, in tema di prova del dolo specifico dell'abuso di ufficio, tanto dalla macroscopicità delle violazioni normative, come invece ritiene costantemente la giurisprudenza, quanto dalla competenza professionale dei due imputati.

5. Il ricorso presentato dall'avvocato Calamani, nell'interesse della parte civile Rutelli, è articolato in tre motivi.

5.1. Nel primo motivo, si lamenta vizio di motivazione, a norma dell'art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., con riferimento alla mancata considerazione delle argomentazioni esposte nella sentenza di primo grado e nelle memorie difensive depositate dalla parte civile, e nonostante l'obbligo di motivazione cd. "rafforzata".

Si deduce che la sentenza di appello ha genericamente escluso il dolo richiesto dalla fattispecie incriminatrice rilevando che: a) per alcune delle utenze, all'atto della richiesta di acquisizione dei tabulati, non era ancora pervenuta la scheda o anagrafica degli intestatari; b) l'intestazione conosciuta o conoscibile delle utenze non era comunque «compiutamente riferibile a soggetti coperti da guarentigie costituzionali»; c) l'individuazione dei soggetti da approfondire era stata determinata proprio dall'interrogazione del sistema TESEO effettuata dal Genchi.

Si osserva che, in tal modo, la decisione impugnata ha mostrato di aver completamente trascurato gli elementi addotti nella memoria depositata dalla parte civile Francesco Rutelli durante il giudizio di appello.

In particolare, l'atto di parte, dopo aver premesso che l'utenza in uso all'onorevole Rutelli era indicata, nella Relazione n. 2 del Genchi del 20 aprile 2007, precedente al decreto di acquisizione dei tabulati, come riferita a «La Margherita, Democrazia & Libertà», ha richiamato: a) le risultanze delle indagini del consulente tecnico del P.M. dott. Bernaschi, dalle quali, in particolare, si evince che l'esame e l'estrapolazione dei dati dai cellulari del Saladino Nokia 9300 e Nokia E61, da cui sono emersi i riferimenti relativi all'utenza in uso all'onorevole Rutelli, è stata realizzata dal Genchi nelle date del 23 e del 24 marzo 2007 ed esposta in una Relazione priva di data, e che il medesimo Genchi aveva restituito al De Magistris i due cellulari sequestrati in data 27 marzo 2007; b) le risultanze della Relazione n. 1 alla Procura della Repubblica di Salerno redatta dal Genchi in data 4 febbraio 2008, nella quale, tra l'altro, si dà atto dell'incontro avvenuto presso lo studio di quest'ultimo tra lo stesso ed il De Magistris, in data 20 aprile 2007, prima del decreto di acquisizione emesso dal secondo, e si ammette che le richieste agli intestatari dirette alle aziende telefoniche a partire dal 16 marzo sono avvenute sulla base delle numerazioni inserite nelle memorie e nelle rubriche dei cellulari sequestrati al Saladino; c) le dichiarazioni del teste Angelosanto, colonnello dei Carabinieri, da cui si evince che, quando nella Relazione del 20 aprile 2007, si indica una certa utenza (risultata in uso all'onorevole Prodi), si impiega la dicitura «utenza rilevata nei dati di traffico dei seguenti codici o utenze, codici Imei o utenze», che tale dicitura è associata all'indicazione dei codici Imei dei due apparecchi cellulari sequestrati al Saladino, che analoga conclusione poteva essere tratta con riferimento ad un'utenza risultata nella disponibilità dell'onorevole Francesco Rutelli, e che una delle utenze riferibili all'onorevole Gozi, per la quale era avanzata richiesta di tabulati con la Relazione n. 2 del 20 aprile 2007, non era rilevabile dai dati del traffico telefonico delle utenze del Saladino, ma solo dalla rubrica dell'apparecchio Nokia 9300 sequestrato al Saladino; d) le dichiarazioni del teste Santoro, luogotenente dei Carabinieri, dalle quali emerge che l'utenza in uso al Rutelli, nelle rubriche dei cellulari sequestrati al Saladino era associata anche all'indirizzo mail «francesco.rutelli@margheritaonline.it»; e) la Relazione n. 2 del 20 aprile 2007, a firma del Genchi, la quale esplicitamente rappresenta che l'utenza relativa a «La Margherita, Democrazia & Libertà», ma in realtà riferibile al Rutelli, era stata estratta dai cellulari sequestrati al Saladino, dove il numero era associato al nome di Francesco Rutelli; f) le dichiarazioni spontanee del Genchi in data 28 novembre 2012, dalle quali risulta che il medesimo ha ammesso di aver avuto contezza da subito degli abbinamenti presenti nelle rubriche telefoniche del Saladino tra numeri e nominativi, pur precisando di non poter fare affidamento sulle stesse; g) le dichiarazioni rese dal Genchi nel corso dell'esame dibattimentale, nelle quali si ribadisce sostanzialmente il contenuto delle spontanee dichiarazioni.

5.2. Nel secondo motivo, si lamenta violazione di legge, avendo riguardo agli artt. 323 c.p. e 4 l. n. 140 del 2003, nonché vizio di motivazione, a norma dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), c.p.p., con riferimento alla sussistenza del dolo necessario relativamente alla violazione di legge.

Si deduce che la sentenza impugnata pur riconoscendo la sussistenza, in capo agli imputati, del dolo eventuale in ordine alla riconducibilità ai parlamentari delle utenze di cui si chiedeva e disponeva l'acquisizione, anche nel momento in cui si provvedeva in tal senso, ha erroneamente affermato che tale forma di consapevolezza non sia sufficiente ad integrare l'elemento soggettivo richiesto dall'art. 323 c.p.

5.3. Nel terzo motivo, si lamenta violazione di legge, avendo riguardo all'art. 323 c.p., e vizio di motivazione, a norma dell'art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p., con riferimento alla sussistenza del dolo specifico di danno.

Il motivo è sostanzialmente identico al secondo motivo del ricorso presentato per la parte civile Mastella.

6. Il ricorso presentato dall'avvocato Repici, nell'interesse dell'imputato Genchi, è articolato in quattro motivi.

6.1. Nel primo motivo, si lamenta violazione di legge, avendo riguardo all'art. 420-ter c.p.p., e vizio di motivazione, a norma dell'art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e), c.p.p., con riferimento al rigetto della richiesta di rinvio per legittimo impedimento dell'imputato all'udienza del 17 aprile 2012.

Si deduce che il Genchi aveva presentato richiesta di rinvio per essere stato diffidato a comparire davanti al Tribunale di Marsala quale consulente tecnico del P.M. in processo penale per sequestro di persona per la mattina del 17 aprile 2012, alle ore 9,00, nonché convocato presso il reparto di Chirurgia generale e d'urgenza del Policlinico di Palermo del medesimo giorno per le ore 15,30, al fine di essere sottoposto ad intervento chirurgico per biopsia linfonodale, secondo una prescrizione d'urgenza impartita dal reparto di Medicina clinica e respiratoria del medesimo Policlinico. Illegittima, pertanto, è la risposta dei giudici di primo grado e di appello, che hanno escluso la rilevanza sia dell'impegno a Marsala sia dell'intervento chirurgico, posto che, da un lato, anche l'impegno a partecipare ad un processo quale testimone o consulente costituisce impedimento assoluto, in quanto penalmente sanzionato a norma dell'art. 366 c.p., e, dall'altro, il diritto alla salute, in un caso connotato di serietà, prevale sulle necessità della giustizia. Erronea, inoltre, è l'affermazione dell'innocuità del rigetto dell'istanza di rinvio, atteso che all'udienza del 17 aprile le parti erano state costrette a formulare le questioni preliminari ex art. 491 c.p.p., e che, di conseguenza, il Tribunale aveva dichiarato tardive ulteriori eccezioni di incompetenza.

6.2. Nel secondo motivo, si lamenta violazione di legge, avendo riguardo agli artt. 25, primo comma, Cost. e 8 e 9 c.p.p., e vizio di motivazione, a norma dell'art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e), c.p.p., con riferimento al rigetto dell'eccezione di incompetenza per territorio.

Si deduce che i primi dati elaborati, tra quelli indicati nelle imputazioni, furono i dati relativi al senatore Pisanu, e ciò avvenne nella sede Vodafone di Pozzuoli; inoltre, come documentato agli atti del procedimento, tali dati furono ricevuti dal Genchi e scaricati dallo stesso attraverso connessione internet attivata presso il suo studio in Palermo. Ancora, per l'ipotesi di reato di abuso di ufficio derivante dalla violazione dell'art. 4 l. n. 140 del 2003, gli imputati Genchi e De Magistris erano stati iscritti nel registro degli indagati della Procura di Salerno in data antecedente al 3 febbraio 2009, allorché si era proceduto all'iscrizione del presente procedimento nel registro degli indagati della Procura di Roma. Si rileva, poi, che l'eccezione di incompetenza per territorio non può soffrire le preclusioni di cui all'art. 491 c.p.p., pena la violazione del principio costituzionale della intangibilità del giudice naturale.

6.3. Nel terzo motivo, si lamenta violazione di legge, avendo riguardo agli artt. 323 e 366 c.p., all'art. 4 l. n. 140 del 2003 e all'art. 192 c.p.p., e vizio di motivazione, a norma dell'art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e), c.p.p., con riferimento alla pronuncia di assoluzione «perché il fatto non costituisce reato», anziché «perché il fatto non sussiste», relativamente all'imputazione di cui sub A.

Si deduce che, con riferimento al senatore Pisanu, non sono riferibili allo stesso le utenze risultate intestate a suo nome, ed i cui dati sono stati acquisiti e trattati dal Genchi, secondo quanto dichiarato dallo stesso senatore Pisanu, e che perciò è incomprensibile l'affermazione della violazione delle prerogative parlamentari.

6.4. Nel quarto motivo, si lamenta violazione di legge, avendo riguardo agli artt. 323 e 366 c.p., all'art. 4 l. n. 140 del 2003 e all'art. 192 c.p.p., e vizio di motivazione, a norma dell'art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e), c.p.p., con riferimento alla pronuncia di assoluzione «perché il fatto non costituisce reato», anziché «perché il fatto non sussiste», relativamente a tutte le altre imputazioni.

Si deduce che: a) per quanto attiene al fatto contestato come commesso in danno dell'onorevole Gozi (capo B), una delle utenze a questi riferibili era intestata e permanentemente utilizzata da Federico Ioni, un'altra non era più utilizzata dalla persona offesa già da epoca precedente all'assunzione della carica di parlamentare, e più in generale, era stata interrotta ogni attività di acquisizione ed elaborazione dei dati relativi a dette utenze una volta accertato lo status di parlamentare del medesimo; b) per quanto attiene al fatto contestato come commesso in danno dell'onorevole Prodi (capo C), l'utenza a questi riferibile era intestata alla DELTA s.p.a. ed è risultata utilizzata anche (o solo) da soggetti diversi dal medesimo, come Pietro ed Alessandro Scarpellini, entrambi indagati nel procedimento "Why not"; c) per quanto attiene al fatto contestato come commesso in danno dell'onorevole Mastella (capo D), non vi erano elementi da cui dedurre che l'utenza a questi riferibile fosse in uso al medesimo, tanto più che l'imputato Genchi, quale consulente in altro procedimento penale, avesse riscontrato l'esistenza di altre utenze telefoniche in uso al Mastella; d) per quanto attiene al fatto contestato come commesso in danno del senatore Gentile (capo E), non vi erano elementi da cui dedurre che l'utenza a questi riferibile fosse in uso al medesimo, tanto più che l'apparato era intestato alla "Camera dei Deputati", mentre il Gentile non è stato mai deputato; e) per quanto attiene al fatto contestato come commesso in danno dell'onorevole Minniti (capo F), l'utenza a questi riferibile, alla data del 20 aprile 2007, era stata dismessa da olt[r]e un anno ed intestata alla Otto Telematics s.p.a.; f) per quanto attiene al fatto contestato come commesso in danno dell'onorevole Rutelli (capo G), l'utenza a questi riferibile era intestata al partito "La Margherita", al quale appartenevano indagati dell'inchiesta "Why not", e risultava utilizzata a Roma ed in Calabria, ed inoltre l'imputato Genchi, quale consulente in altro procedimento penale, aveva avuto conoscenza di altre utenze effettivamente utilizzate dal Rutelli ed indicate in dibattimento dai testi Lusi, Prodi e Rutelli stesso; g) per quanto attiene al fatto contestato come commesso in danno dell'onorevole Pittelli (capo H), i dati relativi all'utenza a questi riferibile erano stati acquisiti nel 2005, nell'ambito di indagini per omicidio, su disposizione di altro magistrato, e l'esistenza di essi è stata semplicemente segnalata al dott. De Magistris, perché valutasse se attivare le procedure necessarie per acquisirli.

Si osserva, poi, in sintesi, che, in tutti i casi indicati, era riscontrabile la mancanza dell'elemento psicologico di operare contra ius e, conseguentemente, della coscienza e volontà di arrecare un danno ingiusto alle persone offese, che ciò «incideva sulla mancanza dell'elemento materiale del reato di abuso d'ufficio, così come strutturato a seguito della novella legislativa del 1997», e che si imponeva pertanto l'assoluzione «perché il fatto non sussiste».

6.5. Si rileva, ancora, con osservazioni di carattere generale, concernenti tutte le contestazioni, che: a) non vi è stato alcun danno arrecato ai singoli parlamentari o al Parlamento, ed anzi con riferimento alle utenze riferibili al Pisanu, al Rutelli ed al Pittelli, e ad una utenza riferibile al Gozi non siano stati mai acquisiti ed elaborati tabulati di comunicazioni; b) non può dirsi violata la l. n. 140 del 2003, né in linea generale, posto che la stessa non prevede in base a quali criteri si possa stabilire quando una utenza non intestata ad un parlamentare debba ritenersi in uso allo stesso, specie quando, come nel caso in esame, la stessa sia intestata ad enti o società o terzi, né specificamente da parte del Genchi, in quanto il dovere di presentare richiesta di autorizzazione alle Camere grava solo sull'Autorità giudiziaria; c) il Genchi ha agito con la sola finalità di perseguire l'interesse pubblico, stante anche l'assenza di ragioni di rancore, ostilità o inimicizia nei confronti delle parti civili, come anche dalle stesse ammesso; d) è «stravagante» la qualificazione del danno ingiusto, ossia di quello che nelle contestazioni è indicato come l'evento del reato di abuso di ufficio, in termini di «conoscibilità di dati esterni di traffico relativi alle loro comunicazioni», atteso che lo stesso non configura né danno patrimoniale, né danno non patrimoniale, difettando il danno conseguenza, tanto più che la l. n. 140 del 2003 mira a tutelare l'Istituzione parlamentare e non la persona fisica parlamentare, né, quindi, la segretezza delle comunicazioni di questa uti singulus.

6.6. Si aggiunge, infine, che l'imputato Genchi è titolare di interesse a ricorrere perché la formula assolutoria adottata dalla Corte d'appello potrebbe consentire l'adozione di sanzioni disciplinari nei suoi confronti, e potrebbe non essere risolutiva nel procedimento amministrativo determinato dalla contestazione di violazioni notificata dal Garante per la protezione dei dati personali in relazione al trattamento dei dati indicati nelle imputazioni del presente procedimento.

7. In data 5 settembre 2016, l'avvocato Repici nell'interesse dell'imputato Genchi, ha presentato motivi nuovi, da valere anche come memoria.

L'atto riproduce la memoria depositata in appello e ripercorre l'intero materiale istruttorio acquisito agli atti del dibattimento, in particolare per sostanziare le affermazioni di fatto indicate nel ricorso presentato subito dopo il deposito della sentenza, e per evidenziare l'inattendibilità o, comunque, la scarsa concludenza degli elementi che le parti civili indicano, nei loro atti di impugnazione, come pretermessi dal giudice di secondo grado nella sua valutazione, ed il cui mancato esame, ad avviso delle stesse, integra il vizio di motivazione.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso del Genchi è infondato, mentre i ricorsi proposti dalle parti civili Gozi, Mastella e Rutelli sono fondati nei termini che di seguito si preciseranno.

1.1. L'esame delle questioni muoverà dalle doglianze formulate nel ricorso dell'imputato Genchi, perché logicamente preliminari a quelle prospettate dalle parti civili: la verifica sulla legittimità dello svolgimento del processo nei gradi di merito, sia con riferimento al dedotto impedimento a comparire nella fase delle questioni preliminari, sia con riguardo alla competenza per territorio, e poi la disamina sulla configurabilità del reato di abuso di ufficio, sotto il profilo della violazione di legge e del danno ingiusto, precedono necessariamente ogni indagine sulle deduzioni concernenti la sussistenza del dolo necessario ai fini dell'integrazione della medesima fattispecie, ed anzi ne costituiscono presupposto condizionante la rilevanza di queste ultime. Per evidenti ragioni di linearità espositiva, la sentenza esaminerà anteriormente alle questioni sollevate dalle parti civili anche le ulteriori censure dedotte nel ricorso del Genchi, le quali criticano la pronuncia assolutoria «perché il fatto non costituisce reato», e non «perché il fatto non sussiste», rilevando, in linea generale, che il difetto del dolo specifico refluisce sullo stesso elemento materiale del reato di abuso di ufficio, e, in relazione all'acquisizione dei dati telefonici riferiti al senatore Pisanu, che il delitto è escluso per la impossibilità di riferire a questi i dati relativi alle utenze al medesimo attribuite nell'imputazione.

2. Il ricorso dell'imputato Genchi è ammissibile, perché contesta una sentenza il cui esito assolutorio è determinato esclusivamente dalla affermata insussistenza dell'elemento psicologico e che, avendo ritenuto accertato il fatto obiettivo di un comportamento commesso in violazione di legge e produttivo di un danno ingiusto, potrebbe determinare in suo danno conseguenze negative: vi è quindi un interesse giuridicamente apprezzabile al ricorso (in giurisprudenza, la soluzione dell'ammissibilità dell'impugnazione, è affermata anche dall'orientamento più rigoroso, per il quale v. Sez. 6, n. 6692 del 16 dicembre 2014, dep. 2015, Rv. 262393, nonché Sez. 4, n. 49710 del 4 novembre 2014, Di Cuonzo, Rv. 261178, quando l'imputato deduca che l'accertamento del fatto materiale, oggetto del processo penale, possa pregiudicare le situazioni giuridiche soggettive a lui facenti capo in giudizi civili, amministrativi o disciplinari, anche distinti rispetto a quelli di danno).

Inoltre, il precisato ricorso è ammissibile pure con riferimento alle censure concernenti le dedotte violazioni processuali: l'eventuale accoglimento delle stesse, determinerebbe (meglio: avrebbe determinato) la caducazione di entrambe le sentenze di merito, per il principio della nullità derivata, e, quindi, l'improponibilità dei ricorsi delle parti civili, i quali mirano all'annullamento con rinvio della sentenza impugnata limitatamente all'affermata insussistenza dell'elemento psicologico proprio sul presupposto della validità e della stabilità dell'accertamento giudiziale in ordine ai profili della violazione obiettiva di una norma di legge da parte degli imputati e della configurabilità di un danno ingiusto quale effetto della condotta contra legem commessa dai medesimi.

3. Le questioni processuali dedotte dal Genchi sono due: una relativa al rigetto della richiesta di rinvio per legittimo impedimento in relazione all'udienza del 17 aprile 2012; l'altra concernente l'incompetenza per territorio del Tribunale (e poi della Corte d'appello) di Roma.

4. La prima di esse, formulata nel primo motivo di ricorso, contesta il rigetto della richiesta di rinvio per legittimo impedimento dell'imputato all'udienza del 17 aprile 2012 nonostante i concomitanti impegni dello stesso, nella mattina, come consulente tecnico del P.M. davanti al Tribunale di Marsala, e, nel successivo pomeriggio, per l'asportazione chirurgica di una biopsia presso il Policlinico di Palermo.

La doglianza è priva di fondamento.

4.1. Innanzitutto, infatti, deve ritenersi certamente prevalente il diritto di difesa dell'imputato, rispetto al dovere di rendere una deposizione davanti ad altra Autorità giudiziaria come testimone, consulente tecnico o perito in un processo nei confronti di altri. Invero, anche alla luce dell'enunciato dell'art. 24, secondo comma, Cost., secondo cui «la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento», il giudice del procedimento davanti al quale una persona deve partecipare quale testimone, perito o consulente tecnico non può non ritenere prevalente l'impegno di quest'ultima a presenziare nel processo a suo carico. Non appropriato, inoltre, è il richiamo alla fattispecie di cui all'art. 366 c.p., sia perché la disposizione incriminatrice esige, testualmente, una condotta caratterizzata dal ricorso a mezzi fraudolenti o comunque consistente nel rifiuto di dare le proprie generalità o di prestare il giuramento o le funzioni richieste, sia perché, in ogni caso, come osservato anche in dottrina, la previsione evocata non è applicabile se il rifiuto è dovuto ad impedimenti legittimi. Né, d'altro canto, può essere rimessa alla volontà dell'imputato la decisione su quale dei due processi debba avere la precedenza, trattandosi di scelta che attiene all'interesse sopraindividuale della ordinata amministrazione della giustizia.

4.2. In secondo luogo, poi, non manifestamente illogica è la valutazione dei giudici di primo e di secondo grado, i quali concordemente hanno escluso un nocumento per l'imputato, il quale avrebbe potuto comunque sottoporsi agli accertamenti indicati subito dopo l'udienza, senza apprezzabile ritardo.

Può aggiungersi, per completezza, che, secondo un principio giurisprudenziale condiviso dal Collegio, non costituisce legittimo ed assoluto impedimento a partecipare al processo nemmeno la necessità dell'imputato di sottoporsi ad un accertamento medico certificato come indifferibile a causa delle esigenze organizzative della struttura sanitaria presso cui deve essere eseguito e non in ragione delle specifiche ed impellenti condizioni di salute del medesimo, perché accedere alla soluzione contraria «significherebbe affermare il principio generale che le esigenze della struttura sanitaria prevalgono, per sé, sulle esigenze di giustizia», sebbene queste ultime costituiscano oggetto di immediata tutela costituzionale, a differenza di quelle attinenti l'organizzazione dei servizi sanitari (così Sez. 6, n. 45659 del 19 novembre 2010, Ippoliti, Rv. 249034).

5. La seconda questione, proposta nel secondo motivo di ricorso, attiene alla incompetenza per territorio del Tribunale di Roma, perché i primi dati furono elaborati nella sede Vodafone di Pozzuoli, con conseguente competenza dell'Autorità giudiziaria di Napoli, o comunque, perché gli stessi furono ricevuti e "scaricati" dal Genchi nel suo studio di Palermo, con conseguente competenza dell'Autorità giudiziaria avente sede in detta città, ovvero ancora perché l'iscrizione del procedimento nei confronti del Genchi e del De Magistris per abuso di ufficio derivante dalla violazione dell'art. 4 della l. n. 140 del 2003 nel registro delle notizie di reato della Procura della Repubblica di Salerno era avvenuta in data antecedente a quella eseguita nel corrispondente registro tenuto dalla Procura della Repubblica di Roma.

Anche questa doglianza è priva di fondamento.

5.1. Con riferimento alla asserita competenza dell'Autorità giudiziaria di Napoli, correttamente i giudici di merito hanno escluso di poter attribuire rilevanza all'elemento, emerso solo nel corso del dibattimento, secondo cui i primi dati furono elaborati nella sede Vodafone di Pozzuoli, in quanto lo stesso è stato acquisito solo dopo l'apertura del dibattimento. Invero, per effetto del principio della perpetuatio iurisdictionis, secondo l'orientamento giurisprudenziale consolidato, che il Collegio condivide, la competenza va determinata con criterio ex ante, sulla scorta degli elementi disponibili al momento delle cadenze normativamente prefissate per la proponibilità dell'eccezione, sicché non hanno rilievo né eventi processuali, né acquisizioni di elementi di conoscenza in epoca successiva alla consumazione dei limiti temporali per dedurre la stessa (così, relativamente agli eventi processuali, v. Sez. 4, n. 14699 del 12 dicembre 2012, dep. 2013, Perez Garcia, Rv. 255498, e Sez. 6, n. 33435 del 4 maggio 2006, Battistella, Rv. 234350, mentre, in ordine agli elementi conoscitivi, cfr., per tutte, Sez. 2, n. 24736 del 26 marzo 2010, Amato, Rv. 247745), tanto che, anzi, secondo una decisione, non sarebbe possibile neppure formulare argomentazioni ulteriori rispetto a quelle già esaminate, ove si riproponga la questione in sede di impugnazione (così Sez. 2, n. 1415 del 13 dicembre 2013, dep. 2014, Chiodi, Rv. 258149).

Né questa disciplina, che limita la rilevabilità delle questioni di competenza per territorio si pone in contrasto con la garanzia del giudice naturale, poiché costituisce enunciato più volte ribadito dalla giurisprudenza costituzionale quello secondo cui il legislatore è arbitro, nella sua discrezionalità, di limitare la rilevanza del criterio di ripartizione della giurisdizione a vantaggio dell'ordine e speditezza del processo, senza che a causa di ciò sia intaccato il principio della naturalità precostituita del giudice (così, Corte cost., n. 521 del 1991, Corte cost., n. 280 del 1994, Corte cost., n. 349 del 2000; per la condivisione di questo approdo ermeneutico nella giurisprudenza di legittimità, cfr. Sez. 2, n. 24736 del 2010, Amato, cit., in motivazione, nonché Sez. 6, n. 8587 del 30 novembre 2000, dep. 2001, Singh, Rv. 219856).

In ogni caso, poi, come hanno osservati i giudici di primo e secondo grado, il reato può ritenersi perfezionato solo quando i dati di traffico telefonico sono conosciuti o resi conoscibili da parte di soggetti terzi rispetto al gestore telefonico, che li conserva e li elabora a richiesta, ed attraverso la decrittazione di essi mediante l'uso della relativa password, sicché l'elemento dell'elaborazione dei primi dati in Pozzuoli da parte di personale della Vodafone resta irrilevante ai fini della determinazione della competenza.

5.2. Con riferimento alla asserita competenza dell'Autorità giudiziaria di Palermo, la Corte d'appello e prima ancora il Tribunale di Roma hanno escluso di poter individuare il luogo del commesso reato nello studio di Genchi in Palermo, evidenziando, con motivazione immune da vizi logici e giuridici, che il collegamento al server della posta elettronica alla quale sono pervenuti i dati, poteva essere avvenuto da qualunque terminale, e, quindi da qualsiasi ubicazione. Di conseguenza, corretta è la conclusione che anche il riferimento spazio-temporale in questione, oggetto di mera allegazione da parte della difesa del Genchi, è ininfluente ai fini della decisione della questione di competenza.

5.3. In terzo luogo, infine, con riferimento alla asserita competenza dell'Autorità giudiziaria di Salerno, i giudici di merito hanno evidenziato che il procedimento per il quale si è proceduto ad iscrizione a Roma è, rispetto a quello definito dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale campano, non solo più ampio, in ragione del numero di persone offese, ma anche diverso, per la non coincidenza dei fatti, riguardanti anche altre condotte ascritte al De Magistris, quale sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Catanzaro; sulla base di questa premessa, poi, hanno escluso che il procedimento iscritto a Salerno esercitasse vis attractiva su quello iscritto a Roma. La conclusione è corretta perché, come si osserva nella giurisprudenza di legittimità, ai fini della determinazione della competenza per territorio, l'adempimento dell'iscrizione della notizia di reato richiamato dalla regola suppletiva di cui all'art. 9, comma terzo, c.p.p. deve intendersi in senso rigorosamente formale, e deve pertanto essere apprezzato in relazione alla specifica ipotesi criminosa oggetto di iscrizione e non anche in relazione all'eventuale più ampio contenuto della denuncia pervenuta all'ufficio del pubblico ministero (così Sez. 6, n. 33435 del 4 maggio 2006, Battistella, Rv. 234349, ma, già in precedenza, per la valorizzazione dei dati formali contenuti nell'iscrizione come elemento decisivo ai fini dell'applicazione del criterio di priorità ex art. 9, comma 3, c.p.p., cfr. Sez. 2, n. 11849 dell'11 febbraio 2003, Monnier, Rv. 223833).

Si può anzi aggiungere che le doglianze della difesa sono rimaste, in relazione a tale profilo del motivo di ricorso in esame, prive della specificità richiesta dall'art. 581, comma 1, lett. c), c.p.p.: a fronte della convergente risposta dei giudici di merito, non è stato neanche allegato il travisamento del fatto processuale, né sono stati forniti elementi di alcun tipo per dimostrare l'identicità (sia pure per inclusione) dei fatti iscritti a Salerno e dei fatti iscritti a Roma.

6. Le questioni sostanziali formulate nel ricorso del Genchi in relazione alla configurabilità dell'elemento oggettivo del reato di abuso di ufficio attengono, innanzitutto, ai profili della sussistenza/insussistenza di una violazione di legge e di un danno ingiusto ascrivibili all'imputato.

7. La prima questione attiene alla configurabilità della violazione di legge con riferimento alla disciplina in materia di guarentigie per i membri del Parlamento, sia in termini generali, avendo riguardo all'individuazione delle condizioni da cui desumere la trasgressione delle prescrizioni normative, sia in termini relativi, avendo riguardo alla posizione del Genchi quale consulente tecnico del pubblico ministero.

La questione non è fondata sotto nessuno dei due profili evidenziati.

7.1. Costituisce principio consolidato, nella giurisprudenza di legittimità e nella giurisprudenza costituzionale, quello secondo cui, a norma dell'art. 4 della l. 20 giugno 2003, n. 140, debbono essere preventivamente autorizzate le intercettazioni alle quali il parlamentare venga sottoposto non solo quale indagato, ma anche quale persona offesa o informata sui fatti, su utenze o in luoghi appartenenti al soggetto politico o nella sua disponibilità (così, specificamente, Sez. 2, n. 8739 del 16 novembre 2012, dep. 2013, La Monica, Rv. 254548), e ciò anche quando le captazioni vengano effettuate ponendo sotto controllo gli interlocutori abituali del membro del Parlamento in un contesto tale da far ritenere che le intercettazioni siano indirettamente volte a intercettare le conversazioni del parlamentare (così ancora, Sez. 2, La Monica, cit., nonché Sez. fer., n. 34244 del 9 settembre 2010, Lombardi, Rv. 248216). Invero, come ha evidenziato la giurisprudenza del Giudice delle Leggi, «va infatti osservato che la norma costituzionale vieta di sottoporre ad intercettazione, senza autorizzazione, non le utenze del parlamentare, ma le sue comunicazioni: quello che conta - ai fini dell'operatività del regime dell'autorizzazione preventiva stabilito dall'art. 68, terzo comma, Cost. - non è la titolarità o la disponibilità dell'utenza captata, ma la direzione dell'atto d'indagine. Se quest'ultimo è volto, in concreto, ad accedere nella sfera delle comunicazioni del parlamentare, l'intercettazione non autorizzata è illegittima, a prescindere dal fatto che il procedimento riguardi terzi o che le utenze sottoposte a controllo appartengano a terzi» (così testualmente, Corte cost., n. 390 del 2007).

Ciò che assume significato dirimente, quindi, è che l'attività di captazione delle conversazioni o, come nel caso di specie, di acquisizione dei tabulati sia diretta «ad accedere nella sfera delle comunicazioni del parlamentare», indipendentemente dalla titolarità o, addirittura, della disponibilità dell'utenza sottoposta a controllo.

Quanto appena segnalato, poi, nella prospettiva non della tutela della riservatezza delle comunicazioni del parlamentare in quanto persona fisica e come tale soggetto di diritti, bensì della tutela del libero esercizio della funzione parlamentare. In effetti, come osserva la Corte costituzionale: «Destinatari della tutela, in ogni caso, non sono i parlamentari uti singuli, ma le Assemblee nel loro complesso. Di esse si intende preservare la funzionalità, l'integrità di composizione (nel caso delle misure de libertate) e la piena autonomia decisionale, rispetto ad indebite invadenze del potere giudiziario (si veda, al riguardo, con riferimento alla perquisizione domiciliare, la sentenza n. 58 del 2004): il che spiega l'irrinunciabilità della garanzia (sentenza n. 9 del 1970). [...] Richiedendo il preventivo assenso della Camera di appartenenza ai fini dell'esecuzione di tale mezzo investigativo, l'art. 68, terzo comma, Cost. non mira a salvaguardare la riservatezza delle comunicazioni del parlamentare in quanto tale. Quest'ultimo diritto trova riconoscimento e tutela, a livello costituzionale, nell'art. 15 Cost., secondo il quale la limitazione della libertà e segretezza delle comunicazioni può avvenire solo per atto motivato dell'autorità giudiziaria, con le garanzie stabilite dalla legge. L'ulteriore garanzia accordata dall'art. 68, terzo comma, Cost. è strumentale, per contro, anche in questo caso, alla salvaguardia delle funzioni parlamentari: volendosi impedire che l'ascolto di colloqui riservati da parte dell'autorità giudiziaria possa essere indebitamente finalizzato ad incidere sullo svolgimento del mandato elettivo, divenendo fonte di condizionamenti e pressioni sulla libera esplicazione dell'attività. E ciò analogamente a quanto avviene per l'autorizzazione preventiva alle perquisizioni ed ai sequestri di corrispondenza, il cui oggetto ben può consistere anche in documenti a carattere comunicativo» (così Corte cost. n. 390 del 2007).

7.2. In coerenza con le riferite indicazioni giurisprudenziali, è ragionevole ritenere che disporre l'acquisizione di tabulati relativi a comunicazioni telefoniche intercorse su utenze le quali, alla luce degli atti di indagine esistenti al momento del provvedimento, risultano riferibili ad un parlamentare è attività compiuta in violazione di quanto prescrive l'art. 4 della l. n. 140 del 2003, in quanto non preceduto dalla necessaria Camera di appartenenza di quest'ultimo.

D'altro canto, la soluzione alternativa prospettabile, in forza della quale sarebbe possibile procedere all'acquisizione dei tabulati nonostante la preesistente disponibilità negli atti di indagine di elementi indicativi della riferibilità delle utenze interessate ai membri del Parlamento, e, solo all'esito di una verifica sul contenuto delle risultanze acquisite, chiedere un'autorizzazione ex post alla Camera di appartenenza, non è sostenibile per un duplice ordine di ragioni. Innanzitutto, ammettere l'acquisibilità dei tabulati ed il controllo dei dati risultanti dagli stessi prima di chiedere l'autorizzazione alla Camera o al Senato, nelle condizioni di fatto indicate, significherebbe rendere ineffettiva l'esigenza di salvaguardare l'esercizio delle funzioni parlamentari da condizionamenti e pressioni, in contrasto con il fondamento della garanzia costituzionale di cui all'art. 68, comma 3, Cost., perché sarebbe comunque incisa la sfera di libertà del deputato o del senatore rispetto ai controlli: l'autorizzazione a posteriori rileverebbe, di fatto, ai soli fini della utilizzabilità processuale degli atti acquisiti. In secondo luogo, poi, l'autorizzazione ex post prevista dall'art. 6 della l. n. 140 del 2003 non è certamente configurabile come provvedimento a "sanatoria": se così si ritenesse, infatti, si «verrebbe a spostare in sede parlamentare - in una situazione nella quale risulterebbe eventualmente attivabile anche il rimedio del conflitto di attribuzioni - un sindacato che trova la sua sede naturale nell'ambito dei rimedi interni al processo. Con il rischio - da taluni paventato - che un siffatto meccanismo possa porsi addirittura in contrasto con la stessa norma costituzionale, attribuendo, di fatto, all'Assemblea parlamentare - nel caso di concessione dell'autorizzazione - la facoltà di "sanare", rendendoli utilizzabili, mezzi di prova acquisiti contra constitutionem» (così ancora Corte cost., n. 390 del 2007).

7.3. La sentenza impugnata, nella vicenda in esame, non ha escluso che le utenze indicate nei capi di imputazione fossero riferibili, al momento della richiesta dei tabulati, e sulla base degli atti acquisiti al fascicolo delle indagini preliminari, ai membri del Parlamento Giuseppe Pisanu, Sandro Gozi, Romano Prodi, Clemente Mastella, Antonio Gentile, Domenico Minniti, Francesco Rutelli e Giancarlo Pittelli. Più limitatamente, la stessa ha escluso che l'intestazione conosciuta o conoscibile delle utenze in relazione alle quali era disposta l'acquisizione dei tabulati non appariva «compiutamente riferibile a soggetti coperti da guarentigie costituzionali», di tal ché «non si può sostenere che sia pienamente provato che i due imputati avessero piena contezza che i numeri rinvenuti nelle agende e rubriche del Saladino fossero tutti da ricondurre a soggetti protetti dal Parlamento».

Resta il fatto che se agli atti di indagine risultavano elementi dai quali desumere la riferibilità delle utenze ai precisati parlamentari, a prescindere dalla «piena contezza» degli imputati, sussisteva, da un punto di vista oggettivo, il dovere di rivolgersi alla Assemblea di appartenenza e chiederne l'autorizzazione. Invero, quand'anche fosse accertata l'intestazione formale di una o più utenze a soggetti diversi dai parlamentari, come adombrato nella vicenda in esame nel terzo motivo di ricorso del Genchi, ciò che rileva è comunque la situazione che si presenta agli inquirenti al momento dell'attività in cui viene disposta l'acquisizione dei tabulati, perché è in quel momento che occorre presentare l'istanza di autorizzazione alla Camera o al Senato. Nella specie, perciò, di fronte alle risultanze investigative desumibili dalle registrazioni rinvenute nelle rubriche e nelle memorie dei cellulari sequestrati al Saladino, le quali abbinavano le utenze a nomi di parlamentari, e dato il contesto in cui si svolgeva l'indagine, l'autorità giudiziaria avrebbe dovuto o chiedere l'autorizzazione alle Assemblee competenti per ciascun deputato o senatore oppure compiere accertamenti per escludere affidabilmente l'eventualità dell'accesso nella sfera delle comunicazioni di uno o più membri del Parlamento. Ma, in ogni caso, non avrebbe potuto disporre l'acquisizione dei tabulati, senza il preventivo permesso dell'Istituzione, e proprio sul presupposto di quanto appreso dalle perquisizioni effettuate nei confronti del Saladino. In questo senso, del resto, è l'indicazione offerta dalla giurisprudenza costituzionale in tema di perquisizioni domiciliari: di fronte all'allegazione non implausibile che un luogo costituisce domicilio di un parlamentare, divergente dall'esito di precedenti accertamenti, si è ritenuto che l'Autorità giudiziaria non avrebbe potuto procedere alla perquisizione, ma avrebbe dovuto o sospendere le attività e chiedere alla Camera di appartenenza la necessaria autorizzazione o comunque compiere specifici accertamenti sulla veridicità dell'allegazione (così Corte cost. n. 58 del 2004).

All'esito di questa precisazione, corretta è la conclusione dei giudici di merito secondo cui le attività dirette all'acquisizione dei tabulati di comunicazioni relativi alle utenze indicate nei capi di imputazione furono compiute in violazione di legge, e precisamente in violazione dell'art. 4 della l. n. 140 del 2003.

7.4. Quanto poi alla ascrivibilità obiettiva al Genchi della descritta attività svolta in violazione di legge, è sufficiente osservare che i provvedimenti di acquisizione dei tabulati adottati dal De Magistris quale sostituto procuratore della Repubblica risultano emessi sulla base delle indicazioni, e specificamente delle «Relazioni» predisposte dal primo, nella sua veste di consulente tecnico del pubblico ministero.

La condotta del Genchi, quindi, da un punto di vista materiale, e per come ricostruita dai giudici di merito, è qualificabile come quella del determinatore, o quanto meno dell'ausiliatore della condotta del magistrato inquirente De Magistris nell'aver disposto l'acquisizione dei tabulati riferibili ai membri del Parlamento senza preventiva autorizzazione delle Camere di appartenenza, ed è quindi riconducibile, almeno sotto il profilo oggettivo, alla figura del concorrente ex art. 110 c.p.

Deve anzi aggiungersi che, così come contestato nelle imputazioni, una ulteriore condotta in violazione di legge attribuibile, almeno sotto il profilo obiettivo, al ricorrente, eventualmente anche in via autonoma rispetto al magistrato, è quella di aver elaborato i tabulati di comunicazioni acquisiti senza autorizzazione e riferibili a parlamentari, quale consulente tecnico del pubblico ministero, e, quindi, quale pubblico ufficiale (cfr., in particolare, sulla qualifica spettante al consulente tecnico del pubblico ministero, Sez. 6, n. 4062 del 7 gennaio 1999, Pizzicaroli, Rv. 214142, nonché Sez. 6, n. 2675 del 5 dicembre 1995, dep. 1996, Tauzilli, Rv. 204516). In effetti, la garanzia prevista dall'art. 68, terzo comma, Cost., come ha rilevato la citata giurisprudenza costituzionale, è strumentale alla salvaguardia delle funzioni parlamentari da «indebite invadenze del potere giudiziario», e la previsione posta dall'art. 4 della l. n. 140 del 2003 ne costituisce disciplina di attuazione: essa, pertanto, non ha natura meramente procedimentale, ma finalità di tipo sostanziale; se si vuole, una ulteriore conferma di questa conclusione deriva dalla disciplina posta nell'art. 6 della medesima legge che, relativamente alle intercettazioni "casuali" di parlamentari fisiologicamente già effettuate, prevede, nel caso di diniego di autorizzazione della Camera competente, non semplicemente l'inutilizzabilità dei verbali, delle registrazioni e dei tabulati di comunicazioni, ma anche l'obbligo di immediata distruzione di essi. Di conseguenza, deve ritenersi che la disposizione di cui all'art. 4 della l. n. 140 del 2003, nel dettare le regole da seguire per chiedere l'autorizzazione all'Assemblea parlamentare ad acquisire i tabulati di conversazioni (o a compiere ispezioni o perquisizioni o intercettazioni), presuppone implicitamente, ma inequivocabilmente, che questa documentazione, in difetto del previo assenso della Camera competente, non possa essere in alcun modo acquisita, e quindi nemmeno sottoposta a verifica, analisi o elaborazione, nell'ambito di un procedimento penale, da parte dell'Autorità giudiziaria o di chi collabora con la stessa.

8. La seconda questione, concernente la configurabilità del danno ingiusto quale effetto della condotta concorrente del Genchi e del De Magistris, è anch'essa priva di fondamento.

8.1. È utile premettere che la sentenza impugnata, in linea con quella di primo grado, ha ritenuto che sono stati acquisiti ed esaminati nell'ambito del procedimento Why not dal De Magistris quale sostituto procuratore della Repubblica titolare del procedimento, e dal Genchi, quale consulente tecnico del magistrato inquirente, i tabulati di comunicazioni riferibili a tutti i parlamentari indicati nelle imputazioni, e quindi anche quelli indicati con riferimento al Pisanu, al Rutelli, al Pittelli ed al Gozi, diversamente da quanto contestato nel ricorso del Genchi.

Per la precisione, la Corte di appello di Roma, alle pag. 101 e 102 della motivazione, evidenzia che: a) i dati riferibili al senatore Pisanu provenienti dalla TIM furono inseriti nel sistema TESEO elaborato dal Genchi a partire dal 19 maggio 2007 e fino al 24 settembre 2007; b) i dati riferibili al senatore Gentile provenienti dalla TIM furono inseriti nel sistema TESEO il 15 giugno 2007; c) i dati riferibili ai parlamentari Gozi, Prodi, Mastella e Minniti provenienti dalla TIM furono inseriti nel sistema TESEO il 16 giugno 2007; d) i dati riferibili al deputato Rutelli provenienti dalla TIM furono inseriti nel sistema TESEO il 17 giugno 2007; e) i dati riferibili al deputato Prodi provenienti dalla OMNITEL/VODAFONE furono inseriti nel sistema TESEO il 30 aprile 2007; f) i dati riferibili ai parlamentari Mastella, Gentile e Minniti provenienti dalla OMNITEL/VODAFONE furono inseriti nel sistema TESEO il 17 maggio 2007; g) i dati riferibili al deputato Rutelli provenienti dalla OMNITEL/VODAFONE furono inseriti nel sistema TESEO il 18 maggio 2007; h) i dati riferibili al deputato Mastella provenienti dalla WIND furono inseriti nel sistema TESEO il 27 aprile 2007; i) i dati riferibili al deputato Prodi provenienti dalla WIND furono inseriti nel sistema TESEO il 10 maggio 2007; l) i dati riferibili al deputato Minniti provenienti dalla WIND furono inseriti nel sistema TESEO il 17 maggio 2007; m) i dati riferibili al deputato Rutelli provenienti dalla WIND furono inseriti nel sistema TESEO il 18 maggio 2007; n) i dati riferibili al deputato Prodi provenienti dalla H3G furono inseriti nel sistema TESEO il 10 maggio 2007; o) i dati riferibili al deputato Rutelli provenienti dalla H3G furono inseriti nel sistema TESEO il 20 maggio 2007; p) i dati riferibili al parlamentare Pittelli, acquisiti nell'ambito di diverso procedimento, furono elaborati e trattati nel procedimento Why not, come risulta dalla relazione n. 8 del Genchi datata 9 luglio 2007.

A fronte di questa ricostruzione, le critiche formulate nel ricorso del Genchi non deducono un travisamento del fatto, né allegano elementi dai quali tale travisamento potrebbe desumersi. Di conseguenza, non può essere posta in discussione l'affermazione della Corte di appello che, in linea con quanto già ritenuto dal Tribunale, ha reputato avvenuta l'acquisizione agli atti del procedimento denominato Why not, in quel momento nella titolarità del De Magistris, dei tabulati di comunicazioni riferibili a tutti i parlamentari indicati nelle imputazioni, nonché la successiva elaborazione dei dati risultanti da tale documentazione.

8.2. Deve quindi essere esaminata la questione se l'acquisizione, elaborazione e trattazione dei tabulati di comunicazioni relative alle utenze dei parlamentari indicati abbia prodotto un ingiusto danno per gli stessi; danno che, per la contestazione, sarebbe identificabile nella conoscibilità di dati esterni di traffico telefonico riferibile ai predetti deputati e senatori in assenza di vaglio ed autorizzazione preventivi delle Camere di appartenenza.

8.3. Secondo la costante elaborazione della giurisprudenza di legittimità, danno ingiusto rilevante ai fini della configurabilità del reato di abuso di ufficio è anche il danno che attiene alla sfera dei diritti o anche solo degli interessi non patrimoniali di un soggetto: più volte, infatti, si è ritenuto che tale elemento fosse integrato dall'aggressione ingiusta alla sfera della personalità per come tutelata dai principi costituzionali (cfr.: Sez. 5, n. 32023 del 19 febbraio 2014, Omodeo Zorini, Rv. 261899; Sez. 6, 4945 del 15 gennaio 2004, Ottaviano, Rv. 227281; Sez. 6, n. 11549 del 2 ottobre 1998, Arcidiacono, Rv. 213032). Ciò, in particolare, anche quando detta aggressione fosse derivante dall'esercizio indebito di poteri investigativi (v., specificamente, Sez. 5, cit., nonché Sez. 6, n. 35127 del 26 giugno 2003, Ippolito, Rv. 226548, e Sez. 6, Arcidiacono, cit.) o coercitivi (v. Sez. 6, n. 9970 del 4 febbraio 2003, Poletti Walter, Rv. 223973, nonché Sez. 5, n. 3684 del 9 febbraio 1999, Cofrancesco, Rv. 213317); in un'occasione, inoltre, il danno ingiusto è stato individuato, quale danno non patrimoniale, nell'impedimento all'esercizio del diritto di accesso a documenti amministrativi al fine dell'eventuale esperimento di iniziative a tutela degli interessi di un candidato ad un incarico dirigenziale nella P.A. (così Sez. 6, n. 729 del 1° dicembre 2003, dep. 2004, Tessitore, Rv. 228269).

Muovendo da questa prospettiva, il danno ingiusto, quale elemento costitutivo del reato di abuso di ufficio, può essere costituito anche dalla lesione delle prerogative parlamentari, compiuta mediante l'adozione di un provvedimento di acquisizione, agli atti di un procedimento penale, di dati ottenuti in violazione delle guarentigie riconosciute al membro del Parlamento, ovvero mediante l'elaborazione di tali dati, illegittimamente acquisiti, da parte del magistrato o di un suo collaboratore.

In particolare, i due eventi appena indicati, pur non comportando un danno patrimoniale, si presentano come ingiusti perché immediatamente lesivi della sfera di prerogative attribuite dalla Costituzione al parlamentare non uti singulus, ma quale membro dell'Assemblea, a tutela della sua libertà da interferenze in ordine allo svolgimento del mandato elettivo, e, quindi, da condizionamenti e pressioni incidenti sulla autonoma esplicazione della sua attività istituzionale che provengano da indebite invadenze del potere giudiziario (la funzione delle garanzie previste dall'art. 68 Cost. quale strumento diretto a «preservare la funzionalità, l'integrità di composizione (nel caso delle misure de libertate) e la piena autonomia decisionale [della Istituzione parlamentare], rispetto ad indebite invadenze del potere giudiziario» è sottolineata da Corte cost. n. 390 del 2007).

È indicativo, del resto, che nella giurisprudenza costituzionale, si è ritenuto immediatamente lesivo delle prerogative del parlamentare, quale componente dell'Assemblea, anche «il solo fatto che una perquisizione sia disposta o eseguita nel domicilio di un parlamentare senza autorizzazione della Camera di appartenenza», e che tale accadimento sia stato considerato di per sé sufficiente a legittimare la proposizione di un conflitto di attribuzioni nei confronti dell'Autorità giudiziaria da parte della Camera cui apparteneva il deputato interessato dall'attività coercitiva indicata (cfr. Corte cost., sent. n. 58 del 2004).

In questa prospettiva, infine, il danno ingiusto evidenziato, costituito dalla lesione delle prerogative parlamentari, conserva una sua autonomia rispetto alla condotta illegittima, ponendosi come l'effetto ed il risultato offensivo di quest'ultima, e, quindi, assume chiaramente natura di evento causalmente determinato dalla seconda, sia pure configurandosi quale evento giuridico. Resta così rispettato anche il requisito della cd. "doppia ingiustizia", che postula una distinta ed autonoma valutazione della illegalità della condotta e della antigiuridicità del danno (o del vantaggio patrimoniale), ma non richiede che quest'ultima derivi da una violazione di legge o di regolamento diversa da quella inficiante la condotta.

9. La terza questione di carattere generale formulata nel ricorso del Genchi, e precisamente nel quarto motivo, attiene alla (non) configurabilità dell'elemento materiale del reato di abuso di ufficio allorché difetti la coscienza e volontà di arrecare un danno ingiusto alle persone offese.

La questione è infondata.

La tesi, pure prospettata da qualche voce in dottrina, secondo cui nella fattispecie di abuso di ufficio vi è una forte compenetrazione tra elemento materiale ed elemento psicologico, sicché di "abuso" non può in alcun modo parlarsi se non emerge una dimensione volitiva dell'agente diretta contra ius, non evidenzia elementi tali da consentire di distinguere detta fattispecie (ed eventualmente altre fattispecie ad essa assimilabili) da tutte le altre fattispecie incriminatrici da un punto di vista della teoria generale del reato, sì da individuare un'eccezione alla concezione bipartita o tripartita di questo. Si può anzi aggiungere che proprio il testo vigente dell'art. 323 c.p. non impiega più nemmeno il termine "abuso" nel costruire la fattispecie, ma descrive, con segni linguistici dai contenuti definiti, una condotta ed un evento obiettivamente percepibili indipendentemente dalla componente rappresentativa e volitiva che la deve sorreggere.

9.1. La conclusione appena indicata, ed il contenuto della pronuncia assolutoria emessa dalla Corte d'appello, fondata sulla insussistenza dell'elemento psicologico normativamente richiesto, esimono il Collegio dal dovere di procedere ad un'analisi delle censure di illogicità della motivazione contenute diffusamente nel quarto motivo di ricorso e nella memoria depositata il 5 settembre 2016.

Se, infatti, la sentenza assolutoria ha escluso la sussistenza dell'elemento soggettivo del reato di abuso di ufficio, le censure e le argomentazioni dirette ad evidenziare la mancanza dell'elemento psicologico in capo all'imputato di operare contra ius sono irrilevanti, perché non potrebbero implicare una modifica della formula assolutoria. Può premettersi, in proposito, che, secondo l'orientamento assolutamente maggioritario della giurisprudenza di legittimità, deve escludersi l'interesse dell'imputato ad impugnare una sentenza assolutoria pronunciata a norma dell'art. 530, comma 2, c.p.p. anche perché l'interesse all'impugnazione non può risolversi in una pretesa, meramente teorica ed astratta, all'esattezza giuridica della pronuncia o, comunque, tale da non condurre ad alcuna modifica degli effetti del provvedimento (così, tra le più recenti, Sez. 5, n. 49580 del 26 settembre 2014, Rosa, Rv. 261341, e Sez. 3, n. 23485 del 7 marzo 2014, U., Rv. 260082, nonché, in precedenza, anche Sez. un., n. 2110 del 23 novembre 1995, dep. 1996, Fachini, Rv. 203762). È plausibile osservare, di conseguenza, che le ragioni poste a base dell'orientamento appena riferito - esplicitate da Sez. un., Fachini, cit., nel rilievo secondo cui l'impugnazione si configura come un rimedio a disposizione della parte per la tutela di posizioni soggettive giuridicamente rilevanti, e non già di interessi di mero fatto, non apprezzabili dall'ordinamento giuridico - presentano una efficacia persuasiva ancora maggiore quando, come nel caso di specie, l'impugnazione non può determinare né il mutamento della formula assolutoria, né il riferimento al primo o al secondo comma dell'art. 530 c.p.p., e si dirige esclusivamente verso la motivazione.

9.2. Ovviamente, però, in considerazione dell'esito di annullamento con rinvio del presente giudizio con riferimento al punto della sussistenza o meno dell'elemento psicologico del reato, gli argomenti esposti nel ricorso e nella memoria del Genchi per escludere la sua volontà di arrecare un danno ingiusto mentre poneva in essere le condotte ascrittegli potranno essere compiutamente ripresentati davanti al giudice di merito ai fini della decisione rimessa alla sua cognizione in sede di rinvio.

10. Infondata, infine, è anche l'ulteriore questione dedotta nel ricorso del Genchi, e precisamente nel terzo motivo, avendo riguardo alla assoluzione con la formula «perché il fatto non costituisce reato», invece che con quella «perché il fatto non sussiste» in ordine all'imputazione formulata relativamente all'acquisizione delle utenze ritenute riferibili al senatore Pisanu, sul rilievo che per queste ultime non vi è prova di tale riferibilità.

Invero, occorre rilevare che l'adozione, da parte di un magistrato inquirente, di un illegittimo provvedimento acquisitivo di tabulati di comunicazioni riferibili ad un parlamentare alla luce dei dati esistenti in quel momento agli atti di indagine costituisce, di per sé, comportamento idoneo ad integrare, sotto il profilo obiettivo, quanto meno la condotta di tentativo di abuso di ufficio (per la configurabilità del tentativo del reato di cui all'art. 323 c.p., cfr. Sez. 6, n. 26617 del 1° aprile 2009, Masella, Rv. 244465, nonché Sez. 6, n. 10136 del 24 giugno 1998, Ottaviano, Rv. 211567). È evidente, infatti, che l'attività in questione consiste in un atto di indagine, per ripetere le parole della Corte costituzionale nella sentenza n. 390 del 2007, «volto, in concreto, ad accedere nella sfera delle comunicazioni del parlamentare», indipendentemente dalla «titolarità o [...] disponibilità dell'utenza captata», e, quindi, determina la lesione immediata delle prerogative parlamentari nonché l'acquisizione agli atti di un procedimento penale di dati ottenuti in violazione delle guarentigie riconosciute al membro del Parlamento, quale componente dell'Istituzione, anche se eventualmente risultati ex post allo stesso non riferibili.

Nella fattispecie in esame, secondo quanto emerge dalla sentenza di primo grado (cfr. pagg. 9-15), non contrastata sul punto da quella di appello, le utenze in questione erano indicate come riferibili a Giuseppe Pisanu nell'agenda cartacea sequestrata al Saladino, ed erano state oggetto della richiesta di acquisizione da parte del Genchi al De Magistris nella Relazione n. 1 proprio sulla base di queste risultanze documentali; inoltre, il Ministro Giuseppe Pisanu, agli atti del procedimento cd. "Why not", risultava essere in rapporti con il Saladino, in ragione di conversazioni intercettate intercorse tra quest'ultimo ed il segretario particolare del primo. Di conseguenza, il provvedimento di acquisizione dei tabulati di comunicazioni relative alle predette utenze, sotto il profilo obiettivo, non poteva essere legittimamente adottato senza preventiva autorizzazione da parte dell'Assemblea di appartenenza del Pisanu.

Ne discende, allora, che le attività dirette all'acquisizione delle utenze ritenute riferibili al senatore Pisanu, in quanto immediatamente lesive delle prerogative parlamentari, non risultano, sotto il profilo oggettivo, penalmente irrilevanti, quanto meno in relazione alla fattispecie derivante dalla combinazione tra l'art. 56 e l'art. 323 c.p., ferma restando la necessità di accertare anche la sussistenza dell'elemento psicologico normativamente richiesto per poter ravvisare la compiuta integrazione di tale reato e, quindi, in caso di verifica negativa o insufficiente in ordine a quest'ultimo, la legittimità di una pronuncia assolutoria con la formula «perché il fatto non costituisce reato».

11. I ricorsi delle parti civili Sandro Gozi, Clemente Mastella e Francesco Rutelli sono fondati nella parte in cui lamentano vizio di motivazione della sentenza impugnata relativamente agli elementi indicati nella decisione di primo grado e nelle memorie da essi ricorrenti presentate nel corso del giudizio di appello.

Sono invece infondati laddove contestano, come nel ricorso presentato dal Gozi, l'ammissibilità di una decisione assolutoria nel merito in presenza di elementi contraddittori, nonostante il reato fosse già prescritto, o comunque richiedono alcune precisazioni laddove criticano, come nei ricorsi del Mastella e del Rutelli, l'affermazione di insufficienza del dolo eventuale rispetto alla violazione di legge.

12. La questione relativa alla inammissibilità dell'adozione di una sentenza assolutoria nel merito da parte del giudice di appello, in riforma di diversa pronuncia da parte del giudice di primo grado, quando non ricorrano i presupposti di evidenza della prova di cui all'art. 129, comma 2, c.p.p., sollevata nella prima parte del primo motivo del ricorso del Gozi, è infondata, perché detto limite ai poteri di cognizione (e di decisione) del giudice, previsto per esigenze di economia processuale, non può operare in danno dell'imputato quando occorre decidere in relazione ai medesimi capi della sentenza ai fini degli effetti civili.

Costituisce, infatti, principio consolidato, e che il Collegio condivide, quello secondo cui, all'esito del giudizio, il proscioglimento nel merito, in caso di contraddittorietà o insufficienza della prova, prevale rispetto alla dichiarazione immediata di una causa di non punibilità, quando, in sede di appello, sopravvenuta una causa estintiva del reato, il giudice sia chiamato a valutare, per la presenza della parte civile, il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili (così per tutte, Sez. un., n. 35490 del 28 maggio 2009, Tettamanti, Rv. 244273, nonché, tra le tante successive, Sez. 6, n. 16155 del 20 marzo 2013, Galati, Rv. 255666).

13. La questione relativa alla sufficienza del dolo eventuale in ordine alla violazione di legge nel reato di abuso di ufficio, formulata nella parte finale del primo motivo del ricorso del Mastella e nel secondo motivo del ricorso del Rutelli, è infondata nei termini che si preciseranno, almeno quando, come nella vicenda in esame, l'ingiustizia del danno è l'effetto della violazione di legge.

13.1. È doveroso premettere che alcune decisioni della giurisprudenza di legittimità ricostruiscono il dolo, nella fattispecie di abuso di ufficio, come elemento psicologico a struttura articolata, in quanto generico con riferimento alla condotta, e precisamente alla coscienza e volontà di violare norme di legge o di regolamento ovvero di trasgredire l'obbligo di astensione, ed intenzionale rispetto all'evento, e segnatamente al danno o vantaggio patrimoniale ingiusti (così, Sez. 2, n. 23019 del 5 maggio 2015, Adamo, Rv. 264280, e Sez. 6, n. 34116 del 20 aprile 2011, Cuffaro, Rv. 250833).

L'affermazione secondo cui la condotta nel reato di abuso di ufficio costituisce oggetto di dolo generico potrebbe costituire la premessa per concludere che, in relazione alla violazione di legge connotante la condotta, sarebbe sufficiente il dolo eventuale.

L'assunto in questione, però, risulta problematico allorché l'ingiustizia del danno (o del vantaggio patrimoniale) si ponga come l'effetto sostanziale della violazione di legge o di regolamento. Invero, in tanto si può affermare la sussistenza dell'intenzionalità del danno ingiusto (o del vantaggio patrimoniale ingiusto), in quanto l'agente abbia commesso il fatto nella consapevolezza della contrarietà all'ordinamento giuridico del risultato cui è finalizzata la sua condotta. Certamente, ciò non significa attribuire rilevanza all'error iuris, posto che, secondo un principio consolidato in giurisprudenza, le disposizioni legislative disciplinanti l'operato e i doveri delle varie tipologie di pubblici ufficiali o incaricati di pubblici servizi non hanno natura di norme extrapenali, siccome l'art. 323 c.p., obbligando al rispetto delle leggi e dei regolamenti nell'esercizio del pubblico ufficio, recepisce le regole riguardanti l'attività dei singoli pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio (così, Sez. 6, n. 7817 del 18 novembre 1998, dep. 1999, Benanti, Rv. 214730, e Sez. 6, n. 5117 del 19 dicembre 2000, dep. 2001, Aliberti, Rv. 217862, nonché, in motivazione, Sez. 6, n. 35813 del 21 giugno 2007, Bensi, Rv. 237767; nello stesso senso, recentemente, per l'affermazione del medesimo principio con riferimento alla fattispecie di omissione di atti di ufficio, v. Sez. 6, n. 25941 del 31 marzo 2015, Ceppaglia, Rv. 263808). Tuttavia, non può essere in discussione la necessità della conoscenza, da parte dell'agente, nel momento in cui si attiva contra legem, dell'esistenza dei presupposti di fatto da cui dipende l'applicazione della norma trasgredita, in quanto indefettibile presupposto dell'intenzione di procurare un danno o un vantaggio patrimoniale ingiusti. Ed infatti, quando la contrarietà del fatto di danno o di vantaggio ai valori dell'ordinamento giuridico discende dai principi espressi dalla disposizione violata dall'agente con la sua condotta, la situazione di dubbio in ordine all'esistenza dei presupposti fattuali fondanti il dovere giuridico trasgredito diventa logicamente incompatibile con l'intenzione di procurare un danno (o un vantaggio patrimoniale) ingiusto: in questo caso, il dubbio sulla correttezza della condotta si trasferisce sulla "ingiustizia" dell'evento, e, da un punto di vista psicologico prima ancora che normativo, colui che abbia agito nel dubbio se il risultato avuto di mira fosse o non fosse contra ius non può dirsi abbia «intenzionalmente» procurato un danno o un vantaggio patrimoniale ingiusto.

13.2. In applicazione di questi principi, pertanto, nella vicenda in esame, in cui l'evento di danno, e cioè la lesione delle prerogative parlamentari delle parti civili ricorrenti, costituisce l'effetto della violazione di legge, ai fini della sussistenza dell'elemento soggettivo del reato di abuso di ufficio non è sufficiente il dolo eventuale in ordine all'esistenza dei presupposti di fatto da cui deriva l'obbligo giuridico da rispettare al momento della condotta.

Tuttavia, siccome, per quanto evidenziato in precedenza, ai fini della violazione di quanto prescrive l'art. 4 della l. n. 140 del 2003, non è necessario che il magistrato o il suo collaboratore, allorché dispongono l'acquisizione dei tabulati o elaborano i dati in assenza di autorizzazione dell'Assemblea competente, abbiano la certezza che le utenze siano di pertinenza dei parlamentari, ma più limitatamente che gli stessi, alla luce degli atti di indagine esistenti al momento della condotta, abbiano la consapevolezza di accedere nella sfera di comunicazione di deputati o senatori, a prescindere dal fatto che il procedimento riguardi terzi o che le utenze sottoposte a controllo appartengano a terzi, oggetto della rappresentazione da parte dei soggetti agenti deve essere questa seconda situazione di fatto.

Resta ferma, ovviamente, ed inoltre, la necessità di accertare l'intenzionalità del danno ingiusto.

14. Tenendo conto di queste precisazioni, i ricorsi delle parti civili Sandro Gozi, Clemente Mastella e Francesco Rutelli sono fondati laddove censurano la sentenza impugnata per aver escluso la sussistenza dell'elemento psicologico del reato di abuso di ufficio senza essersi in alcun modo confrontata in motivazione con gli elementi indicati, innanzitutto, nella decisione di primo grado a supporto dell'affermazione di responsabilità penale degli imputati e, poi anche, nelle memorie da essi ricorrenti presentate nel corso del giudizio di appello.

14.1. Costituisce principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità quello secondo cui il giudice di appello che riformi la decisione di condanna pronunciata in primo grado, pervenendo a una sentenza di assoluzione, deve, sulla base di uno sviluppo argomentativo che si confronti con le ragioni addotte a sostegno del decisum impugnato, metterne in luce le carenze o le aporie, che ne giustificano l'integrale riforma (così, tra le tante, Sez. 2, n. 50643 del 18 novembre 2014, Fu, Rv. 261327), ed, anzi, non può limitarsi ad inserire nella struttura argomentativa della decisione impugnata, genericamente richiamata, delle notazioni critiche di dissenso, essendo, invece, necessario che egli riesamini, sia pure in sintesi, il materiale probatorio vagliato dal primo giudice, considerando quello eventualmente sfuggito alla sua valutazione e quello ulteriormente acquisito, per dare, riguardo alle parti della prima sentenza non condivise, una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia ragione delle difformi conclusioni (cfr., in particolare, più di recente, Sez. 6, n. 1253 del 28 novembre 2013, dep. 2014, Ricotta, Rv. 258005, e Sez. 4, n. 35922 dell'11 luglio 2012, Ingrassia, Rv. 254617, ma anche, in precedenza, Sez. un., n. 6682 del 4 febbraio 1992, Musumeci, Rv. 191229).

14.2. La sentenza impugnata ha escluso il dolo del Genchi e del De Magistris innanzitutto affermando la necessità di «postulare che entrambi gli imputati fossero già consapevoli della riconducibilità delle utenze ai parlamentari al momento di richiedere i tabulati delle comunicazioni o al momento della loro elaborazione (Pittelli) e che fossero informati (in particolare per l'on. Sandro Gozi, indicato nominativamente) delle cariche rivestite», atteso che «per talune delle utenze non risultava ancora pervenuta la scheda cd anagrafica degli intestatari e in ogni caso l'intestazione conosciuta/conoscibile non appare compiutamente riferibile a soggetti coperti da guarentigie costituzionali».

Già l'affermazione in premessa è errata perché, come si è precedentemente rilevato, non occorreva, per la sussistenza dell'elemento soggettivo del reato, che vi fosse la certezza assoluta in capo agli imputati della specifica riferibilità delle utenze ai parlamentari: era sufficiente che, al momento in cui disponevano l'acquisizione dei tabulati o elaboravano i dati in assenza di autorizzazione dell'Assemblea competente, il De Magistris ed il Genchi avessero la consapevolezza di accedere nella sfera di comunicazione di deputati o senatori, a prescindere dal fatto che il procedimento riguardasse terzi o che le utenze sottoposte a controllo appartenessero a terzi.

Inoltre, l'assunto secondo cui difettava, in capo agli imputati, la consapevolezza delle riconducibilità delle utenze, per quanto interessa in questa sede, ai parlamentari Gozi, Mastella e Rutelli è il risultato di un'osservazione generica ed indeterminata («per talune delle utenze non risultava ancora pervenuta la scheda cd anagrafica degli intestatari e in ogni caso l'intestazione conosciuta/conoscibile non appare compiutamente riferibile a soggetti coperti da guarentigie costituzionali»), la quale non si confronta in alcun modo con gli elementi esposti nella sentenza di primo grado. In effetti il Tribunale aveva raggiunto le sue conclusioni esponendo ed analizzando in modo dettagliato e puntuale gli elementi relativi a ciascun parlamentare interessato, così come evidenziato nella seconda parte del primo motivo del ricorso del Gozi, nella prima parte del primo motivo del ricorso del Mastella e nel primo motivo del ricorso del Rutelli, e dei quali si è proceduto a sintesi nel ritenuto in fatto della presente sentenza, rispettivamente, ai § 3.1., 4.1. e 5.1.

In applicazione dei principi giurisprudenziali precedentemente indicati, pertanto, la Corte d'appello, prima di ritenere indimostrata o dubbia la consapevolezza delle riconducibilità delle utenze ai membri del Parlamento, e, per questa ragione, di riformare la sentenza del Tribunale, avrebbe dovuto procedere ad una puntuale confutazione degli elementi ed argomenti esposti in contrario dal primo giudice con riferimento a ciascuna posizione, e non poteva certo limitarsi ad una sintetica affermazione di carattere globale. Una specifica evidenziazione della genericità e, quindi, della palese lacunosità delle argomentazioni della sentenza impugnata sul punto è anche direttamente desumibile da affermazioni quali: «non si può sostenere che sia pienamente provato che i due imputati avessero piena contezza che i numeri rinvenuti nelle agende e rubriche del Saladino fossero tutti da ricondurre a soggetti protetti dal Parlamento»; come se oggetto della prova fosse la situazione globale di tutti gli interessati e non la situazione concernente ciascun singolo membro del Parlamento, in quanto individualmente titolare delle prerogative dirette alla salvaguardia del libero esercizio della funzione parlamentare.

D'altro canto, non coerente con le conclusioni raggiunte sul punto in esame appare essere il riconoscimento sull'affidabilità di quanto ritenuto in ordine al medesimo profilo fattuale dal primo giudice, evidenziato dalle parole: «Afferma correttamente il tribunale che la visione unitaria degli indizi passati in rassegna comprova l'intesa raggiunta e la messa in atto di una violazione comune e consapevole delle disposizioni di legge». Né viene spiegato perché «il procedimento di selezione [delle utenze] sembra aver al contrario cercato di colpire specificamente eventuali stretti collaboratori dei parlamentari stessi» (ferma restando, poi, la non risolutività di questa osservazione, atteso che, per quanto detto in precedenza, ciò che conta è la consapevolezza di accedere nella sfera di comunicazione di deputati o senatori, a prescindere dal fatto che il procedimento riguardi terzi o che le utenze sottoposte a controllo appartengano a terzi).

14.3. Rilevato il difetto di motivazione circa l'affermazione del dubbio in ordine alla consapevolezza, in capo agli imputati, dei presupposti che imponevano di richiedere alle Camere l'autorizzazione all'acquisizione dei tabulati di comunicazioni relativi alle utenze indicate nei capi di imputazione, viene meno il presupposto sul quale si poggia l'affermazione della insussistenza del dolo intenzionale.

In particolare, se si ritenesse provata, al di là del ragionevole dubbio, la piena consapevolezza degli imputati circa la riconducibilità ad uno solo dei tre ricorrenti di una sola delle utenze indicate nella imputazioni, nel momento in cui fu disposta l'acquisizione dei tabulati senza autorizzazione della Camera di appartenenza, o nel momento in cui vi fu l'elaborazione dei dati indebitamente appresi, diverse potrebbero essere le conclusioni del giudice di merito anche in ordine al dolo intenzionale del danno ingiusto, almeno con riferimento ad una singola contestazione.

È doveroso precisare, però, che l'affermazione che precede è compiuta al solo fine di evidenziare la necessità dell'annullamento della sentenza impugnata, in considerazione dei possibili esiti decisori, ma non implica alcun vincolo nella valutazione degli elementi di prova da parte del giudice del rinvio, il quale procederà al giudizio istituzionalmente a lui riservato alla luce di tutto il materiale istruttorio disponibile anche con riferimento alla verifica della sussistenza o insussistenza del dolo specifico.

15. In conclusione, la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente ai capi B), D) e G) della rubrica, con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, affinché accerti, agli effetti civili, se sussista l'elemento psicologico dei reati in contestazione, mentre il ricorso del Genchi, per l'infondatezza dei motivi addotti, deve essere rigettato, con condanna dello stesso al pagamento delle spese processuali.

L'annullamento deve essere disposto con rinvio al giudice civile, atteso il decorso del termine di prescrizione del reato, il cui dies a quo deve essere collocato nel mese di ottobre 2007, conformemente a quanto osservato dalla Corte di appello di Roma, rilevando che in quel mese è stata avocata l'indagine dalla Procura generale della Repubblica presso la Corte d'appello di Catanzaro e revocato l'incarico di consulenza al Genchi.

L'annullamento con rinvio preclude anche la liquidazione delle spese del presente grado di giudizio in favore delle parti civili: sarà il giudice del rinvio a provvedervi, in considerazione dell'esito della decisione che assumerà sul merito della regiudicanda.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente ai capi B, D e G della rubrica e rinvia per nuovo giudizio al giudice civile competente per valore in grado di appello.

Rigetta il ricorso di Genchi Gioacchino che condanna al pagamento delle spese del procedimento.

Depositata il 22 novembre 2016.