Corte di cassazione
Sezione VI civile
Sentenza 16 marzo 2017, n. 6865

Presidente: Petitti - Estensore: Manna

IN FATTO

Con decreto del 21 luglio 2015 la Corte d'appello di Bari rigettava l'opposizione ex art. 5-ter l. n. 89/2001 proposta (insieme con altri) da Francesco M. contro il decreto monocratico che, respingendo la domanda di equa riparazione, aveva condannato il predetto ricorrente a pagare alla cassa delle ammende la somma di Euro 3.400,00 ai sensi dell'art. 5-quater stessa legge. A base della decisione la circostanza che la domanda non era stata preceduta dalla presentazione dell'istanza di prelievo nel processo amministrativo presupposto, ai sensi dell'art. 54 d.l. n. 112/2008 e successive modificazioni, e che al tempo della proposizione del ricorso non vi era più alcuna incertezza su tale adempimento e sulla sua non fungibilità rispetto all'istanza di fissazione dell'udienza.

Per la cassazione di tale decreto Francesco M. propone ricorso, affidato ad un motivo, successivamente illustrato da memoria.

Il Ministero dell'Economia e delle Finanze resiste con controricorso.

Il Collegio ha disposto che la motivazione della presente sentenza sia redatta in forma semplificata.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. L'unico motivo di ricorso denuncia la violazione o falsa applicazione dell'art. 5-quater l. n. 89/2001, l'esorbitanza della somma liquidata ed eccepisce l'illegittimità costituzionale di tale norma per violazione degli artt. 3, 24, 111, 2° comma, e 117 Cost., in relazione agli artt. 6, par. 1, e 13 CEDU, poiché introduce una sanzione che finisce per incidere negativamente sull'effettività della tutela giurisdizionale e per svuotare la relativa gratuità, prevista per i procedimenti d'equa riparazione dall'art. 10, comma 1, d.P.R. n. 115/2002.

2. Il motivo e la sottesa questione d'illegittimità costituzionale sono manifestamente infondati.

Sia con sentenza Cass. n. 7326/2015, non massimata, che con sentenza n. 5433/2016 questa Corte ha avuto modo di affrontare la questione di legittimità costituzionale dell'art. 5-quater l. n. 89/2001, risolvendola in senso negativo, per le considerazioni che (tratte da Cass. n. 5433/2016) vale riprodurre come segue: «(o)ccorre premettere che (...) detta norma non prevede alcun automatismo tra declaratoria d'inammissibilità o rigetto della domanda per manifesta infondatezza ed applicazione della sanzione, che rientra invece nella discrezionalità valutativa del giudice di merito, come dimostra l'uso del verbo servile ("... può") nel testo della disposizione. Ciò chiarito, è indiscutibile che la prevista possibilità di una sanzione processuale svolga una funzione deterrente, scoraggiando l'uso distorto o incauto dell'istanza indennitaria. Ma tale effetto dissuasivo è del tutto compatibile con i parametri costituzionali e, in particolare, con il principio di effettività della tutela giurisdizionale. L'uguale ed indiscriminato accesso a qualsivoglia pretesa, quantunque azzardata o altrimenti priva di chance di accoglimento, non è priva di costi sociali, poiché si traduce in un aggravio della funzione giurisdizionale a danno di chi, con maggiori prospettive di fondatezza, ne ha realmente bisogno. Né la parte può opporre una visione atomizzata del proprio interesse particolare, scissa dai doveri di solidarietà sociale che, pure, la Costituzione pone al centro del vivere comune (art. 2 Cost.). Si consideri, infatti, che il costo della funzione giurisdizionale è sostenuto in buona misura dalla collettività e ripartito al suo interno anche a carico di chi non vi ricorra; sicché, in definitiva, proprio la garanzia di effettività della tutela ben può richiedere, in un contesto socio-politico che è compito del solo legislatore apprezzare, misure volte a ridurre il rischio dell'abuso del processo. Se ne trae conferma proprio dal precedente di Corte cost. n. 186/2000, invocato da parte ricorrente, che nel pronunciarsi sull'analogo strumento sanzionatorio e deflattivo previsto dall'art. 616 c.p.p., ne ha dichiarato l'illegittimità costituzionale nella parte in cui non prevede che la Corte di Cassazione, in caso di inammissibilità del ricorso, possa non pronunciare la condanna in favore della cassa delle ammende, a carico della parte privata che abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità. Con il che, per contro, resta confermata la generale legittimità di sanzioni volte a reprimere l'uso colposo del mezzo processuale».

Ritiene il Collegio di assicurare continuità a tale indirizzo, verso il quale le argomentazioni di parte ricorrente non contengono sostanziali elementi di novità idonei a indurre una soluzione di segno diverso.

Quanto, poi, alla lamentata esorbitanza della sanzione, non può che rilevarsi che la liquidazione operata (Euro 3.400,00) è inclusa nel campo di variazione previsto dalla norma, è motivata espressamente nell'an e nel quantum debeatur (un terzo della pretesa avanzata) e non è, pertanto, sindacabile ai sensi dell'art. 360, n. 5, c.p.c.

3. Il ricorso va dunque respinto.

4. Seguono le spese, liquidate come in dispositivo.

5. Rilevato che dagli atti il processo risulta esente dal pagamento del contributo unificato, non si applica l'art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115/2002, inserito dall'art. 1, comma 17, l. n. 228/2012.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese, che liquida in Euro 800,00, oltre spese prenotate e prenotande a debito.