Corte di cassazione
Sezione II civile
Sentenza 27 settembre 2018, n. 23370

Presidente: Petitti - Estensore: Abete

FATTI DI CAUSA

A seguito di accertamenti ispettivi eseguiti presso la "Banca Popolare di Milano" soc. coop. a resp. lim. nel periodo compreso tra il 22 ottobre 2012 ed il 15 maggio 2013 con delibera sanzionatoria n. 260/2014 la "Banca d'Italia" irrogava ai sensi dell'art. 145 del d.lgs. n. 385/1993 (t.u.b.) a Ruggiero C.P., in qualità di componente dal 7 maggio 2012 al 21 dicembre 2013 del consiglio di sorveglianza della "B.P.M.", la sanzione di euro 36.000,00.

Con ricorso notificato il 17 luglio 2014 Ruggiero C.P. proponeva opposizione alla corte d'appello di Roma ai sensi dell'art. 145, 4° comma, t.u.b.

Chiedeva farsi luogo all'annullamento del provvedimento sanzionatorio.

Si costituiva la "Banca d'Italia".

Instava per il rigetto dell'opposizione.

Con decreto n. 4219 del 30 marzo/2 maggio 2016 l'adita corte rigettava l'opposizione e condannava l'opponente a rimborsare a controparte le spese di lite.

Evidenziava la corte che il procedimento sanzionatorio amministrativo postula unicamente che, antecedentemente all'irrogazione della sanzione, si provveda alla contestazione dell'addebito ed alla valutazione delle eventuali controdeduzioni dell'interessato; che dunque a salvaguardia del contraddittorio e del diritto di difesa è sufficiente la possibilità di proporre opposizione avverso il provvedimento finale e di dar corso ad un procedimento giurisdizionale connotato dal principio della "parità delle armi" dinanzi ad un organo decidente terzo ed imparziale.

Evidenziava altresì, in ordine alla addotta violazione dei principi di determinatezza e tipicità, che la contestazione rispondeva alle regole in materia di sanzioni amministrative; che d'altro canto non era stato violato il principio di corrispondenza tra i fatti contestati e quelli sanzionati.

Evidenziava inoltre, in ordine alla ricostruzione dei rapporti tra consiglio di gestione e consiglio di sorveglianza nel sistema "dualistico", che la previsione di cui all'art. 2409-terdecies, 1° comma, lett. f-bis), c.c. non può condurre all'"attribuzione di funzioni gestionali o paragestionali al consiglio di sorveglianza" (così decreto impugnato, pag. 9).

Evidenziava in ogni caso che del tutto ingiustificata doveva reputarsi la presentazione del progetto "Idea", di riforma della società, siccome assolutamente antitetico rispetto a quello sottoposto dal consiglio di gestione all'autorità di vigilanza, espressione dell'indebita assunzione da parte del consiglio di sorveglianza di "poteri di iniziativa in materia di gestione aziendale e assetti di governo della società" (così decreto impugnato, pag. 10); che del pari ingiustificato doveva reputarsi il voto contrario espresso dall'opponente in sede di approvazione del bilancio dell'esercizio 2012.

Avverso tale decreto ha proposto ricorso Ruggiero C.P.; ne ha chiesto sulla scorta di sei motivi la cassazione con ogni conseguente statuizione in ordine alle spese.

La "Banca d'Italia" ha depositato controricorso; ha chiesto rigettarsi l'avverso ricorso con il favore delle spese del giudizio.

Il ricorrente ha depositato memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente denuncia ai sensi dell'art. 360, 1° comma, n. 3, c.p.c. la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 6 e 7 C.E.D.U., dell'art. 24 della l. n. 262/2005, dell'art. 3 della l. n. 241/1990 e dell'art. 1 della l. n. 689/1981, per contrasto della contestazione e del provvedimento sanzionatorio con i principi di determinatezza e tipicità.

Deduce che alla stregua sia della contestazione sia del provvedimento sanzionatorio non è possibile individuare con precisione, in ossequio ai principi di tassatività e determinatezza, né le astratte illecite fattispecie ascrittegli né le concrete condotte poste in essere e a tali astratte fattispecie riconducibili.

Deduce ancora che la violazione dei principi di tassatività e determinatezza rinviene riscontro alla luce del decreto n. 5935/2016, con cui la corte d'appello di Roma ha a tale titolo accolto l'opposizione separatamente proposta avverso il medesimo provvedimento sanzionatorio dal consigliere di sorveglianza Enrico C.

Deduce quindi che ha errato la corte di merito a disconoscere la violazione in parte qua prospettata.

Il primo motivo è destituito di fondamento.

Si premette che al ricorrente è stata contestata la violazione delle disposizioni in materia di organizzazione e governo societario ai sensi degli artt. 53, 1° comma, lett. d), e 144 t.u.b. e della disciplina attuativa della "Banca d'Italia".

Su tale base si osserva quanto segue.

In primo luogo, che, in materia di sanzioni amministrative, il principio di tipicità e di riserva di legge fissato dall'art. 1 della l. n. 689/1981 impedisce che l'illecito amministrativo e la relativa sanzione siano introdotti direttamente da fonti normative secondarie, ma non esclude che i precetti della legge, sufficientemente individuati, siano eterointegrati da norme regolamentari, in virtù della particolare tecnicità della dimensione in cui le fonti secondarie sono destinate ad operare (cfr. Cass. 2 marzo 2016, n. 4114).

In secondo luogo, che contrariamente all'assunto del ricorrente le astratte illecite fattispecie prefigurate a suo carico si definiscono puntualmente alla stregua del dovere di osservanza delle regole poste a presidio della ripartizione delle differenti competenze che si delineano in seno alla governance societaria e dunque a presidio dei principi di corretta gestione societaria.

In terzo luogo, che contrariamente all'assunto del ricorrente i concreti indebiti comportamenti imputatigli si specificano in maniera compiuta nei termini esattamente indicati dalla controricorrente, ossia nei "ripetuti interventi tendenti a condizionare le decisioni del consiglio di gestione in tema di contenimento dei costi (...)" (così controricorso, pag. 8) e nella "presentazione (...) di un progetto di riforma della società (c.d. Idea) in contrapposizione a quello presentato dal consiglio di gestione" (così controricorso, pag. 8).

In quarto luogo, che nelle guise testé menzionate nessun ostacolo si prospetta ai fini della piena riconducibilità dei concreti addebiti alle astratte previsioni.

In conclusione va condiviso il postulato della corte distrettuale secondo cui all'opponente "sono stati contestati fatti precisi, integranti violazione grave e protratta nel tempo di basilari principi dettati dalle disposizioni in materia di organizzazione e governo societario" (così decreto impugnato, pag. 7).

Con il secondo motivo il ricorrente denuncia ai sensi dell'art. 360, 1° comma, n. 3, c.p.c. la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 6 C.E.D.U., degli artt. 24 e 111 Cost., dell'art. 145 t.u.b., dell'art. 24 della l. n. 262/2005, degli artt. 7 e ss. della l. n. 241/1990 e della l. n. 689/1981.

Deduce che la sanzione applicatagli ha senz'altro natura penale alla luce dei criteri enucleati dalla Corte E.D.U., ovvero in considerazione sia del considerevole ammontare del massimo edittale sia dell'attitudine a menomare l'immagine, l'onorabilità ed il prestigio di colui al quale è inflitta.

Deduce altresì che è stato sanzionato all'esito di un procedimento amministrativo nel cui ambito per nulla sono assicurate le essenziali garanzie difensive, ovvero le garanzie del contraddittorio, della separazione tra organi ispettivi e decidenti, della devoluzione della potestas decidendi ad un organo indipendente ed imparziale.

Deduce inoltre che la fase giurisdizionale dinanzi alla corte d'appello non è concretamente idonea a sopperire alle carenti garanzie della fase procedimentale innanzi alla "Banca d'Italia", in particolare e tra l'altro, a causa della immediata esecutività del provvedimento sanzionatorio e della significativa afflittività delle sanzioni irrogabili.

Il secondo motivo è privo di fondamento.

Questa Corte ovviamente non può che reiterare i propri insegnamenti.

Innanzitutto, l'insegnamento secondo cui il procedimento sanzionatorio della Banca d'Italia non viola l'art. 6, par. 1, della Convenzione E.D.U., perché questo esige solo che, ove il procedimento amministrativo sanzionatorio non offra garanzie equiparabili a quelle del processo giurisdizionale, l'incolpato possa sottoporre la questione della fondatezza dell'"accusa penale" a un organo indipendente e imparziale, dotato di piena giurisdizione, come la disciplina nazionale gli consente di fare tramite l'opposizione alla corte d'appello (cfr. Cass. 14 dicembre 2015, n. 25141, debitamente richiamata pur dalla Corte di Roma)

Dipoi, l'insegnamento - seppur concernente la materia dell'intermediazione finanziaria - secondo cui il procedimento di irrogazione di sanzioni amministrative, previsto dall'art. 187-septies del d.lgs. n. 58/1998 (t.u.f.), postula solo che, prima dell'adozione della sanzione, sia effettuata la contestazione dell'addebito e siano valutate le eventuali controdeduzioni dell'interessato; sicché non è violato il principio del contraddittorio nel caso di omessa trasmissione all'interessato delle conclusioni dell'Ufficio sanzioni amministrative della "Consob" o di sua mancata audizione innanzi alla Commissione, non trovando d'altronde applicazione, in tale fase, i principi del diritto di difesa e del giusto processo, riferibili solo al procedimento giurisdizionale (cfr. Cass. 4 settembre 2014, n. 18683, del pari richiamata dalla corte capitolina; Cass. 22 aprile 2016, n. 8210).

Da ultimo, l'insegnamento secondo cui le sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dalla "Banca d'Italia" ai sensi dell'art. 144 t.u.b. per carenze nell'organizzazione e nei controlli interni non sono equiparabili, quanto a tipologia, severità, incidenza patrimoniale e personale, a quelle irrogate dalla "Consob" ai sensi dell'art. 187-ter t.u.f. per manipolazione del mercato, sicché non hanno la natura sostanzialmente penale che appartiene a queste ultime, né pongono un problema di compatibilità con le garanzie riservate ai processi penali dall'art. 6 C.E.D.U. (cfr. Cass. 24 febbraio 2016, n. 3556).

In quest'ottica a nulla rilevano le circostanze che Ruggiero C.P. ha addotto con il motivo in disamina, né merita seguito la prospettazione per cui, per giunta, la natura penale della sanzione prospetta "dubbi di compatibilità con il principio della presunzione di innocenza" (così ricorso, pag. 28).

Con il terzo motivo il ricorrente denuncia ai sensi dell'art. 360, 1° comma, n. 3, c.p.c. la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 3 Cost. e dell'art. 2 c.p. per mancata applicazione del principio del favor rei in conseguenza dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 72/2015; in subordine l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 della l. n. 689/1981 e dell'art. 2, 3° comma, del d.lgs. n. 72/2015.

Deduce che in considerazione della valenza penale della sanzione inflittagli e delle modifiche apportate al t.u.b. dal d.lgs. n. 72/2015 la corte territoriale avrebbe dovuto annullare il provvedimento sanzionatorio in applicazione del principio della retroattività della lex mitior.

Deduce segnatamente che la violazione di cui all'art. 53, 1° comma, lett. d), t.u.b. non gli è più ascrivibile, in primo luogo giacché non sussiste alcuna delle condizioni elencate all'art. 144-ter t.u.b. in presenza delle quali è allo stato possibile irrogare sanzioni amministrative ad esponenti aziendali, in secondo luogo giacché la condotta addebitatagli è a norma dell'art. 144-bis t.u.b. connotata da scarsa offensività.

Deduce al contempo che la corte di Roma non ha "compiuto una valutazione in concreto circa la maggiore afflittività della sanzione applicata (...) rispetto a quella che (non) sarebbe stata applicata alla luce dei 'nuovi' artt. 144, 144-bis e 144-ter t.u.b." (così ricorso, pagg. 33-34).

Deduce in via subordinata l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 della l. n. 689/1981, nella parte in cui non prevede - in contrasto con gli artt. 3, 25, 2° comma, 117, 1° comma, Cost. e 6 e 7 C.E.D.U. - l'applicazione della legge successiva più favorevole all'autore dell'illecito amministrativo.

Il terzo motivo va respinto.

Il provvedimento sanzionatorio è datato 13 maggio 2014.

Ai sensi dell'art. 2, 3° comma, del d.lgs. n. 72/2015 "le modifiche apportate al titolo VIII del d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385, si applicano alle violazioni commesse dopo l'entrata in vigore delle disposizioni adottate dalla Banca d'Italia ai sensi dell'art. 145-quater del d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385. Alle violazioni commesse prima della data di entrata in vigore delle disposizioni adottate dalla Banca d'Italia continuano ad applicarsi le norme del titolo VIII del d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385, vigenti prima della data di entrata in vigore del presente decreto legislativo".

Il riferimento ratione temporis dunque è da farsi alla disciplina del t.u.b. antecedente alla novella di cui al d.lgs. n. 72 del 12 maggio 2015.

In ogni caso, in relazione alla prima ratio cui in parte qua è ancorata l'impugnato dictum (in dipendenza del "generale inasprimento delle sanzioni" era da escludere che il regime sanzionatorio introdotto ex novo dal d.lgs. n. 72/2015 fosse da considerare più favorevole: cfr. decreto impugnato, pag. 5), è fuor di dubbio, pur ad ammettere che l'applicazione della legge sopravvenuta più mite sia da operare ex officio (cfr. Cass., sez. lav., 17 marzo 2014, n. 6101), che la qualificazione della regolamentazione introdotta ex novo nel t.u.b. dal d.lgs. n. 72/2015 quale disciplina più blanda postula il riscontro della concreta sussistenza delle condizioni di cui ai novelli artt. 144-ter e 144-bis t.u.b.

E tuttavia un simile accertamento imporrebbe a questo Giudice del diritto indagini ed accertamenti di fatto sicuramente preclusi (cfr. Cass. 25 ottobre 2017, n. 25319, secondo cui nel giudizio di cassazione non si possono prospettare nuove questioni di diritto ovvero nuovi temi di contestazione che implichino indagini ed accertamenti di fatto non effettuati dal giudice di merito nemmeno se si tratti di questioni rilevabili d'ufficio; Cass. 13 settembre 2007, n. 19164).

In ogni caso, in relazione alla seconda ratio cui in parte qua è ancorato l'impugnato dictum (in virtù dell'art. 1 della l. n. 689/1981 l'illecito amministrativo è assoggettato alla legge in vigore al momento della sua verificazione, "con conseguente inapplicabilità della disciplina posteriore più favorevole": così decreto impugnato, pag. 5), è evidente che questa Corte di legittimità non può che reiterare il proprio insegnamento, ossia che (le modifiche alla parte V del d.lgs. n. 58/1998 apportate dal d.lgs. n. 72/2015 si applicano alle violazioni commesse dopo l'entrata in vigore delle disposizioni di attuazione adottate dalla "Consob" [ovvero della "Banca d'Italia"], in tal senso disponendo l'art. 6 del medesimo decreto legislativo, e) non è possibile ritenere l'applicazione immediata della legge più favorevole, atteso che il principio cosiddetto del favor rei, di matrice penalistica, non si estende in assenza di una specifica disposizione normativa alla materia delle sanzioni amministrative, che risponde invece al distinto principio del tempus regit actum (cfr. Cass. 2 marzo 2016, n. 4114; Cass. 30 giugno 2016, n. 13433).

Nelle stesse testé menzionate occasioni questa Corte ha al contempo soggiunto che la surriferita interpretazione non viola i principi convenzionali enunciati dalla Corte E.D.U. con la sentenza 4 marzo 2014 ("Grande Stevens ed altri c/o Italia"), giacché tali principi non possono indurre a ritenere che una sanzione, qualificata come amministrativa dal diritto interno, abbia sempre ed a tutti gli effetti natura sostanzialmente penale; di conseguenza ha concluso per l'irrilevanza di un'eventuale questione di costituzionalità ai sensi dell'art. 117 Cost.

Tal ultima puntualizzazione ovviamente esplica valenza in ordine all'asserita rilevanza e non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale che Ruggiero C.P. ha inteso sollevare in via subordinata.

Con il quarto motivo il ricorrente denuncia ai sensi dell'art. 360, 1° comma, n. 3, c.p.c. la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 53, 1° comma, lett. d), t.u.b. in relazione agli artt. 2409-terdecies e 2409-quaterdecies c.c. nonché in relazione allo statuto di "B.P.M.".

Deduce che nel sistema "dualistico" il consiglio di sorveglianza "deve essere considerato organo misto di gestione e controllo" (così ricorso, pag. 40), con talune funzioni attinenti all'amministrazione della società.

Deduce che in particolare nel sistema "dualistico" "scelte e valutazioni tipicamente imprenditoriali (...) sono sottratte ai soci ed affidate (...) [al] consiglio di sorveglianza" (così ricorso, pag. 41); che in tale senso si esprime pur la relazione alla "riforma" del diritto societario; che quindi le inderogabili competenze del consiglio di sorveglianza "esprimono un peculiare potere d'influenza di detto organo sulla gestione e sull'esercizio dell'impresa" (così ricorso, pag. 43).

Deduce inoltre che in tal senso depongono anche l'art. 151-bis del d.lgs. n. 58/1998 e l'art. 51, 1° comma, lett. m), dello statuto di "B.P.M.", che "attribuisce al Consiglio di Sorveglianza il potere di rendere, su richiesta del Consiglio di Gestione, pareri non vincolanti in materia di assunzione e cessione di partecipazioni che comportino variazioni del Gruppo bancario, redazione di progetti di fusione o di scissione, adozione delle deliberazioni concernenti gli adeguamenti dello Statuto a disposizioni normative" (così ricorso, pag. 44); che dunque va riconosciuta al consiglio di sorveglianza di "B.P.M." "la titolarità di un'originaria funzione di indirizzo strategico dell'impresa di carattere generale e di orientamento programmatico" (così ricorso, pag. 44).

Il quarto motivo è fondato e meritevole di accoglimento nei limiti che seguono.

È da escludere che il consiglio di sorveglianza nel sistema "dualistico" (di derivazione germanica) sia organo di gestione.

Assume rilievo la previsione della prima parte del 1° comma dell'art. 2409-novies c.c. - rubricato "consiglio di gestione" - a tenor della quale "la gestione dell'impresa spetta esclusivamente al consiglio di gestione, il quale compie le operazioni necessarie per l'attuazione dell'oggetto sociale".

Nel corpo della citata disposizione, in perfetta simmetria con il dettato del 1° comma dell'art. 2380-bis c.c. - rubricato "amministrazione della società" ed inserito nel quadro della disciplina del sistema cosiddetto "tradizionale" - riveste valenza dirimente l'avverbio "esclusivamente". Tale locuzione induce a disconoscere recisamente la possibilità che la potestas gerendi, ossia la potestà di concepire le "scelte" in ordine all'impresa che fa capo alla società, possa essere sottratta al consiglio di gestione (così come agli amministratori nel sistema "tradizionale").

Vero è, certo, che l'art. 2409-terdecies c.c. - rubricato "competenza del consiglio di sorveglianza" - alla lett. f-bis) del 1° comma dispone che, "se previsto dallo statuto, [il consiglio di sorveglianza] delibera in ordine alle operazioni strategiche e ai piani industriali e finanziari della società predisposti dal consiglio di gestione", disposizione che evidentemente è riflesso del dettato del 3° comma dell'art. 2381 c.c. - nella parte in cui riserva al consiglio di amministrazione l'esame, "quando elaborati [dagli organi delegati], (...) [dei] piani strategici, industriali e finanziari della società" - riflesso per giunta ancor più pregnante, giacché il consiglio di sorveglianza "delibera", non "esamina".

Vero è al contempo che segnatamente le "operazioni strategiche" - in ordine alle quali il consiglio di sorveglianza è chiamato a deliberare, a decidere - ancorché prive di un immediato "impatto", palesano la linea gestoria in una più ampia proiezione.

E tuttavia non può non rimarcarsi quanto segue.

Per un verso, che, siccome la corte distrettuale ha posto in risalto (e la controricorrente ha, dal canto suo, ribadito: cfr. controricorso, pag. 25), "l'art. 51 dello Statuto [di "B.P.M."] che disciplina le attribuzioni del Consiglio di sorveglianza [non] contiene quella possibilità di attribuzione di funzioni strategiche al medesimo di cui al menzionato art. 2409-terdecies, comma 1, lett. f-bis), c.c." (così decreto impugnato, pag. 9).

Per altro verso, che la lett. f-bis) del 1° comma dell'art. 2409-terdecies c.c. in fine soggiunge l'inciso "ferma in ogni caso la responsabilità di questo [ovvero del consiglio di gestione] per gli atti compiuti", inciso che a sua volta è riverbero dell'analoga previsione figurante nell'ultima parte del n. 5) del 1° comma dell'art. 2364 c.c., articolo che nel disciplinare le competenze dell'assemblea ordinaria nelle s.p.a. prive di consiglio di sorveglianza statuisce - appunto - che l'organo costituito della generalità dei soci delibera altresì "sulle autorizzazioni eventualmente richieste dallo statuto per il compimento di atti degli amministratori, ferma in ogni caso la responsabilità di questi per gli atti compiuti".

Ebbene l'inciso ("ferma (...)") a chiusura della lett. f-bis) del 1° comma dell'art. 2409-terdecies c.c. dà ragione, al pari dell'inciso a chiusura del n. 5) del 1° comma dell'art. 2364 c.c., di una ben precisa opzione.

Più esattamente la delibera del consiglio di sorveglianza ha la valenza di un'autorizzazione, propriamente rimuove un ostacolo alla esecuzione dell'operazione strategica concepita dal consiglio di gestione, sicché la paternità della medesima operazione va comunque ascritta a tal ultimo organo, che al contempo conserva appieno, malgrado l'autorizzazione, la facoltà di darvi o meno esecuzione (così come, nel sistema tradizionale, la paternità dell'atto gestorio all'uopo autorizzato è comunque da ascrivere agli amministratori, i quali conservano in toto, nonostante l'autorizzazione dell'assemblea, la facoltà di darvi o meno esecuzione).

Con la conseguenza ulteriore che se i consiglieri di gestione esecuzione vi danno e danno ne scaturisce, la responsabilità ricade esclusivamente su di loro: la loro esclusiva responsabilità è rigorosa proiezione dell'esclusiva loro paternità dell'operazione, in coerente puntuale simmetria, evidentemente, con l'esclusiva titolarità in capo a loro della potestà di gestione dell'impresa societaria (art. 2409-novies, 1° comma, c.c. ed art. 2380-bis, 1° comma, c.c.).

Il consiglio di sorveglianza - al di là del concorso omissivo per culpa in vigilando nella responsabilità gestoria dei consiglieri di gestione (art. 2409-terdecies, 3° comma, c.c.) - non è responsabile quindi in via commissiva per l'esecuzione dell'operazione strategica, così come l'assemblea non è responsabile per gli atti di amministrazione all'uopo autorizzati.

Ed allorquando non si è responsabili in via commissiva per l'attività di natura gestoria, non si è evidentemente organo di gestione.

Ruggiero C.P. censura l'impugnato dictum nella parte in cui è recepita la prospettazione della "Banca d'Italia" e si riscontra dunque il contestato travalicamento dei compiti dell'organo di appartenenza mercé l'esplicazione di "crescenti ingerenze su tematiche strategiche e gestionali di competenza del Consiglio di Gestione".

In tal guisa, ovvero allorquando adduce la non configurabilità dell'illecito concretizzatosi nella "violazione delle disposizioni in materia di organizzazione e governo societario", il ricorrente censura la statuizione della corte di Roma pur allorché ha reputato ingiustificato il suo voto contrario in sede di approvazione del bilancio dell'esercizio 2012 ed ha reputato al riguardo che le motivazioni cui il suo voto negativo risultava ancorato, per nulla erano correlate a specifici rilievi al documento contabile.

Orbene è innegabile che nel sistema "dualistico" è prerogativa del consiglio di sorveglianza l'approvazione del bilancio (art. 2409-terdecies, 1° comma, lett. b), c.c.).

Ed è innegabile che la falsa applicazione di legge consiste o nell'assumere la fattispecie concreta giudicata sotto una norma che non le si addice, perché la fattispecie astratta da essa prevista - pur rettamente individuata e interpretata - non è idonea a regolarla, o nel trarre dalla norma in relazione alla fattispecie concreta conseguenze giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione (cfr. Cass. 26 settembre 2005, n. 18782).

In questi termini risulta del tutto ingiustificato sussumere nell'astratta illecita fattispecie oggetto di contestazione il voto contrario, in quanto ancorato a motivazioni a tenor delle quali il bilancio dell'esercizio chiuso al 2012 "esprime una gestione svolta in modo non coerente con le finalità mutualistiche della banca e per perseguire scopi diversi da quelli statutari", motivazioni quindi atte a palesare unicamente "la propria diversa idea di gestione della banca" (così decreto impugnato, pag. 11).

D'altronde, se ai fini della configurabilità del conflitto d'interesse è essenziale, per un verso, che la delibera sia potenzialmente idonea a ledere gli interessi sociali, in quanto volta al soddisfacimento di interessi extrasociali (cfr. Cass. 3 dicembre 2008, n. 28748; Cass. 17 luglio 2007, n. 15950; Cass. 4 maggio 1991, n. 4927), e, per altro verso, che il voto sia stato espresso da colui che sia portatore di un concreto, certo ed attuale interesse in contrasto con l'interesse della società, è difficile - per giunta sul terreno meramente civilistico di cui all'art. 2373 c.c. - riconoscere in quelle motivazioni - assunte come illecite - dell'espressione di voto la proiezione alla lesione, pur potenziale, dell'interesse della "B.P.M." e la contestuale titolarità in capo al ricorrente di un interesse - concreto, certo ed attuale - in contrasto con l'interesse dello stesso istituto di credito.

Con il quinto motivo il ricorrente denuncia ai sensi dell'art. 360, 1° comma, n. 5, c.p.c. l'omesso esame di fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti in ordine al difetto dell'elemento soggettivo dell'illecito contestato.

Deduce che la corte d'appello avrebbe dovuto accertare la sussistenza del dolo o, quantomeno, della colpa.

Deduce segnatamente che la corte di merito "ha omesso di esaminare alcune circostanze decisive per il giudizio di sussistenza (...) dell'elemento soggettivo dell'illecito contestato" (così ricorso, pag. 47), né ha valutato "quale fosse il grado di diligenza impiegato nell'esercizio delle sue funzioni" (così ricorso, pag. 49).

Deduce ulteriormente che con il decreto n. 5935/2016 con cui la corte di Roma ha accolto l'opposizione separatamente proposta da Enrico C., "ha ritenuto che le condotte contestate (anche) (...) al prof. C.P. fossero pienamente lecite" (così ricorso, pag. 50).

Il quinto motivo va rigettato.

È sufficiente evidenziare che il principio posto dall'art. 3 della l. n. 689/1981 (secondo il quale, per le violazioni amministrativamente sanzionate, è richiesta la coscienza e volontà della condotta attiva od omissiva, sia essa dolosa o colposa) postula una presunzione di colpa in ordine al fatto vietato a carico di colui che lo abbia commesso, non essendo necessaria la concreta dimostrazione del dolo o della colpa in capo all'agente, sul quale grava, pertanto, l'onere della dimostrazione di aver agito senza colpa; che in pari tempo l'esimente della buona fede, intesa come errore sulla liceità del fatto (applicabile anche in tema di illecito amministrativo disciplinato dalla citata l. n. 689/1981), assume rilievo solo in presenza di elementi positivi idonei ad ingenerare, nell'autore della violazione, il convincimento della liceità del suo operato, purché tale errore sia incolpevole ed inevitabile, siccome determinato da un elemento positivo, idoneo ad indurlo in errore ed estraneo alla sua condotta, non ovviabile con ordinaria diligenza o prudenza (cfr. Cass. 12 maggio 2006, n. 11012; Cass., sez. lav., 7 settembre 2006, n. 19242).

In questo solco è innegabile che, nei limiti in cui - all'esito dei rilievi dapprima operati da questa Corte - i fatti de quibus sono sussumibili nell'alveo dell'astratta illecita contestata fattispecie, l'asserito poco chiaro, incerto e fortemente opinabile quadro normativo (cfr. ricorso, pagg. 48-49) di sicuro non riveste valenza neppure come mera allegazione - ancor prima che quale idonea dimostrazione - di fatto idoneo a dar ragione dell'assenza di colpevolezza. Viepiù ché, siccome si è in precedenza chiarito, i rapporti nel sistema "dualistico" tra consiglio di gestione e consiglio di sorveglianza si prestano viceversa ad essere ricostruiti in guisa assolutamente lineare.

Con il sesto motivo il ricorrente denuncia ai sensi dell'art. 360, 1° comma, n. 5, c.p.c. l'omesso esame di fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti in ordine alla sussistenza di circostanze rilevanti in rapporto all'art. 11 della l. n. 689/1981.

Deduce in via subordinata che la corte territoriale ha omesso di esaminare le circostanze allegate al fine di ottenere una riduzione della irrogata sanzione ed ha adottato sul punto una motivazione di puro stile.

Il parziale buon esito del quarto motivo di ricorso e la circostanza per cui il motivo in disamina è stato esplicitamente esperito per l'ipotesi di mancato accoglimento dei precedenti mezzi di impugnazione, assorbono e rendono vano il vaglio del motivo de quo agitur.

In parziale accoglimento del quarto motivo di ricorso il decreto n. 4219 del 30 marzo/2 maggio 2016 della corte d'appello di Roma va cassato con rinvio ad altra sezione della stessa corte.

All'enunciazione - in ossequio alla previsione dell'art. 384, 1° comma, c.p.c. - del principio di diritto - al quale ci si dovrà uniformare in sede di rinvio - può farsi luogo nelle forme seguenti: non integra l'illecito amministrativo di cui agli artt. 53, 1° comma, lett. d), e 144 t.u.b. e di cui alle disposizioni della "Banca d'Italia" del 4 marzo 2008 "in materia di organizzazione e governo societario delle banche" il voto espresso dal consigliere di sorveglianza - nel sistema "dualistico" - in sede di approvazione del bilancio, allorché il voto, per le motivazioni che lo sorreggono, non contrasti con il sistema delle competenze degli organi societari.

In sede di rinvio si provvederà alla regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie nei termini di cui in motivazione il quarto motivo di ricorso, in tal guisa assorbita la disamina del sesto, ed in relazione e nei limiti dell'accoglimento del quarto motivo cassa il decreto n. 4219 del 30 marzo/2 maggio 2016 della corte d'appello di Roma e rinvia ad altra sezione della stessa corte d'appello anche per la regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità; rigetta il primo, il secondo, il terzo ed il quinto motivo di ricorso.