Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia
Catania, Sezione II
Sentenza 18 gennaio 2019, n. 69

Presidente: Brugaletta - Estensore: Elefante

FATTO

La società ricorrente, titolare di un esercizio commerciale nel territorio del Comune di Nicolosi per la vendita di prodotti alimentari e non, ha adito l'intestata Sezione chiedendo la condanna dell'amministrazione locale resistente, ex artt. 30 c.p.a. e 2043 c.c., al pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno da contrazione di utili, subito in ragione dell'illegittimo rilascio, in favore delle società controinteressate, di talune concessioni edilizie e autorizzazioni all'esercizio di attività commerciali, a mezzo delle quali veniva in ultimo aperto, nel medesimo territorio, un supermercato con il marchio "MD Discount".

Allegava, a tal fine, quanto segue:

- che i suddetti provvedimenti erano già stati annullati, perché ritenuti illegittimi, dal Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, con sentenza 29 novembre 2016, n. 348;

- che in forza dell'illegittima attività autorizzatoria del Comune di Nicolosi, il supermercato con marchio "MD Discount" aveva operato in concorrenza dalla data del 22 febbraio 2013 a quella del 23 dicembre 2016;

- che il danno ingiusto sofferto si identificava nella perdita della utilità economica subita dall'esercizio commerciale di cui era titolare la ricorrente nel suddetto periodo;

- che l'evento lesivo era costituito dall'avvenuta lesione dell'interesse legittimo oppositivo al mantenimento del proprio livello di clientela e di avviamento commerciale;

- che il rapporto di causalità tra la condotta illecita del Comune resistente e la lesione subita era elemento costitutivo già positivamente accertamento nella più volte citata sentenza del C.G.A.;

- che in punto di elemento soggettivo, la colpa grave dell'amministrazione comunale - normalmente desunta in giurisprudenza dalla palese gravità della violazione di legge oppure dalla ingiustificabile violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione - andava inequivocabilmente desunta dall'ampia e chiara motivazione critica offerta al riguardo dalla sentenza del CGA n. 438/2016, nella parte in cui contestava al Comune il fatto che "il rilascio della concessione in sanatoria per la destinazione d'uso commerciale (anziché per l'originaria destinazione ad uso industriale) avrebbe dovuto richiedere comunque un accertamento aggiuntivo e distinto, il cui esito non poteva intendersi in tal caso come strettamente vincolato al solo presupposto normativo, bensì rimesso ad un apprezzamento puntuale, con cui si desse motivata evidenza della compatibilità urbanistico - edilizia di tale mutata destinazione con lo stato dei luoghi. (...) Deve quindi sottolinearsi come un simile accertamento, in termini di compatibilità con la disciplina urbanistica vigente, in questa vicenda sia del tutto mancato, se è vero che la concessione è stata rilasciata sul presupposto manifestamente erroneo che il fabbricato fosse sempre stato destinato ad uso commerciale";

- riguardo la quantificazione del danno ingiusto, che esso era costituito dalla grave e improvvisa perdita di utilità economica, in termini di repentino calo di fatturato commerciale, imputabile esclusivamente allo sviamento della clientela a causa del nuovo esercizio commerciale oggettivamente incidente sul medesimo bacino d'utenza. Parte ricorrente allegava, a tal fine, una perizia di parte giurata, con la quale venivano messi a confronto il volume di fatturato/ricavi medio nel quadriennio antecedente l'apertura del nuovo esercizio commerciale (dal 2009 al 2012), con quello realizzatosi nel quadriennio successivo alla predetta apertura (dal 2013 al 2016): le cui risultanze evidenziavano che il margine lordo di guadagno andato perduto ammontava a complessivi euro 598.109,00, oltre rivalutazione e interessi compensativi anno per anno.

Si costituiva in giudizio il Comune resistente deducendo, ex adverso, quanto segue:

- che nel giudizio di primo grado promosso avverso i provvedimenti di autorizzazione in discussione l'intestato TAR, da un lato, aveva respinto la richiesta di misure cautelari avanzata con il ricorso introduttivo «ritenuto che, allo stato, non sembra[va] sussistere il danno grave ed irreparabile»; dall'altro, aveva dichiarato il ricorso irricevibile per tardività del gravame;

- che avverso la predetta decisione era stato ritualmente proposto appello innanzi al Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, il quale non accoglieva in limine litis la richiesta di sospensione della sentenza gravata, mentre solo all'esito degli ulteriori incombenti istruttori emetteva la sentenza n. 438/2016, accogliendo il gravame e annullando quindi i provvedimenti impugnati. In sostanza, deduceva che il descritto iter processuale assumeva significato in quanto, in assenza di provvedimenti interinali di segno contrario, solo con la decisione nel merito del giudice di appello l'efficacia dei provvedimenti autorizzativi contestati era venuta meno, sicché solo da quella data (26 novembre 2016) il Comune ha potuto porre in essere gli atti necessari per disporre la chiusura del discount oggetto di contestazione;

- che in via generale il risarcimento del danno a carico della pubblica amministrazione non costituiva conseguenza automatica dell'annullamento giurisdizionale del provvedimento amministrativo, atteso che il suo riconoscimento richiedeva comunque la positiva verifica di tutti i presupposti legittimanti l'attribuzione della responsabilità ex art. 2043 c.c.;

- riguardo quindi l'elemento soggettivo della colpa, che non poteva essere messa in dubbio l'attenzione e la cautela del Comune resistente prima del rilascio della nuova autorizzazione commerciale, avendo ad hoc richiesto un parere legale (in particolare con riguardo ai seguenti profili: a) conformità della struttura all'assetto urbanistico e cambio di destinazione d'uso; b) eventuale contrasto della struttura contestata con il Piano Urbanistico Commerciale del Comune; c) termini di adozione del provvedimento finale da parte del SUAP), il quale riportava chiaramente che "seppur originariamente destinato ad attività industriale, non vi è alcun dubbio che l'immobile sia destinato ad attività commerciale e, che per tale motivo, possa essere esercitata l'attività commerciale... - non sussiste, dunque, alcun interesse concreto ed attuale all'annullamento degli atti; - nel caso in esame ... trattandosi di modifica c.d. "funzionale'', l'immobile, anche in caso di annullamento in autotutela delle concessioni rilasciate potrebbe mantenere la destinazione ad uso commerciale, essendo stato commesso come detto, un abuso suscettibile di essere sanzionato non con la demolizione e/o con la riduzione in pristino stato, ma con l'applicazione della sanzione pecuniaria prevista dall'art. 10 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 ed del conguaglio del contributo di concessione se dovuto";

- che la ricorrente non aveva comunque offerto la prova del nesso di causalità e dell'ingiustizia del preteso danno, giacché l'intervenuto annullamento in sede giurisdizionale dei provvedimenti non faceva sorgere sic et simpliciter il diritto al risarcimento dei danni asseritamente subiti: se, infatti, non era ravvisabile alcun obbligo del Comune di impedire l'ingresso di nuovi operatori commerciali nel contesto cittadino (ed era, anzi, vero il contrario), mancava il fondamento stesso della richiesta di risarcimento, ossia non si rinveniva alcuna posizione giuridica suscettibile di tutela;

- che la perizia depositata da controparte era affetta da lacune e difetti di impostazione, atteso che il professionista incaricato aveva omesso ogni indicazione/valutazione su dati essenziali ai fini del computo del preteso danno (quali, ad esempio: - il numero di abitanti del paese e la loro propensione alla spesa; - la dimensione del bacino di utenza; - l'andamento di mercato del settore merceologico in questione nel periodo di riferimento; l'esistenza di altri punti vendita operanti sul territorio). Senza tralasciare, da un lato, che non era stata valutata la diversificazione dell'offerta commerciale registratasi negli ultimi anni, anche a seguito dell'apertura nell'hinterland catanese di più di sei enormi centri commerciali che attraevano clienti proprio nei bacini di consumatori che prima restavano, per così dire, limitati alla dimensione paesana/cittadina; dall'altro, che nello stesso periodo di riferimento osservato dal perito di parte il mercato delle vendite dei supermercati aveva subito forti contrazioni e un correlativo spostamento di clientela dai punti vendita c.d. "a marchio" verso gli hard discount, sicché la flessione di vendite riscontrata dalla ricorrente si inseriva, quindi, nell'alveo di una crisi generale di settore.

Alle esposte argomentazioni rispendeva, a mezzo di memoria ritualmente depositata, la parte ricorrente, evidenziando quanto segue:

- che il richiesto parere, oltre a reggersi su considerazioni fattuali e giuridiche risultate radicalmente errate alla luce della successiva decisione del C.G.A., non proveniva in ogni caso da un organo tecnico altamente qualificato (ad es. l'Avvocatura dello Stato);

- che, peraltro, nei vari giudizi l'amministrazione aveva scelto di non costituirsi a difesa del proprio operato, nonostante l'ordinanza istruttoria emessa dal CGA. nel corso del giudizio;

- che secondo la giurisprudenza di legittimità, la responsabilità risarcitoria non veniva esclusa dalla circostanza che l'amministrazione, "prima di emettere l'atto dichiarato illegittimo, chieda un parere ad un legale. In questa fattispecie, infatti, non è un paradosso - come si esprime la difesa della ricorrente - il fatto che il legale potrebbe rispondere solo per colpa grave (ai sensi dell'art. 2236 c.c.), mentre l'amministrazione pubblica sarebbe responsabile anche per colpa lieve, giacché quelli tra legale ed amministrazioni sono rapporti organizzativi interni all'ente pubblico, ai quali il danneggiato è estraneo (Cassazione civile, sez. III, 21 ottobre 2005, n. 20358)";

- che egualmente ininfluente era il riferimento all'iter processuale complessivo, atteso che per giurisprudenza consolidata "non esclude la colpa la circostanza che il giudice di primo grado avesse dato ragione all'amministrazione, con decisione poi riformata in appello, in quanto si concluderebbe per dare rilevanza ad un fatto successivo a quello che ha generato l'illecito e, inoltre, aderendo a tale impostazione, la sussistenza della colpa sarebbe ravvisabile nelle sole ipotesi in cui il privato ottenga ragione in entrambi i gradi del giudizio, finendo così il giudizio di primo grado per essere sempre quello decisivo ai fini del risarcimento del danno, con grave compromissione del diritto di difesa (in termini C.d.S., V, 17 ottobre 2008, n. 5100; Id., VI, 11 maggio 2007, n. 2306; Id., 9 marzo 2007, n. 1114; Id., sez. VI, 17 febbraio 2017, n. 730)".

All'udienza del 12 dicembre 2018, come in verbale, la causa veniva chiamata e trattenuta in decisione.

DIRITTO

Il ricorso deve essere accolto, perché fondato, nei limiti che seguono.

A tal fine è utile mettere in evidenza i seguenti profili:

- quanto alla più volte citata sentenza del C.G.A., deve rilevarsi che l'organo giurisdizionale ha statuito, peraltro, quanto segue: "il Collegio rileva l'emergere quanto meno di due ordini di problemi attinenti al rilascio della concessione in sanatoria, tali da minarne la legittimità sul piano amministrativo. Da un lato emerge infatti come le intervenute e ripetute modifiche dello stato dei luoghi, in pendenza del procedimento di condono, unitamente alle "volture" della domanda originaria e alle integrazioni e modifiche apportate alla stessa, abbiano comportato il venir meno della corrispondenza tra il provvedimento finale e l'originaria istanza di condono: sia per quanto concerne l'effettiva realizzazione nel tempo delle opere abusive oggetto di condono, sia per quanto attiene alla destinazione d'uso delle medesime opere. Quanto al primo aspetto, mentre nella originaria domanda di condono si dichiarava che le opere erano state completate nel 1974, già in occasione di un sopralluogo eseguito nel 1987 la realtà aveva rivelato l'esistenza di difformità rispetto al progetto iniziale cui la proprietà aveva in quel momento creduto di ovviare dichiarando che le riscontrate variazioni erano state effettuate nei primi mesi del 1983, così correggendo le iniziali affermazioni e modificando la domanda di condono su un punto assai qualificante.

Quanto al secondo aspetto, è evidente l'inesattezza contenuta nella concessione edilizia in sanatoria del 2011 laddove, nelle premesse iniziali, richiama l'istanza del 1985 come se questa fosse stata presentata, sin dall'inizio, per un fabbricato avente destinazione ad uso commerciale; quando invece, dalla documentazione acquisita è risultato incontrovertibile come il cambio di destinazione sia avvenuto, ad iniziativa del privato, molti anni dopo e senza che il Comune ne valutasse l'ammissibilità e la compatibilità con lo stato dei luoghi, limitandosi a prenderne atto.

Sebbene la concessione edilizia in sanatoria, specie se fondata sul condono del 1985 di cui è data in premessa l'ampiezza della portata, costituisca espressione di un potere vincolato rispetto ai presupposti normativi richiesti; residua non di meno in capo all'amministrazione il compito di verificare, in primo luogo ai sensi dell'art. 31 della l. 47/1985, che le opere siano state ultimate, ovvero completate "funzionalmente" nel termine fissato dalla legge e quindi che entro tale data (1° ottobre 1983) il fabbricato fosse già fornito delle opere indispensabili all'uso dichiarato, compito istruttorio che nella vicenda in esame non è stato assolto con sufficiente attenzione e sulla base di una valutazione attendibile. A questo primo rilievo di natura pregiudiziale si deve aggiungere come, laddove si accertasse l'effettivo rispetto del termine di legge per l'ultimazione dei lavori, il rilascio della concessione in sanatoria per la destinazione d'uso commerciale (anziché per l'originaria destinazione ad uso industriale) avrebbe dovuto richiedere comunque un accertamento aggiuntivo e distinto, il cui esito non poteva intendersi in tal caso come strettamente vincolato al solo presupposto normativo, bensì rimesso ad un apprezzamento puntuale, con cui si desse motivata evidenza della compatibilità urbanistico-edilizia di tale mutata destinazione con lo stato dei luoghi. [...]. Deve quindi sottolinearsi come un simile accertamento, in termini di compatibilità con la disciplina urbanistica vigente, in questa vicenda sia del tutto mancato, se è vero che la concessione è stata rilasciata sul presupposto manifestamente erroneo che il fabbricato fosse sempre stato destinato ad uso commerciale";

- in sintesi, quindi, che costituisce accertamento giudiziale passato in giudicato il dato per cui il Comune resistente, da un lato, non ha provveduto "con sufficiente attenzione e sulla base di una valutazione attendibile" ad accertare la data di ultimazione dei lavori del fabbricato in questione; dall'altro, non ha svolto (è "del tutto mancato") una valutazione - ad altri non delegabile (cfr. parere legale) perché ricadente nel perimetro della "discrezionalità" amministrativa propria dell'ente pubblico, stante il principio di legalità dell'azione amministrativa - della compatibilità urbanistico-edilizia del cambio di destinazione;

- che le concrete modalità di svolgimento dell'attività amministrativa depongono, nella fattispecie, nel senso di dover certamente ritenere sussistente l'elemento costitutivo dell'azione risarcitoria rappresentato dall'evento lesivo, atteso che sicuramente è tale, nella prospettiva strettamente commerciale, l'esercizio di un'attività concorrenziale, perché analoga, nell'ambito del medesimo territorio e sulla base di un provvedimento amministrativo autorizzatorio illegittimo;

- quanto al rapporto di causalità tra il suddetto evento lesivo e il danno, quest'ultimo rappresentato dal calo delle vendite nel periodo di riferimento, che in base al principio dell'id quod plerumque accidit costituisce conseguenza assolutamente "normale" il fatto che l'esercizio di una nuova attività commerciale, concorrenziale sia sul piano merceologico sia territoriale, "dreni" nei primi anni di esercizio clientela agli operatori commerciali già presenti, anche in ragione delle politiche di vendita usualmente attuate dai primi al fine di acquisire e consolidare la propria posizione (c.d. avviamento). Né può condividersi il rilievo - mosso in udienza dalla difesa del Comune resistente - per cui nella fattispecie non ricorre il requisito della c.d. causalità adeguata, posto che tale concetto si lega, come è noto, alle fattispecie di rilievo penale, mentre nell'ambito della responsabilità "civile" è sufficiente il riscontro, sul piano eziologico, di un rapporto di causalità altamente probabile, come nella fattispecie;

- in ordine all'elemento soggettivo della colpa, che la mancanza di sufficiente "attenzione", di una "valutazione attendibile" nonché, "del tutto", di un puntuale accertamento, in aggiunta alla condotta processuale tenuta dall'ente locale nel corso del giudizio culminato con la sentenza del CGA n. 348/2016 (id est, mancata costituzione in giudizio), consentono di imputare certamente a quest'ultimo ente locale una condotta qualificabile come approssimativa e, quindi, non diligente, in violazione dei canoni costituzionali di cui all'art. 97 della Costituzione;

- quanto alla natura del danno asseritamente subito dalla parte ricorrente, che attendibile deve valutarsi in parte qua la perizia giurata depositata in atti dalla parte ricorrente (in ordine, cioè, al danno economico, patrimoniale e finanziario, subito dalla ricorrente in ragione del calo di fatturato per diminuzione di vendite);

- che viceversa, in merito alla quantificazione del suddetto danno operata nella perizia, pari a euro 598.109,00, il suddetto importo deve essere equitativamente ridotto di 1/3 in ragione del fatto che, secondo massima di esperienza, gli effetti della crisi generale dei mercati iniziata nel 2008 ha avuto il suo picco più alto proprio nel periodo 2013-2016 di riferimento.

In ragione di quanto complessivamente esposto, quindi, il Comune di Nicolosi deve essere condannato al pagamento in favore della ricorrente di una somma a titolo risarcitorio pari a euro 398.739,00 (trecentonovantottosettecentotrentanove/00 euro). Somma che, trattandosi di debito di valore, dovrà essere rivalutata secondo gli indici ISTAT, mentre sugli importi via via rivalutati, anno per anno, dovranno altresì calcolarsi gli interessi compensativi.

Atteso, infine, l'esito del giudizio, il Comune di Nicolosi deve essere altresì condannato al pagamento delle spese di lite - liquidate come in dispositivo - in favore di parte ricorrente, in base al principio generale della soccombenza.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia sezione staccata di Catania (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l'effetto, condanna il Comune di Nicolosi al pagamento in favore della ricorrente di una somma a titolo risarcitorio pari a euro 398.739,00 (trecentonovantottosettecentotrentanove/00 euro), oltre rivalutazione e interessi come in parte motiva.

Condanna infine il Comune di Nicolosi al pagamento delle spese di lite in favore della parte ricorrente che quantifica in complessivi euro 3.000,00 (tremila euro), oltre accessori come per legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Note

V. anche Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia, Catania, sezione II, sentenza 18 gennaio 2019, n. 70.