Corte di cassazione
Sezione II civile
Sentenza 10 ottobre 2019, n. 25542

Presidente: Manna - Estensore: Scarpa

FATTI DI CAUSA

Clementina B. ha proposto ricorso articolato in due motivi avverso il decreto della Corte di appello di Firenze n. 105/2017, depositato il 13 aprile 2017.

L'intimato Ministero dell'Economia e delle Finanze non ha svolto attività difensive.

Con ricorso depositato in data 28 luglio 2016 presso la Corte di appello di Firenze, Clementina B. chiese la condanna del Ministero dell'Economia e delle Finanze all'equa riparazione per la irragionevole durata di un giudizio intrapreso il 18 dicembre 1998 dinanzi alla Corte dei Conti Toscana, proseguito in secondo grado presso la Corte dei Conti Sezione Giurisdizionale in Appello, quindi riassunto davanti alla Corte dei Conti Toscana e infine concluso con sentenza del 3 febbraio 2015 dichiarativa dell'estinzione per tardiva riassunzione. Il magistrato designato presso la Corte di appello di Firenze, con decreto del 20 dicembre 2016, rigettò la domanda, ritenendo insussistente il pregiudizio da irragionevole durata del processo presupposto, in applicazione dell'art. 2, comma 2-sexies, lett. c), della l. n. 89 del 2001. Il collegio della Corte d'Appello respinse poi l'opposizione ex art. 5-ter l. n. 89/2001, evidenziando come non fosse stata fornita alcuna prova connessa al danno non patrimoniale patito, in maniera da superare la presunzione negativa di legge. Il decreto impugnato sottolineò altresì che l'estinzione del giudizio contabile presupposto fosse piuttosto da imputare esclusivamente alla signora B., avendo questa riassunto il processo in primo grado dopo più di un anno, circostanza costituente un "segnale di indifferenza della parte".

RAGIONI DELLA DECISIONE

Il primo motivo di ricorso di Clementina B. censura la violazione dell'art. 2 e dell'art. 2, comma 2-sexies, l. n. 89/2001, nonché dell'art. 307 c.p.c. per avere la Corte di appello di Firenze malamente desunto il disinteresse della ricorrente rispetto al giudizio contabile sulla scorta della sola dichiarazione di estinzione.

Col secondo motivo di ricorso si denuncia la violazione dell'art. 6, § 1, della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e dell'art. 2 della l. n. 89/2001, avendo la Corte di appello errato nell'aver considerato privo di prova il pregiudizio patito. La ricorrente evidenzia di aver patito il danno per l'irragionevole durata del giudizio presupposto, avente ad oggetto un indebito pensionistico di euro 124.363,00.

I due motivi, da trattare congiuntamente per la loro connessione, risultano infondati.

È indubbio che l'accertamento della sussistenza del pregiudizio da irragionevole durata del processo costituisce apprezzamento di fatto spettante al giudice di merito, sindacabile in sede di legittimità soltanto per omesso esame di fatto decisivo per il giudizio, che sia stato oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., riformato dal d.l. n. 83 del 2012, o altrimenti nei casi di "mancanza assoluta di motivi", di "motivazione apparente", di "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili" e di "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile" (Cass., Sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053).

Nel decreto impugnato, la Corte d'Appello ha quindi tratto il proprio convincimento di insussistenza del danno per disinteresse della parte a coltivare il processo dalla dichiarazione di estinzione dello stesso per tardiva riassunzione, estinzione intervenuta tuttavia soltanto nel 2015, a fronte di domanda proposta nel dicembre 1998. Si tratta di deduzione la cui correttezza, nella disciplina antecedente alle modifiche introdotte dalla l. n. 208 del 2015, era stata più volte smentita da questa Corte, essendosi affermato che la dichiarazione di estinzione del giudizio per rinuncia o inattività delle parti non esclude automaticamente la sussistenza del danno non patrimoniale in quanto, diversamente, verrebbe attribuita rilevanza ad una circostanza sopravvenuta, quale l'estinzione, sorta successivamente al superamento del limite di durata ragionevole del processo. Piuttosto, l'esistenza di un danno non patrimoniale per violazione del termine ragionevole di durata del processo - la cui prova si intende di regola insita nello stesso accertamento della violazione - può essere esclusa in presenza di circostanze particolari che facciano positivamente ritenere che tale danno non sia stato subito dal ricorrente, come avviene, ad esempio, nelle ipotesi in cui il giudizio presupposto - conclusosi con l'estinzione per inattività delle parti o per rinuncia - si sia protratto dopo la definizione stragiudiziale della lite, con conseguente carenza di interesse delle parti alla celere definizione di quello (cfr. indicativamente Cass., Sez. 6-2, 19 settembre 2016, n. 18333, con riferimento proprio ad un giudizio contabile presupposto; Cass., Sez. 6-1, 23 giugno 2011, n. 13742; Cass., Sez. 1, 13 aprile 2006, n. 8716; Cass., Sez. 1, 11 marzo 2005, n. 5398). L'estinzione del processo presupposto rappresenterebbe, così, indizio su cui fondare l'inconfigurabilità di un pregiudizio morale delle parti correlato all'incertezza ed alla connessa sofferenza per l'attesa della definizione della lite, ove la stessa sia espressiva dell'inerzia assoluta dei contendenti, mantenuta sin dall'iniziale pendenza della domanda, di tal che il protrarsi del procedimento non sia percepito dagli stessi come idoneo a produrre conseguenze sfavorevoli.

Questa Corte ha, del resto, costantemente affermato pure che, in tema di equa riparazione ai sensi dell'art. 2 della l. 24 marzo 2001, n. 89, già nella formulazione anteriore alle modifiche introdotte dapprima dalla l. n. 134 del 2012 e poi dalla l. n. 208 del 2015, il danno non patrimoniale è conseguenza normale, ma non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di cui all'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali: sicché, il giudice, una volta accertata e determinata l'entità della violazione relativa alla durata ragionevole del processo secondo le norme della citata l. n. 89 del 2001, deve ritenere sussistente il danno non patrimoniale, a meno che non ricorrano, nel caso concreto, circostanze particolari che facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dall'interessato (cfr. ad esempio Cass., Sez. 1, 26 settembre 2008, n. 24269; Cass., Sez. 1, 16 dicembre 2010, n. 25519).

Si rivela tuttavia decisiva, nel ragionamento adottato nel decreto impugnato, l'incidenza dell'applicabilità dell'art. 2, comma 2-sexies, lett. c), della l. n. 89 del 2001, nel testo introdotto dalla l. n. 208 del 2015, il quale dispone che si presume insussistente il pregiudizio da irragionevole durata del processo, salvo prova contraria, nel caso di: «[...] estinzione del processo per rinuncia o inattività delle parti ai sensi degli articoli 306 e 307 del codice di procedura civile».

Le ipotesi considerate nell'elenco di presunzioni di cui all'art. 2, comma 2-sexies, della l. n. 89 del 2001, costituiscono prova "completa", alla quale il giudice di merito può legittimamente ricorrere, anche in via esclusiva, salvo pur sempre il limite della motivazione del proprio convincimento, nonché quello dell'esame degli eventuali elementi indiziari contrari al fatto ignoto dell'inesistenza del pregiudizio da irragionevole durata del processo, che si pretende legislativamente di desumere tramite l'allestita presunzione. L'accertamento dell'esistenza, sufficienza e rilevanza della prova contraria, che consenta il superamento delle presunzioni di insussistenza del pregiudizio da irragionevole durata del processo, di cui all'art. 2, comma 2-sexies, implica una tipica indagine di fatto, istituzionalmente attribuita dalla legge al giudice di merito.

Al riguardo, peraltro, questa Corte ha messo in evidenza come l'art. 1, comma 777, della l. 28 dicembre 2015, n. 208, non contemplasse, per le modifiche introdotte dalla sua lett. d), ovvero appunto per l'art. 2-sexies, alcun regime transitorio, come invece stabilito dalla lett. m), intervenendo sull'art. 6 della l. n. 89/2001 (cfr. in tal senso Cass., Sez. 6-2, 26 gennaio 2017, n. 2026).

La norma in esame è dunque entrata in vigore il 1° gennaio 2016 (art. 1, comma 999, l. 28 dicembre 2015, n. 208).

Secondo consolidati principi giurisprudenziali (a far tempo quanto meno da Cass., Sez. un., 12 dicembre 1967, n. 2926) il principio dell'irretroattività della legge comporta che la legge nuova non possa essere applicata, oltre che ai rapporti giuridici esauriti prima della sua entrata in vigore, a quelli sorti anteriormente ed ancora in vita, se in tal modo si disconoscano gli effetti già verificatisi del fatto passato o si venga a togliere efficacia, in tutto o in parte, alle conseguenze attuali e future di esso. Lo stesso principio implica, invece, che la legge nuova possa essere applicata ai fatti, agli status e alle situazioni esistenti o sopravvenute alla data della sua entrata in vigore, ancorché conseguenti ad un fatto passato, quando essi, ai fini della disciplina disposta dalla nuova legge, debbano essere presi in considerazione in se stessi, prescindendosi completamente dal collegamento con il fatto che li ha generati, in modo che resti escluso che, attraverso tale applicazione, sia modificata la disciplina giuridica del fatto generatore.

L'art. 2, comma 2-sexies, lett. c), della l. n. 89 del 2001, ha inciso, in particolare, sulla disciplina del riparto dell'onere della prova, con riferimento al presupposto per la sussistenza del pregiudizio da irragionevole durata del processo, nel senso di contemplare una presunzione iuris tantum di disinteresse della parte a coltivare il giudizio in caso di estinzione verificatasi ai sensi degli artt. 306 e 307 c.p.c. È stata così posta, in favore dell'Amministrazione, in vista della statuizione giudiziale, una più favorevole presunzione legale relativa rispetto al quadro legislativo previgente, che non può trovare applicazione unicamente nei processi di equa riparazione già iniziati al momento dell'entrata in vigore della nuova regolamentazione.

Le presunzioni iuris tantum di insussistenza del pregiudizio da irragionevole durata del processo, introdotte dall'art. 2, comma 2-sexies, della l. n. 89 del 2001, sono, invero, idonee ad influire sul diritto della parte a dimostrare l'effettività del patema d'animo da riparare. L'applicazione di tali disposizioni a domande di equa riparazione proposte prima del 1° gennaio 2016, e cioè prima dell'entrata in vigore della l. n. 208 del 2015, avrebbe ripercussioni in ordine al regime delle prove richieste nel procedimento di cui alla l. n. 89/2001, destando sospetti di irrazionalità e di illegittimità costituzionale sotto il profilo del principio di difesa ex art. 24 Cost. Si osserva in dottrina come ogni disposizione legislativa sopravvenuta, che introduca nuovi oneri probatori, oppure ripartisca diversamente tali oneri tra le parti del rapporto sostanziale, non può operare nell'ambito dei processi in corso, in quanto chiama l'uno o l'altro dei contendenti ad addurre prove che questi in origine non era tenuto a fornire, ponendosi altrimenti a repentaglio la garanzia costituzionale del diritto di difesa, la quale implica anche la garanzia di poter fornire la prova e di "difendersi provando". L'illegittimità dell'applicazione retroattiva dalla norma che introduca una presunzione discende, in definitiva, dalla considerazione dell'effetto sorpresa determinato dalla necessità di fornire prove che, al momento del promovimento della lite, non costituivano oggetto dell'onere della parte.

Contenendo l'art. 2, comma 2-sexies, lett. c), della l. n. 89 del 2001, introdotto dalla l. n. 208 del 2015, una presunzione iuris tantum di insussistenza del pregiudizio da irragionevole durata del processo, esso pone, dunque, una nuova disciplina della formazione e della valutazione della prova nel processo. In assenza di norme che diversamente dispongano, e perciò proprio in forza dell'art. 11 delle preleggi, l'art. 2, comma 2-sexies, lett. c), della l. n. 89 del 2001, senza che rilevi la natura sostanziale o processuale della disposizione, dando luogo a ius superveniens operante sugli effetti della domanda e implicante un mutamento dei presupposti legali cui è condizionata la disciplina di ogni singolo caso concreto, non può che trovare applicazione avendo riguardo al momento della proposizione della domanda di equa riparazione (e, quindi, anche nella fattispecie in esame, essendo stata la domanda presentata il 28 luglio 2016).

Il ricorso va perciò rigettato.

Non occorre regolare le spese del giudizio di cassazione, non avendo l'intimato Ministero svolto attività difensive.

Essendo il procedimento in esame esente dal pagamento del contributo unificato, non si deve far luogo alla dichiarazione di cui al comma 1-quater dell'art. 13 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, introdotto dall'art. 1, comma 17, della l. 24 dicembre 2012, n. 228.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.