Corte di cassazione
Sezione VI penale
Sentenza 11 febbraio 2020, n. 11626

Presidente: Calvanese - Estensore: Bassi

RITENUTO IN FATTO

1. Mette conto di premettere che, nell'ambito del presente procedimento, Maurizio C., Hendrikus Berardus H. e Joahannes Hendrikus K. sono stati rinviati a giudizio per rispondere del reato sub capo E) di cui agli artt. 110, 319, 319-ter e 321 c.p., per avere C. - nella qualità di coadiutore legale della procedura fallimentare della società "Dragomar S.p.A." (dichiarata fallita con sentenza del Tribunale di Roma del 28 gennaio 2002) - ricevuto da H. e K. - i quali agivano per conto delle società "Boskalis International BV" e "Boskalis s.r.l." - la somma complessiva di 571.250,60 euro, quale corrispettivo per il compimento di atti contrari ai doveri dell'ufficio, finalizzati a favorire dette società nell'acquisizione, a condizioni vantaggiose e con preferenza rispetto ad altri potenziali acquirenti, di beni dell'azienda della fallita "Dragomar S.p.A." e consistiti, in particolare, nello stipulare, in epoca antecedente alla gara, un contratto di affitto di azienda con la "Boskalis International" e un contratto di consulting e management con il quale il fallimento riconosceva alla "Boskalis" un corrispettivo di 2.200.000 dollari a fronte di prestazioni imprecisate e prive di effettivo valore commerciale, sì da consentire una corrispondente riduzione del prezzo di acquisto; fatti commessi in Roma dal settembre 2001 i primi mesi del 2004.

Le società ricorrenti "Boskalis International BV" e "Boskalis Dragomar s.r.l." (già "Boskalis Italia s.r.l.") sono state rinviate a giudizio (unitamente ad altre società del gruppo) in relazione all'illecito amministrativo sub capo F) ex artt. 5 e 25 d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, derivante dal reato di cui agli artt. 110, 319, 319-ter e 321 c.p. di cui al capo che precede, delitto commesso nell'interesse ed a vantaggio delle società, tutte collegate tra loro e riferibili al gruppo "Boskalis", da persone che rivestivano al momento del fatto funzioni di rappresentanza della società e precisamente da Hendrikus Berardus H. - legale rappresentante della "Boskalis International BV" nonché direttore del settore business unit manager area middle della società capogruppo - e da Joahannes Hendrikus K. - direttore del settore corporate strategy & business development della società capogruppo -, settori dotati di autonomia funzionale e finanziaria; fatti commessi in Roma tra il settembre 2001 ed i primi mesi del 2004.

1.1. Con la sentenza del 4 giugno 2015, avendo riguardo alle sole posizioni dei ricorrenti, il Tribunale di Roma ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di C., H. e K. in relazione al delitto di corruzione di cui al capo E) in quanto estinto per intervenuta prescrizione, ha riconosciuto la responsabilità amministrativa derivante da reato delle società ricorrenti "Boskalis International BV" e "Boskalis Dragomar s.r.l." (già "Boskalis Italia s.r.l.") nonché di "Boskalis Westminster International BV", applicando a ciascuna di esse la sanzione pecuniaria di 300 quote ciascuna da 1000 euro, mentre ha escluso la responsabilità delle altre due società del gruppo rinviate a giudizio.

1.2. Con la sentenza impugnata, la Corte d'appello di Roma, sempre avendo riguardo alle sole posizioni che vengono in rilievo, in riforma dell'appellata sentenza di primo grado, ha escluso la responsabilità derivante da reato di "Boskalis Westminster International BV" ed ha confermato l'appellata decisione del Tribunale nei confronti degli odierni ricorrenti.

2. Nei ricorsi a firma dei rispettivi difensori di fiducia, i ricorrenti chiedono l'annullamento del provvedimento per i motivi di seguito sintetizzati ai sensi dell'art. 173 disp. att. c.p.p.

In particolare, Maurizio C. eccepisce:

2.1. la violazione di legge processuale in relazione agli artt. 521 e 522 c.p.p., per avere i giudici della cognizione di primo e di secondo grado immutato il fatto storico originariamente addebitato al C. trascurando l'originario impianto accusatorio patentemente smentito dalle acquisizioni probatorie, là dove sono passati dalla ricostruzione del fatto in termini di compimento di atti contrari ai doveri d'ufficio finalizzati a favorire la società "Boskalis" ai fini dell'acquisizione a condizioni vantaggiose di beni e con preferenza rispetto ad altri potenziali acquirenti (con particolare riferimento alla stipula del contratto di affitto dell'azienda e di un contratto di consulting e management a condizioni svantaggiose per la fallita) a riconoscere invece il pregio del contratto di affitto d'azienda così come del contratto di consulenza e, dunque, l'assoluta adeguatezza del prezzo incassato dal fallimento, con ciò inquadrando la fattispecie concreta nella corruzione per atto del proprio ufficio;

2.2. la violazione di legge penale ed il vizio di motivazione in relazione all'art. 319-ter c.p. (nella formulazione antecedente al 2012), per avere i decidenti di merito dato per provata la richiesta e la percezione di un corrispettivo illecito - il cui importo non è peraltro indicato nel capo d'imputazione -, in assenza di una formulazione della promessa da parte dell'extraneus; la difesa rileva come non sia dato di comprendere come possa ritenersi suscettibile di integrare la fattispecie incriminatrice in oggetto un'attività "corretta" o un atto giudiziario oggettivamente "giusto", sebbene soggettivamente compiuto allo scopo di recare un vantaggio o un danno a qualcuno; aggiunge come l'interpretazione che consentisse l'applicabilità "ad ampio spettro" della fattispecie incriminatrice in esame in forza del generico rinvio operato agli artt. 318 e 319 c.p., non potrebbe non comportare l'incostituzionalità della norma per evidente violazione sia del principio di legalità ex art. 25 Cost. per indeterminatezza del precetto, sia dei principi di ragionevolezza e di proporzionalità ex art. 3 Cost., stante la parificazione a fini sanzionatori di condotte di "contenuto" e di "peso" dell'offesa completamente diversi;

2.3. la violazione di legge penale in relazione all'art. 357 c.p., per avere la Corte d'appello erroneamente riconosciuto in capo al C. la qualità di pubblico ufficiale sebbene egli, quale coadiutore giuridico del curatore fallimentare, non abbia concorso in alcun modo ad esercitare la funzione giudiziaria, ma si sia limitato allo svolgimento della funzione di custodia giudiziaria dei beni;

2.4. la violazione di legge penale e processuale ed il vizio di motivazione in relazione alla valutazione di attendibilità delle dichiarazioni rese dal testimone assistito Salvatore T., per avere i Giudici della cognizione violato il disposto dell'art. 500 c.p.p. che consente l'utilizzazione delle dichiarazioni rese in fase di indagini preliminari ed oggetto di contestazione ai soli fini della valutazione della credibilità del teste e non anche ai fini del giudizio di penale responsabilità.

2.5. Nella memoria depositata in cancelleria, la difesa del C. insiste per l'accoglimento del ricorso, aggiungendo nuovi argomenti a supporto dei motivi già proposti nel ricorso originario.

3. Nell'atto presentato dal comune difensore, Hendrikus Berardus H. e Joahannes Hendrikus K. deducono:

3.1. la violazione di legge penale in relazione all'art. 319-ter c.p., per avere la Corte d'appello erroneamente valutato soltanto la sussistenza dei presupposti per affermare ictu oculi l'innocenza degli imputati ex art. 129 c.p.p., mentre avrebbe dovuto procedere ad una valutazione nel merito in ragione dello stretto nesso intercorrente fra la responsabilità penale delle persone fisiche e la responsabilità amministrativa degli enti, confermata dal Collegio distrettuale a carico delle due società del gruppo "Boskalis"; tanto premesso, i ricorrenti rilevano come, nella specie, facciano difetto i presupposti del reato di corruzione in atti giudiziari atteso che, in primo luogo, risulta evidente l'inidoneità della promessa fatta dall'imputato K. a seguito della richiesta avanzata dal coimputato C., intermediata dal T. e dal significato equivoco, per di più in relazione ad un atto già adottato e dante pertanto luogo ad un'ipotesi di corruzione susseguente non riconducibile alla previsione dell'art. 319-ter c.p. ante riforma del 2012; in secondo luogo, non è integrato l'elemento soggettivo, essendo la "Boskalis" rimasta l'unica società interessata ai beni della fallita e mancando pertanto l'intento di favorirla a scapito di altre; in terzo luogo, non è ravvisabile in capo al C. la qualifica di pubblico ufficiale, in quanto il coadiutore del curatore - dipendendo dal curatore - non gode di un potere valutativo decisionale autonomo;

3.2. la violazione di legge processuale in relazione agli artt. 192, 197-bis c.p.p. e il vizio di motivazione, per avere la Corte distrettuale ritenuto utilizzabili ai fini del giudizio di responsabilità le dichiarazioni rese in indagini dal teste assistito Salvatore T., sebbene impiegate per le contestazioni e pertanto utilizzabili ai soli fini della valutazione di attendibilità del dichiarante; per altro verso, i ricorrenti pongono in luce come non vi sia prova della loro consapevolezza circa la qualifica di pubblico ufficiale in capo al C.

3.3. Nella memoria depositata in cancelleria, la difesa di H. e K. insiste per l'accoglimento del ricorso, ribadendo i motivi già illustrati nel ricorso originario.

4. Le società "Boskalis International BV" e "Boskalis Dragonnar s.r.l." (già "Boskalis Italia s.r.l.") denunciano:

4.1. la violazione di legge penale ed il vizio di motivazione in relazione agli artt. 319, 319-ter e 321 c.p., per avere la Corte d'appello erroneamente ritenuto integrato l'elemento oggettivo e soggettivo del reato di corruzione in atti giudiziari in capo agli imputati di nazionalità olandese K. e H. sub capo E), reato-presupposto della ritenuta responsabilità degli enti sub capo F); a sostegno del motivo, la difesa evidenzia come, ai fini dell'integrazione della fattispecie di cui all'art. 319-ter c.p. - nella formulazione antecedente alla riforma del 2012 -, fosse necessario provare uno stretto collegamento fra il denaro o l'utilità data o promessa rispetto ad un determinato atto d'ufficio e come la corruzione in atti giudiziari impropria susseguente fosse estranea all'alveo dell'incriminazione; sotto diverso aspetto, rimarca l'assenza dell'elemento soggettivo del reato-presupposto, atteso che la "Boskalis", secondo quanto ricostruito in sentenza, era rimasta l'unica società interessata all'acquisto sicché risulta del tutto carente l'oggetto del presunto patto corruttivo non essendovi soggetti favoriti né danneggiati; d'altra parte, evidenzia come non sia ravvisabile in capo al C. la qualifica di pubblico ufficiale;

4.2. la violazione dell'art. 192 c.p.p. ed il vizio di motivazione in relazione alla ritenuta integrazione del reato-presupposto con riguardo al presunto esercizio della funzione giudiziaria finalizzato a favorire le società olandesi, alla ricostruzione del presunto accordo corruttivo, alla valutazione delle dichiarazioni rese ex art. 197-bis c.p.p. da Salvatore T. giudicato in un procedimento connesso, alla destinazione della somma elargita ed alla qualifica di pubblico ufficiale del coautore del curatore fallimentare; a sostegno del motivo, la difesa delle persone giuridiche sottolinea come, nella motivazione della decisione impugnata, si dia conto del fatto che la scelta delle società concorrenti di non partecipare alla gara per la vendita del compendio fallimentare dipese da autonome scelte strategiche e di politica aziendale, indipendenti da qualunque comportamento posto in essere dagli organi della procedura; come i decidenti di merito non abbiano considerato il contesto nel quale l'imputato in un procedimento connesso T. aveva reso le prime dichiarazioni, segnatamente in status detentionis, ed abbiano comunque impiegato a fini di prova dichiarazioni oggetto delle contestazioni e pertanto utilizzabili soltanto per valutare l'attendibilità del dichiarante; infine, come non vi sia prova del fatto che K. fosse consapevole della veste di pubblico ufficiale del coadiutore C.;

4.3. la violazione degli artt. 20 c.p.p. e 5 e 25 d.lgs. 22 aprile 2001, n. 231, per avere i decidenti di merito erroneamente ravvisato la giurisdizione dell'A.G. nazionale sebbene si tratti di condotte commesse in Italia da società aventi sede principale all'estero, non potendosi muovere un rimprovero all'ente derivante da una "colpa di organizzazione" se non nel luogo ove esso abbia il suo centro decisionale; a fondamento della deduzione, la difesa rimarca come la responsabilità dell'ente, sebbene oggetto di accertamento in sede penale, mantenga comunque natura amministrativa, di tal che la giurisdizione per l'accertamento deve essere radicata nel luogo ove si è verificata la lacuna organizzativa e come le società imputate non abbiano alcuna effettiva operatività sul territorio nazionale, limitandosi a svolgere in Italia un'attività prettamente formale;

4.4. il vizio di motivazione in relazione all'art. 5, commi 1 e 2, d.lgs. 22 aprile 2001, n. 231, per avere i giudici della cognizione ritenuto in modo inesatto sussistente l'interesse delle società olandesi imputate, senza distinguere - come sarebbe stato doveroso - i diversi ruoli, l'interesse e le rispettive - eventuali - responsabilità delle plurime società appartenenti al gruppo "Boskalis"; la difesa degli enti aggiunge che, come indicato nel capo F) e confermato dallo stesso imputato K. nella sede dibattimentale (v. udienza 3 aprile 2014), questi ricopriva la veste di alto funzionario della società capogruppo, di tal che i fatti oggetto del presente procedimento avrebbero dovuto essere imputati alla holding e rispetto ad essa avrebbero dovuto essere valutato l'interesse e/o il vantaggio.

4.5. Nella memoria depositata in cancelleria, la difesa delle società "Boskalis International BV" e "Boskalis Dragomar s.r.l." (già "Boskalis Italia s.r.l.") ha prodotto copia della sentenza del Tribunale civile di Terni del 25 gennaio 2019 con cui è stata rigettata la pretesa risarcitoria della Curatela del fallimento "Dragomar S.p.A." nei confronti di Salvatore T. per le condotte di concorso in corruzione propria in atti giudiziari ed ha, quindi, insistito per l'accoglimento dei ricorsi.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I ricorsi sono infondati in relazione a tutte le deduzioni mosse e devono, pertanto, essere disattesi.

2. Con riguardo alle impugnazioni proposte dagli imputati persone fisiche Maurizio C., Hendrikus Berardus H. e Joahannes Hendrikus K., giova premettere che, nelle more della celebrazione del giudizio di primo grado, risulta essere maturato il termine di prescrizione del delitto di corruzione in atti giudiziari loro ascritto.

Ineccepibilmente la Corte capitolina ha pertanto confermato la declaratoria di non luogo a procedere compiuta dal Tribunale senza entrare nel merito delle questioni processuali e di merito da essi proposte col gravame.

2.1. Costituisce difatti ius receptum che, in presenza di una causa di estinzione del reato, il giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell'art. 129, comma 2, c.p.p. soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l'esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell'imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, così che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo appartenga più al concetto di "constatazione", ossia di percezione ictu oculi, che a quello di "apprezzamento" e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento (Sez. un., n. 35490 del 28 maggio 2009, Tettamanti, Rv. 244274).

Nello stesso arresto, le Sezioni unite hanno inoltre chiarito che, qualora ricorra una causa di estinzione del reato, non sono rilevabili in sede di legittimità le questioni di natura processuale suscettibili di dare luogo a nullità anche assolute della sentenza impugnata né i vizi dell'impianto motivazionale della decisione, atteso che, nell'ambito dell'eventuale giudizio di rinvio, il giudice del rinvio avrebbe comunque l'obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva (Sez. un., n. 35490 del 28 maggio 2009, Tettamanti, Rv. 244275). Tale principio è stato anche di recente riaffermato da questa Suprema Corte nel suo più ampio consesso, là dove si è ribadito che la causa estintiva del reato per prescrizione prevale sulla nullità assoluta ed insanabile della sentenza (nella specie, derivante dalla pronuncia della sentenza d'appello de plano in violazione del contradditorio tra le parti), sempreché non risulti evidente la prova dell'innocenza dell'imputato, dovendo la Corte di cassazione adottare in tal caso la formula di merito di cui all'art. 129, comma 2, c.p.p. (Sez. un., n. 28954 del 27 aprile 2017, Iannelli, Rv. 269810; Sez. 2, n. 6338 del 18 dicembre 2014, dep. 2015, Argentieri, Rv. 262761; Sez. un., n. 17179 del 27 febbraio 2002, Conti, Rv. 221403).

2.2. Né può ritenersi che la valutazione oltre i limiti di cui all'art. 129 del codice di rito si imponga nella specie in considerazione del fatto che - come sostenuto dalla difesa di H. e K. - al reato di corruzione in atti giudiziari si connette la responsabilità delle persone giuridiche "Boskalis International BV" e "Boskalis Dragomar s.r.l." (già "Boskalis Italia s.r.l."), sì da poter (o dover) applicare in via analogica il principio di diritto affermato da questa Corte a composizione allargata nella già citata sentenza Tettamanti quanto alla necessità di un accertamento ai sensi dell'art. 530 c.p.p. nel caso in cui alla responsabilità penale si associ la responsabilità civile (Sez. un., n. 35490 del 28 maggio 2009, Tettamanti, Rv. 244273).

Ed invero, nell'invocare l'applicazione analogica del principio testé ricordato, i ricorrenti assimilano tra loro situazioni all'evidenza eterogenee.

Nel caso in cui dal reato derivi anche la responsabilità civile e il danneggiato si sia costituito parte civile, l'imputato ha diritto - nonostante la maturata causa estintiva operante sul piano penale - ad una valutazione ex professo del compendio probatorio ai fini dell'eventuale assoluzione con formula piena, atteso che da tale decisione dipendono direttamente i riverberi civilistici della condotta e dei quali egli continua, nonostante la prescrizione, a dover rispondere.

Situazione completamente eterogenea è, invece, quella in cui dal fatto-reato derivi anche la responsabilità amministrativa degli enti, là dove detta responsabilità, da un lato, grava su di un soggetto diverso dall'imputato persona fisica - id est sulla persona giuridica, sebbene con essa l'imputato intrattiene una relazione qualificata -; dall'altro lato, come si evince dal chiaro disposto dell'art. 8 d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, tale responsabilità è autonoma da quella (penale) incombente sull'autore del reato-presupposto. Non v'è pertanto alcuna ragione giuridica, né logica, per ritenere che, dal persistere della responsabilità amministrativa dell'ente derivante dal reato-presupposto nonostante l'intervenuta prescrizione di esso, discenda un interesse giuridicamente qualificato dell'imputato (persona fisica) di quest'ultimo ad ottenere una delibazione piena della sua responsabilità (penale).

2.3. Sulla scorta delle considerazioni che precedono, nella specie risulta(va)no pertanto assorbite dalla sopravvenuta estinzione dei reati per prescrizione - in quanto recessive rispetto ad essa - tutte le questioni processuali e le nullità, anche assolute, in ipotesi realizzatesi nel procedimento/processo.

Con il maturare della causa estintiva sono difatti divenute non più coltivabili le nullità dedotte dai ricorrenti derivanti sia dall'eccepita violazione del combinato disposto degli artt. 521 e 522 c.p.p. (v. primo motivo della difesa di C. sub punto 2.1 del ritenuto in fatto), sia dall'utilizzo ai fini del giudizio di penale responsabilità delle dichiarazioni rese da Salvatore T. in fase di indagini oggetto delle contestazioni ex art. 500 c.p.p. (v. quarto motivo della difesa di C. e secondo motivo della difesa di H. e K., rispettivamente sub punti 2.4 e 3.2 del ritenuto in fatto).

2.4. Ad ogni buon conto, quanto al primo motivo in rito del C., non può farsi a meno di rilevare che la violazione del principio di necessaria correlazione fra contestazione e sentenza invocato dalla difesa ricorre soltanto allorquando il giudice pronunci condanna in relazione ad una fattispecie concreta, nella sua dimensione storico-fattuale, completamente diversa da quella descritta nel decreto che dispone il giudizio ovvero risultante all'esito delle contestazioni suppletive. Secondo l'insegnamento di questa Suprema Corte, espresso anche a Sezioni unite, per aversi mutamento del fatto occorre infatti una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l'ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l'indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l'iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione (Sez. un., n. 36551 del 15 luglio 2010, Carelli, Rv. 248051).

Immutatio facti radicale che, anche avendo riguardo alla stessa prospettazione difensiva, certamente non ricorre nella specie.

Infondato risulta anche il secondo motivo processuale con cui i ricorrenti hanno eccepito la violazione dell'art. 500 del codice di rito, rinviando sul punto a quanto si dirà nel prosieguo sub paragrafo 5.1.

2.5. In relazione alle censure di merito (v. secondo motivo della difesa di C. e primo motivo della difesa di H. e K., rispettivamente sub punti 2.2 e 3.1 del ritenuto in fatto), avendo riguardo agli elementi probatori ricordati dai giudici della cognizione ed alla ricostruzione storico-fattuale della vicenda sub iudice compiuta dal Tribunale (quanto ai tre imputati persone fisiche) nonché dalla stessa Corte d'appello quanto alla responsabilità degli enti, incensurabile risulta la ritenuta assenza di elementi per rilevare ictu oculi l'innocenza dei tre imputati persone fisiche.

3. Nonostante l'intervenuta estinzione del reato per prescrizione, devono invece essere vagliate in questa Sede le questioni in diritto concernenti l'inquadramento giuridico della fattispecie, in quanto - almeno in astratto - suscettibili di travolgere alla radice - e con evidenza - il giudizio di responsabilità espresso a carico degli imputati.

3.1. Non coglie nel segno la censura con la quale la difesa dei ricorrenti contesta la ravvisata qualifica di pubblico ufficiale in capo a Maurizio C., il quale - secondo la contestazione recepita nel decreto che dispone il giudizio confermata dai Giudici della cognizione - commetteva il delitto di corruzione in atti giudiziari la veste di coadiutore del curatore fallimentare ai sensi del comma 2 dell'art. 32 r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (legge fallimentare) (v. terzo motivo della difesa di C. e primo motivo della difesa di H. e K., rispettivamente sub punti 2.3 e 3.1 del ritenuto in fatto).

3.2. Mette conto di notare che il coadiutore del curatore fallimentare è un professionista nominato da quest'ultimo ai fini della gestione dei beni assoggettati alla procedura concorsuale, del recupero di beni alla massa attiva e dello svolgimento di attività professionale in rappresentanza della curatela. Il curatore provvede alla nomina del coadiutore previa autorizzazione del "comitato dei creditori", dunque dell'organo istituzionalmente preposto a consentire la migliore realizzazione delle finalità del procedimento concorsuale: la nomina del coadiutore risponde, pertanto, ad una specifica esigenza della procedura fallimentare nel cui interesse questo soggetto svolge la sua attività. Secondo la migliore dottrina, il coadiutore è, pertanto, un ausiliario, più che del curatore, della massa in quanto presta un'opera integrativa (e non sostitutiva come il delegato) dell'attività del curatore con compiti inerenti ad un determinato settore o a determinati aspetti dell'intera procedura concorsuale.

Conclusivamente, secondo quanto testé rilevato, pare non revocabile in dubbio che il coadiutore svolga un'attività di carattere pubblicistico sub specie giudiziario, tenuto conto del procedimento in seno al quale essa si espleta - cioè la procedura concorsuale di natura giurisdizionale - e della finalità cui essa è rivolta - cioè la salvaguardia dell'interesse dei creditori a recuperare e mantenere salva la garanzia patrimoniale su cui essi possano far valere le proprie ragioni -. Secondo la stessa prospettazione difensiva, C. operava in ausilio del curatore e, soprattutto, si occupava della custodia giudiziaria dei beni assoggettati al fallimento, funzioni entrambi strettamente connesse e funzionali alla procedura concorsuale di natura propriamente giudiziaria.

3.3. La qualifica di pubblico ufficiale del coadiutore del curatore fallimentare risulta confermata per tabulas dalla previsione dell'art. 231 della legge fallimentare), là dove estende anche a tale figura le disposizioni di cui agli artt. 228, 229 e 230 stessa legge, con ciò realizzandone la piena parificazione - quanto agli oneri ed alle responsabilità anche penali - rispetto al curatore del fallimento. In particolare, il combinato disposto degli artt. 228 e 231 - nel prevedere expressis verbis l'estensione al coadiutore del curatore dell'ipotesi delittuosa speciale di cui allo stesso 228 qualora non siano ravvisabili le fattispecie incriminatrici in tema di pubblici ufficiali di cui agli artt. 315, 316, 317, 319, 321, 322 e 323 c.p. e, quindi, giusta l'espresso richiamo agli artt. 318 e 319, anche di cui all'art. 319-ter c.p. - ne riconosce implicitamente, ma inequivocabilmente, la veste pubblicistica.

3.4. Consolidato è, d'altronde, l'insegnamento di questa Corte di riconoscere al coadiutore del curatore del fallimento la natura di pubblico ufficiale, in quanto cooperante a titolo oneroso alla funzione di custodia giudiziaria dei beni affidati al curatore (Sez. 6, n. 13107 del 21 gennaio 2009, Zelli, Rv. 243124; Sez. 6, n. 11752 del 16 ottobre 2000, Puma, Rv. 217384; Sez. 6, n. 38986 del 24 giugno 2010, Bertoncello, Rv. 248592; Sez. 5, n. 15951 del 16 gennaio 2015, Bandettini, Rv. 263263).

4. È destituita di fondamento anche la doglianza con la quale le difese contestano la sussumibilità sotto la previsione di cui all'art. 319-ter c.p. (nella formulazione antecedente al 2012) della fattispecie concreta, in quanto integrante un'ipotesi di corruzione in atti giudiziari susseguente per atto conforme ai doveri d'ufficio (v. secondo motivo della difesa di C. e primo motivo della difesa di H. e K., rispettivamente sub punti 2.2 e 3.1 del ritenuto in fatto).

4.1. Ai fini della soluzione del quesito, occorre muovere dalla ricostruzione dei fatti compiuta dai decidenti di merito là dove hanno dato per provata la richiesta da parte del C. ai rappresentanti delle società olandesi, attraverso l'intermediazione di Salvatore T. - legale della fallita "Dragomar S.p.A." -, di un corrispettivo illecito per compiere un atto contrario ai propri doversi d'ufficio nello svolgimento della funzione di coadiutore giudiziario nella procedura concorsuale che riguardava la fallita, richiesta cui faceva seguito il versamento da parte di K. di una somma di denaro bonificata sul conto corrente del T. e da questi girata sul conto cointestato con lo stesso C. affinché quest'ultimo potesse avvantaggiarsene in via esclusiva.

4.2. Tracciata l'intelaiatura della fattispecie concreta, va rilevato, per un verso, come, già prima della riforma attuata con l. 26 aprile 1990, n. 190, l'art. 319-ter c.p. sanzionasse i fatti contemplati da entrambi gli artt. 318 e 319 c.p. qualora commessi per favorire o danneggiare una parte in un processo; per altro verso, come - ai fini dell'inquadramento giuridico del fatto sub iudice (nei termini appunto ricostruiti dai giudici romani di primo e di secondo grado) -, poco rilevi che, con la novella del 1990, il legislatore abbia riscritto la fattispecie sanzionata dall'art. 318 c.p., passando dal sanzionare la corruzione per un "atto d'ufficio" a colpire la corruzione per "l'esercizio della funzione". A C., H. e K. è invero contestata la corruzione in atti giudiziari - al primo quale intraneus, ai secondi quali extranei - in relazione a specifici atti compiuti dal coadiutore per favorire le società del gruppo "Boskalis" nell'aggiudicazione di beni facenti parte del compendio fallimentare, di tal che il delitto de quo risulterebbe comunque integrato quand'anche detti atti fossero stati conformi ai doveri d'ufficio (cioè oggettivamente "giusti", secondo la prospettazione difensiva), in forza del combinato disposto dell'art. 319-ter c.p. e dell'art. 318 c.p. nella formulazione precedente alla novella con la l. 26 aprile 1990, n. 86.

Secondo il principio di diritto anche di recente riaffermato da questa Corte di legittimità, ai fini dell'integrazione del delitto di corruzione in atti giudiziari, è difatti indifferente che l'atto compiuto sia conforme o meno ai doveri d'ufficio, assumendo rilievo preponderante la circostanza che l'autore del fatto sia venuto meno al dovere costituzionale di imparzialità e terzietà soggettiva e oggettiva alterando la dialettica processuale (v. da ultimo Sez. 6, n. 48100 del 9 ottobre 2019, Parisi, Rv. 277411).

4.3. E ciò a tacer del fatto che la prospettazione difensiva sul punto non è stata recepita dai Giudici di merito, là dove - nella parte della sentenza in verifica dedicata alla trattazione della posizione delle persone giuridiche (v. pagine 12 e 13 della sentenza impugnata) - hanno espressamente dato atto del fatto che Maurizio C. agì al fine di favorire una parte processuale (id est le società del gruppo "Boskalis" ricorrenti) a discapito di altre società interessate, quali la "Van Oord" e la "Dredging International", ponendo pertanto in essere atti contrari ai doveri d'ufficio.

4.4. Né v'è materia per il sospetto d'incostituzionalità paventato dalla difesa del C. - con riguardo ai parametri di cui agli artt. 25 e 3 Cost. - quanto all'applicabilità "ad ampio spettro" dell'ipotesi delittuosa di cui all'art. 319-ter c.p. in relazione ad atti riportabili sia all'art. 318 c.p., sia all'art. 319 c.p.

Basti rilevare, da un lato, che la fattispecie quale risultante dalla mutua integrazione delle indicate norme non rende affatto indeterminato il precetto, là dove esso va integrato - come per molte ipotesi incriminatrici - alla luce del contenuto di norme extrapenali che regolano l'attività o la funzione presa in esame dalla previsione normativa; dall'altro lato, che la disposizione non realizza alcuna parificazione sanzionatoria di situazioni diseguali atteso che l'ampia forbice edittale consente al giudice di graduare la pena al diverso "contenuto" e "peso" delle offese ricadenti ora sotto l'ipotesi di cui al combinato disposto degli artt. 319-ter e 318 c.p., ora sotto l'ipotesi di cui al combinato disposto degli artt. 319-ter e 319 c.p.

4.5. Quanto poi all'ulteriore rilievo mosso dalle difese, dopo l'intervento risolutore del più ampio consesso di questa Corte di legittimità risalente a dieci anni orsono, risulta ormai pacifica la sussumibilità della corruzione in atti giudiziari susseguente nella previsione dell'art. 319-ter c.p. (anche nella formulazione antecedente alla riforma del 2012), atteso che detto delitto si configura pur quando il denaro o l'utilità siano ricevuti, o di essi sia accettata la promessa, per un atto già compiuto (cosiddetta appunto corruzione susseguente) (Sez. un., n. 15208 del 25 febbraio 2010, Mills, Rv. 246581). Sempre che - ovviamente - la condotta sia commessa per favorire o danneggiare una parte in un processo civile, penale o amministrativo, come appunto acclarato dai giudici capitolini nel caso di specie.

5. Non meritano accoglimento neanche i ricorsi proposti dalle società "Boskalis International BV" e "Boskalis Dragomar s.r.l." (già "Boskalis Italia s.r.l.").

Prima di passare al vaglio delle diverse questioni proposte, occorre rilevare l'inutilizzabilità della sentenza del Tribunale civile di Terni del 25 gennaio 2019 prodotta dalla difesa delle società in allegato alla memoria depositata in cancelleria. Si tratta all'evidenza di un elemento sopravvenuto rispetto alla decisione oggetto del ricorso, dunque non valutato dal Collegio distrettuale e, in quanto tale, extra devolutum.

5.1. Tanto premesso, è d'uopo ancora precisare che, in relazione all'illecito amministrativo de quo, non è maturato il termine di prescrizione previsto dall'art. 22 d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 e che - come già sopra incidentalmente notato -, giusta disposizione dell'art. 8 d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche è autonoma dalla responsabilità penale dell'autore del reato-presupposto e, dunque, indifferente al maturare della prescrizione per quest'ultimo. Ne discende che il giudice è tenuto all'accertamento autonomo della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e nel cui vantaggio l'illecito fu commesso che, però, non può prescindere da una verifica, quantomeno incidentale, della sussistenza del fatto-reato (v. da ultimo, Sez. 4, n. 22468 del 18 aprile 2018, Eurocos S.n.c., Rv. 273399).

6. Passando al vaglio dei motivi, è manifestamente infondata la questione in rito con cui la difesa degli enti denuncia la violazione degli artt. 20 c.p.p. e 5 e 25 d.lgs. 22 aprile 2001, n. 231, per avere i Giudici di merito erroneamente ravvisato la giurisdizione dell'autorità giudiziaria nazionale trattandosi di condotte commesse in Italia da società aventi la sede principale all'estero (v. motivo sub punto 4.3 del ritenuto in fatto).

6.1. Innanzitutto, non può non essere rilevato come l'art. 1, comma 2, d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, nel definire l'ambito applicativo delle disposizioni previste dallo stesso decreto legislativo non preveda alcuna distinzione fra gli enti aventi sede in Italia e quelli aventi sede all'estero.

6.2. D'altro canto, va notato come la responsabilità dell'ente ai sensi del decreto n. 231 del 2001 sia una responsabilità, sia pure autonoma, "derivata" dal reato, di tal che la giurisdizione va apprezzata rispetto al reato-presupposto, a nulla rilevando che la colpa in organizzazione e dunque la predisposizione di modelli non adeguati sia avvenuta all'estero.

Coerentemente con tale impostazione, l'art. 36 del decreto affida difatti la competenza a conoscere gli illeciti amministrativi al giudice penale competente per i reati dai quali essi dipendono e l'art. 38 dello stesso decreto esprime un chiaro favore verso il simultaneus processus ai fini dell'accertamento del reato-presupposto e dell'illecito amministrativo da esso derivante nell'ambito dello stesso procedimento.

6.3. Conferma l'assunto secondo il quale la giurisdizione va apprezzata con riferimento al reato-presupposto il disposto dell'art. 4 del decreto n. 231 del 2001 che - nel disciplinare la situazione opposta in cui il reato-presupposto sia stato commesso all'estero nell'interesse o a vantaggio di un ente avente la sede principale in Italia - assoggetta l'ente alla giurisdizione nazionale nei casi e alle condizioni previste dagli artt. 7, 8, 9 e 10 c.p., purché nei suoi confronti non proceda lo Stato del luogo in cui è stato commesso il fatto, realizzando una parificazione rispetto all'imputato persona fisica (salvo il limite del bis in idem internazionale).

6.4. Condivisibile risulta inoltre il passaggio argomentativo nel quale la Corte capitolina ha notato come, ai fini della procedibilità in ordine all'illecito amministrativo, sia del tutto irrilevante la nazionalità - appunto straniera - dell'ente, non essendovi ragione alcuna per ritenere che le persone giuridiche siano soggette ad una disciplina speciale rispetto a quella vigente per le persone fisiche sì da sfuggire ai principi di obbligatorietà e di territorialità della legge penale codificati agli artt. 3 e 6, comma primo, c.p., secondo i quali - rispettivamente - "la legge penale italiana obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano nel territorio dello Stato, salve le eccezioni stabilire dal diritto pubblico interno e dal diritto internazionale" e "chiunque commette un reato nel territorio dello Stato è punito secondo la legge italiana". D'altronde, il comma secondo dello stesso art. 6 considera commesso il reato in Italia, sottoponendolo alla giurisdizione del giudice italiano, anche qualora sia qui commessa una sola frazione dell'azione o dell'omissione o si sia qui verificato l'evento di condotta delittuosa, a maggior ragione allorché sia stato commesso in Italia (o qui debba ritenersi commesso) il reato-presupposto, componente la struttura complessa dell'illecito amministrativo.

D'altronde, l'esigenza di ripristinare la legalità e l'ordine violato - che appunto sta alla base del riconoscimento della giurisdizione nazionale e della connessa istanza punitiva - non potrebbe non riconoscersi in relazione ad un illecito che discenda direttamente da un fatto-reato che abbia realizzato sul territorio nazionale l'offesa o la messa in pericolo del bene protetto.

6.5. La lettura proposta dagli enti ricorrenti, oltre a porsi in frontale contrasto con i rammentati principi di obbligatorietà e di territorialità della legge penale, comporterebbe un chiaro vulnus al principio di eguaglianza, realizzando una chiara - ed ingiustificata - disparità di trattamento fra la persona fisica straniera (pacificamente soggetta alla giurisdizione nazionale in caso di reato commesso in Italia) e la persona giuridica straniera (in caso di reato-presupposto commesso in Italia).

6.6. Deve, pertanto, ritenersi che l'ente risponda, al pari di "chiunque" - cioè di una qualunque persona fisica -, degli effetti della propria "condotta", a prescindere dalla sua nazionalità o dal luogo ove si trova la sua sede principale o esplica in via preminente la propria operatività, qualora il reato-presupposto sia stato commesso sul territorio nazionale (o debba comunque ritenersi commesso in Italia o si versi in talune delle ipotesi nelle quali sussiste la giurisdizione nazionale anche in caso di reato commesso all'estero), all'ovvia condizione che siano integrati gli ulteriori criteri di imputazione della responsabilità ex artt. 5 e seguenti d.lgs. n. 231/2001. Per tale ragione è del tutto irrilevante la circostanza che il centro decisionale dell'ente si trovi all'estero e che la lacuna organizzativa si sia realizzata al di fuori dei confini nazionali, così come, ai fini della giurisdizione dell'A.G. italiana, è del tutto indifferente la circostanza che un reato sia commesso da un cittadino straniero residente all'estero o che la programmazione del delitto sia avvenuta oltre confine.

6.7. Né la soluzione ermeneutica sin qui tratteggiata - nel prevedere l'assoggettamento dell'ente straniero all'illecito amministrativo conseguente dall'omessa predisposizione di modelli organizzativi conformi a quello imposti dal decreto 6 giugno 2001, n. 231 -, può ritenersi tale da introdurre un trattamento discriminatorio fra soggetti anche giuridici comunitari in contrasto con la libertà di stabilimento stabiliti dagli artt. 43 e 48 del Trattato CE, come ventilato dalle difese.

Seguendo la linea del ragionamento difensivo si dovrebbe allora ritenere che il cittadino straniero non possa essere chiamato a rispondere di un reato commesso in Italia per il solo fatto che, nel proprio ordinamento, le regole a disciplina dell'attività presidiata dalla sanzione penale siano diverse, conclusione - questa - in chiaro contrasto con i principi di obbligatorietà e di territorialità espressi dal nostro codice penale.

Anzi, in senso contrario, non può non rilevarsi come l'inapplicabilità alle imprese straniere delle regole e degli obblighi previsti dal decreto n. 231 ed il conseguente esonero da responsabilità amministrativa realizzerebbe un'indebita alterazione della libera concorrenza rispetto agli enti nazionali, consentendo alle prime di operare sul territorio italiano senza dover sostenere i costi necessari per la predisposizione e l'implementazione di idonei modelli organizzativi.

6.8. A rinforzo dell'ermeneusi privilegiata si consideri altresì la disposizione introdotta all'art. 97-bis, comma 5, d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385, con il d.lgs. 9 luglio 2004, n. 197 (in attuazione della direttiva 2001/24/CE in materia di risanamento e liquidazione degli enti creditizi), con cui il legislatore ha espressamente esteso la responsabilità per l'illecito amministrativo dipendente da reato "alle succursali italiane di banche comunitarie o extracomunitarie", considerando dunque - ai fini della responsabilità ex decreto n. 231 - l'aspetto dell'operatività sul territorio nazionale a discapito di quello della nazionalità o del luogo della sede legale e/o amministrativa principale dell'ente.

6.9. A nulla rileva che (come obbiettato dalle ricorrenti), a norma dell'art. 25 della l. 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato), le società, le associazioni, le fondazioni ed ogni altro ente, pubblico o privato, anche se privo di natura associativa, siano disciplinati dalla legge dello Stato nel cui territorio è stato perfezionato il procedimento di costituzione e dalla legge italiana se la sede dell'amministrazione è situata in Italia ovvero se in Italia si trova l'oggetto principale di tali enti. Ed invero, detta disposizione ha chiaramente riguardo a profili civilistici (di regolamentazione degli aspetti costituitivi, statutari, organizzativi, operativi ecc. degli enti) e non può in alcun modo esonerare le persone giuridiche che "si trovano nel territorio dello Stato", qualunque nazionalità esse abbiano, dall'osservare - al pari delle persone fisiche - la legge penale vigente in Italia a norma dell'art. 3, comma primo, c.p. e, dunque, dal rispondere degli illeciti commessi con le condotte e le attività che esse svolgano nel nostro Paese a mezzo dei propri rappresentanti e/o soggetti sottoposti all'altrui direzione o vigilanza.

6.10. Tirando le fila delle considerazioni che precedono, si deve affermare il principio di diritto secondo il quale la persona giuridica è chiamata a rispondere dell'illecito amministrativo derivante da un reato-presupposto per il quale sussista la giurisdizione nazionale commesso dai propri legali rappresentanti o soggetti sottoposti all'altrui direzione o vigilanza, in quanto l'ente è soggetto all'obbligo di osservare la legge italiana e, in particolare, quella penale, a prescindere dalla sua nazionalità o dal luogo ove esso abbia la propria sede legale ed indipendentemente dall'esistenza o meno nel Paese di appartenenza di norme che discipli[ni]no in modo analogo la medesima materia anche con riguardo alla predisposizione e all'efficace attuazione di modelli di organizzazione e di gestione atti ad impedire la commissione di reati fonte di responsabilità amministrativa dell'ente stesso.

Deve, pertanto, essere recepito l'analogo principio di diritto di recente affermato dalla giurisprudenza di merito là dove ha ritenuto applicabile la disciplina del decreto n. 231 ad una società straniera priva di sede in Italia, ma operante sul territorio nazionale, in relazione ai delitti di omicidio e lesioni personali colposi (nel noto caso dell'incidente ferroviario di Viareggio) (v. Trib. Lucca, sentenza 31 luglio 2017, n. 222).

7. Va disattesa anche la seconda doglianza di natura processuale con cui gli enti hanno eccepito la nullità della sentenza in verifica in quanto fondata su di una prova inutilizzabile, segnatamente sulle dichiarazioni rese in fase d'indagini dall'imputato in procedimento connesso Salvatore T. (avvocato nominato dalla fallita "Dragomar S.p.A."), acquisite al fascicolo processuale all'esito delle contestazioni dibattimentali ex art. 500 c.p.p. (v. motivo sub punto 4.2 del ritenuto in fatto).

7.1. Secondo quanto si evince dalla ricostruzione delle scansioni del procedimento compiuta nella sentenza di primo grado e dalla lettura dell'incartamento processuale (cui questa Corte può direttamente accedere trattandosi di verificare la sussistenza o meno di un error in procedendo; v. Sez. un., n. 42792 del 31 ottobre 2001, Policastro, Rv. 220092; Sez. 1, n. 8521 del 9 gennaio 2013, Chahid, Rv. 255304):

- l'imputato in procedimento connesso Salvatore T. (avendo egli definito, con sentenza di applicazione della pena, la propria posizione processuale in relazione al concorso nello stesso reato-presupposto sub capo E) è stato sentito dal Tribunale di Roma all'udienza del 6 aprile 2006 quale "testimone assistito" ex art. 197-bis c.p.p. ed ha confermato in toto le dichiarazioni rese a sommarie informazioni testimoniali in fase di indagini;

- all'udienza del 7 maggio 2007, vista l'impossibilità di mantenere inalterata la composizione del collegio giudicante, il Tribunale ha disposto una serie di rinvii senza svolgere alcuna attività istruttoria per la "intervenuta precarietà del collegio, non prestando le difese il consenso alla successiva utilizzazione dell'attività istruttoria innanzi a diversi componenti";

- il processo è stato finalmente riaperto in data 20 febbraio 2012 davanti al collegio nella definitiva composizione, che ha disposto la "rinnovazione del dibattimento";

- all'udienza del 4 aprile 2013 T. è stato nuovamente sentito quale teste assistito.

In esordio dell'esame, alla specifica domanda del pubblico ministero, T. ha dichiarato expressis verbis di confermare integralmente le dichiarazioni rese il 6 aprile 2006 nella sede dibattimentale, dinanzi ad un collegio in diversa composizione, aggiungendo alcune "precisazioni" con le quali peraltro ha significativamente modificato la prima versione della vicenda, con conseguenti contestazioni delle precedenti dichiarazioni da parte dell'accusa ai sensi dell'art. 500 c.p.p. (v. trascrizione delle dichiarazioni all'udienza del 4 aprile 2013).

7.2. Ricostruito l'iter procedimentale di acquisizione delle dichiarazioni - predibattimentali e dibattimentali - di Salvatore T., giudica il Collegio che non vi sia materia per la denunciata inutilizzabilità del suo contributo di conoscenze, né per la conseguente nullità della sentenza in verifica.

Ed invero, come si è testé rilevato, nell'incipit dell'esame del 4 aprile 2013 dinanzi al collegio di merito che ha poi assunto la decisione di primo grado, T. ha confermato quanto già dichiarato dinanzi al Tribunale diversamente composto in perfetta aderenza a quanto già riferito nella fase delle indagini, conferma che ha comportato l'ingresso a pieno e legittimo titolo delle precedenti dichiarazioni dell'aprile 2006 fra il materiale valutabile da parte dei giudici ai fini della decisione.

Non può sottacersi come nessuna delle difese degli imputati e degli enti si sia immediatamente opposta a tale modalità di assunzione della testimonianza assistita, né abbia dedotto con i motivi d'appello l'inutilizzabilità delle dichiarazioni dell'aprile 2006 acquisite con siffatta procedura (id est mediante conferma, all'inizio della deposizione dell'aprile 2013, delle dichiarazioni dell'aprile 2006) e, a cascata, delle dichiarazioni rese a sommarie informazioni richiamate in tale sede.

Costituisce difatti principio acquisito in tema di testimonianza che l'assunzione della prova mediante la semplice richiesta se il teste confermi o meno le dichiarazioni già rese in una precedente fase del dibattimento, sebbene non possa dirsi conforme alle regole che disciplinano la prova stessa, perché non si articola con domande su fatti specifici (art. 499, comma 1, c.p.p.), tende a suggerire la risposta (art. 499, commi 1 e 2), e comunque viola la disposizione per la quale - salvi alcuni casi particolari - le domande sono rivolte al testimone direttamente dalle parti processuali (art. 498 comma 1), ciò nondimeno non dà luogo ad inutilizzabilità ai sensi dell'art. 191 c.p.p. atteso che non si tratta di prova assunta in violazione di divieti posti dalla legge bensì di prova assunta con modalità diverse da quelle prescritte, né integra una nullità, posto che la deroga alle norme indicate non è riconducibile ad alcuna delle previsioni delineate dall'art. 178 del codice di rito (Sez. 3, n. 52435 del 3 ottobre 2017, M., Rv. 271883; Sez. 2, n. 35445 dell'8 luglio 2002, dep. 2003, Natalotto, Rv. 227360).

In ossequio ai principi testé rammentati, le dichiarazioni rese dal T. nell'aprile 2006 e, attraverso di esse, le dichiarazioni rese a s.i.t. sono state legittimamente considerate quale materiale probatorio valutabile ai fini della decisione.

7.3. Immune da vizi logici o giuridici è, d'altra parte, la valutazione compiuta dai Giudici della cognizione quanto alla ritenuta inattendibilità della ritrattazione compiuta dal T. all'udienza dell'aprile 2013 ed affidabilità della prima versione dei fatti (v. motivo sub punto 4.2 del ritenuto in fatto).

Tale conclusione risulta invero sostenuta da un discorso giustificativo lineare e conforme a ragionevolezza, là dove il Giudice del gravame ha notato come le ultime dichiarazioni siano state rese dal T. a molti anni di distanza dai fatti e risultino intrinsecamente inverosimili, osservando - non implausibilmente - al riguardo che l'entità della somma trasferita da parte del T. al C. (pari a 150.000,00 euro bonificati dal conto "Fradiani" intestato al primo al conto cointestato "Gastone") risulta difficilmente spiegabile con un atto di liberalità e, soprattutto, che tale bonifico veniva disposto in immediata successione temporale rispetto alla richiesta (riferita dal T. nelle dichiarazioni rese in indagini) fatta dal C. a H. e K. di versargli 250.000,00 euro quale corrispettivo (illecito) per il favore accordato alla società da essi rappresentata ed al successivo versamento della somma di 150.000,00 euro da parte della "Boskalis" al conto "Fradiani" (v. pagine 13 e 1.4 della sentenza in verifica).

Ad ulteriore conforto della ritenuta inattendibilità dell'ultima versione dei fatti del T. e del "recupero" delle precedenti dichiarazioni, la Corte d'appello ha altrettanto convincentemente indicato specifici elementi a riscontro della prima ricostruzione, segnatamente, da un lato, quanto riferito da Marina R. (curatrice del fallimento "Dragomar S.p.A.", sentita quale testimone assistito in quanto imputata in procedimento connesso) in ordine alla richiesta del C. in merito un'operazione di "cambio" di una somma di 150.000,00 euro depositata su di un conto corrente svizzero, chiaramente tesa a rendere più difficoltosa l'individuazione dell'origine della somma stessa; dall'altro lato, quanto dichiarato dallo stesso imputato K., in merito alla richiesta di corresponsione della somma di denaro formulata dal C. (v. pagine 15 e 16 della sentenza impugnata).

Non prestano il fianco ad alcun vizio scrutinabile nel giudizio di legittimità le considerazioni svolte dalla Corte distrettuale secondo cui le prime dichiarazioni rese dal T. non possono ritenersi validamente confutate, da un lato, dalla mera circostanza che, all'epoca, egli fosse sottoposto a custodia cautelare, tenuto conto dei plurimi elementi a corroboration acquisiti; dall'altro lato, dall'obbiettiva discrasia fra la somma richiesta dal C. (250.000,00 euro) e la somma a lui bonificata (150.000,00 euro), tenuto conto proprio delle questioni insorte fra la "Boskalis" e T. in merito al quantum da versare e della conseguente possibile riduzione dell'iniziale richiesta (v. pagine 14 e 15 della sentenza in rassegna).

8. Quanto al primo motivo di merito (sub punto 4.1 del ritenuto in fatto), tutte le doglianze mosse dalle società ricorrenti in merito alla ricostruzione in fatto delle vicende oggetto di contestazione non sfuggono ad una preliminare ed assorbente censura di inammissibilità, posto che esse, per un verso, ripropongono rilievi già dedotti in appello e non si confrontano con la compiuta e lineare motivazione svolta dai Giudici della cognizione e, dunque, omettono di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (Sez. 6, n. 20377 dell'11 marzo 2009, Arnone, Rv. 243838); per altro verso, sono volte a sollecitare una rilettura delle emergenze processuali, non consentita in questa Sede, dovendo la Corte di legittimità limitarsi a ripercorrere l'iter argomentativo svolto dal giudice di merito per verificare la completezza e l'insussistenza di vizi logici ictu oculi percepibili, senza possibilità di valutare la rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali (ex plurimis Sez. un., n. 47289 del 24 settembre 2003, Petrella, Rv. 226074).

8.1. Ad ogni buon conto, i decidenti di merito hanno attentamente ricostruito il fatto-reato sulla scorta delle (prime) dichiarazioni del T. concernenti: a) l'incontro svoltosi in Olanda tra i rappresentanti della "Boskalis" K. e H., lo stesso dichiarante e C.; b) la richiesta di 250.000 euro avanzata dal C. per il favore accordato nei confronti di "Boskalis" nell'acquisto dei beni del compendio fallimentare della "Dragomar S.p.A." ed oggetto dei contratti predisposti dal C. di cui al capo E), aggiungendo che rispetto ad essi anche altri soggetti presenti sul mercato internazionale avevano manifestato interesse, segnatamente la "Van Oord" e la "Dredging International"; c) il sostanziale assenso di K. della "Boskalis" rispetto alla richiesta di denaro del C. (là dove rispose "vedremo"); d) il successivo trasferimento di 150.000 euro da parte della "Boskalis" sul conto personale "Fradani" del T. e da quest'ultimo al conto "Gastone" cointestato con il C. (trasferimenti documentalmente tracciati) affinché quest'ultimo potesse avvantaggiarsene (v. pagine 12 e 13 della sentenza impugnata).

8.2. Altrettanto convincentemente i Giudici della cognizione hanno poi dato conto degli ulteriori criteri di imputazione della responsabilità amministrativa agli enti imputati, là dove hanno evidenziato come, dalla documentazione acquisita al processo, si evinca che, nei contratti predisposti dal C. ed oggetto della contestazione sub capo E), fossero coinvolte proprio "Boskalis Italia s.r.l." (ora "Boskalis Dragomar s.r.l.") e "Boskalis International B.V.", la prima aggiudicataria dei beni della "Dragomar S.p.A.", la seconda quale presentatrice della proposta di acquisto del ramo di azienda depositata il primo luglio 2002 e, poi, della definitiva proposta di affitto di ramo d'azienda, consulting e management e offerta di acquisto, a nulla rilevando il fatto che il corrispettivo fosse poi versato da un'altra società dello stesso gruppo "Boskalis", rispondendo ciò a logiche contabili e finanziarie indipendenti da criteri rilevanti ai fini della responsabilità dell'ente (v. pagina 17 e 18 della sentenza impugnata).

8.3. Parimenti incensurabile in questa Sede, in quanto sostenuta da motivazione adeguata, è la ritenuta sussistenza di una relazione qualificata fra gli imputati persone fisiche stranieri e le società attinte dalla responsabilità ex d.lgs. n. 231 del 2001, nella parte in cui la Corte d'appello ha dato conto del fatto che H. era direttore munito di pieni poteri della "Bosklis International B.V." e che K. era un alto funzionario di tale ditta (v. pagina 18 della sentenza in verifica).

9. Quanto, infine, alla contestata ravvisabilità degli estremi del reato-presupposto di corruzione in atti giudiziari ex art. 319-ter c.p., giusta l'assoluta sovrapponibilità degli argomenti e delle questioni dedotte dalle difese degli imputati persone fisiche, si rinvia a quanto notato sopra nei paragrafi 3 e 4 del considerato in diritto.

10. Dal rigetto dei ricorsi consegue la condanna di tutti i ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Depositata il 7 aprile 2020.

A. Di Tullio D'Elisiis

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