Corte dei conti
Sezione I centrale d'appello
Sentenza 2 settembre 2020, n. 234

Presidente: Chiappiniello - Estensore: Fraioli

FATTO

Con sentenza n. 15/2019 del 16 gennaio 2019, la Sezione Giurisdizionale per la Regione Sardegna ha condannato D. Mario, in qualità di Consigliere regionale della Sardegna e, prima del Gruppo consiliare di «Alleanza nazionale» (XIII legislatura) e, poi, di quello del «Popolo della libertà» (XIV legislatura), al pagamento, in favore della Regione Sardegna, della somma di euro 765.005,87, oltre rivalutazione monetaria e interessi legali e spese legali nella misura di euro 2.812,90, per aver indebitamente utilizzato i fondi pubblici assegnati ai Gruppi da lui presieduti, per esigenze personali proprie o di altri membri del gruppo.

Più precisamente, sono stati utilizzati per l'acquisto di libri rari e di vari beni di lusso, per attività di propaganda elettorale personale e del partito politico di appartenenza, per retribuzione a vario titolo di personale impiegato per esigenze private, nonché per asserite spese di rappresentanza consistenti, però, in regali ai consiglieri regionali, ai dipendenti del gruppo, al personale del servizio di guardiania del Consiglio regionale e a soggetti non identificati, prive di qualsivoglia collegamento con eventi istituzionali del Consiglio regionale.

Tanto è stato, altresì, fatto oggetto di accertamento da parte del giudice penale, con sentenza di condanna per peculato aggravato del Tribunale di Cagliari del 13 luglio 2018.

Ha appellato la sentenza il D. sostenendo:

1) difetto di giurisdizione;

2) mancata integrazione necessaria del contraddittorio;

3) mancata sospensione del giudizio di primo grado in attesa della definitività di quello penale;

4) nullità dell'invito a dedurre e dell'atto di citazione;

5) prescrizione dell'azione di responsabilità amministrativa;

6) motivazione apparente, mancata replica puntuale agli argomenti difensivi ed erronea affermazione della sussistenza dei presupposti oggettivi e soggettivi della responsabilità amministrativa.

Ha, conclusivamente, chiesto l'esercizio del potere riduttivo dell'addebito.

In data 12 maggio 2020 ha depositato le proprie conclusioni il Procuratore Generale il quale ha contestato puntualmente tutti i motivi di appello chiedendo il rigetto del gravame con condanna dell'appellante al pagamento delle spese di lite.

All'odierna pubblica udienza, i rappresentanti delle parti hanno concluso come in atti, dopo aver esposto brevemente le proprie posizioni che per la difesa, in più, si sono estese fino alla sollecitazione al Collegio a tener conto dell'innovazione normativa introdotta dall'art. 21 del d.l. n. 76/2020 del 16 luglio 2020 che prevede l'inserimento dell'alinea "la prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell'evento dannoso" all'art. 1, comma 1, della l. n. 20/1994.

La causa, al termine, è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

L'odierna fattispecie ha ad oggetto la notoria questione dei rimborsi ai Gruppi consiliari, di cui questo giudice ampiamente si è occupato.

Prima di entrare nel merito della questione, il Collegio deve esaminare tutte le eccezioni sollevate dall'appellante, sia in via pregiudiziale che preliminare.

Andando con ordine, ma in assoluto ossequio al disposto dell'art. 5, comma 2, del c.g.c. che prevede la sinteticità degli atti del giudice, si osserva quanto segue.

1) Difetto di giurisdizione.

Questa eccezione deve ritenersi assolutamente infondata alla luce delle pronunce giurisprudenziali, ancor prima che di questo giudice (vedi per tutte, Sez. I App., 28 ottobre 2019, n. 238), proprio della Suprema Corte di cassazione la quale, a Sezioni unite, ha stabilito che "la gestione dei fondi pubblici erogati ai gruppi partitici dei consigli regionali è soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti, che può giudicare, quindi, sulla responsabilità erariale del componente del gruppo autore di "spese di rappresentanza" prive di giustificativi, né rileva, ai fini della sussistenza della giurisdizione contabile, la natura - privatistica o pubblicistica - dei gruppi consiliari, attesa l'origine pubblica delle risorse e la definizione del loro scopo, o il principio dell'insindacabilità di opinioni e voti ex art. 122 Cost., comma 4, che non può estendersi alla gestione dei contributi, attesa la natura derogatoria delle norme di immunità" (cfr., ex multis, Cass. civ., Sez. un., 28 febbraio 2020, n. 5589; Cass. civ., Sez. un., 17 aprile 2019, n. 10770; Cass. civ., Sez. un., 27 febbraio 2017, n. 4880; Cass. civ., Sez. un., 8 aprile 2016, n. 6895; Cass. civ., Sez. un., Cass. civ., Sez. un., 25 marzo 2016, n. 6026; Cass. civ., Sez. un., 21 aprile 2015, n. 8077).

La giurisprudenza contabile, poi, con esplicito richiamo ad una pronuncia della Suprema Corte (Sez. un., n. 23257/2014), ha precisato che ciò che nella presente sede si intende rilevare, in ordine alla natura "discrezionale" ed al carattere "insindacabile" delle spese del Gruppo consiliare, è l'affermazione che "la giurisdizione contabile trova adeguata giustificazione nell'avvenuta prospettazione di un pregiudizio connesso a condotta idonea a frustrare la coerenza dell'utilizzazione dei contributi pubblici erogati con gli specifici vincoli ad essi impressi dalla legge. Vincoli che peraltro, alla luce della previsione normativa ratione temporis applicabile [...], appaiono in concreto dettagliatamente predefiniti e, peraltro, con esplicito esclusivo asservimento a finalità istituzionali del consiglio regionale e non a quella delle associazioni partitiche o, tanto meno, alle esigenze personali di ciascun componente".

Tanto premesso, l'infondatezza di tale eccezione è evidente.

2) Mancata integrazione necessaria del contraddittorio.

Con riferimento a tale eccezione, è appena il caso di rilevare che al capogruppo viene contestato di aver omesso di esercitare le prescritte funzioni di controllo sulle spese così rendicontate.

Quindi, una responsabilità personale che non può essere estesa ad altri soggetti, semmai soltanto diminuita nella sua entità, ai sensi dell'art. 83, comma 2, c.g.c., laddove il giudice intraveda il concorso di altri, ai fini della determinazione della minor somma da porre a suo carico.

Ma non è il caso di cui trattasi, in quanto la funzione autorizzatoria del rimborso delle spese effettuate dai consiglieri è intestata unicamente al capogruppo il quale, in caso di mancato riscontro della finalità rigidamente fissata dal legislatore, solo risponderà e a titolo personale per il conseguente danno erariale causato per l'utilizzo delle risorse pubbliche per finalità non riconosciute preventivamente dal legislatore.

Secondo la specifica normativa primaria e secondaria - che per il principio di sinteticità degli atti, oltre che per la notorietà, non si riporta - ogni spesa necessita, prima dell'effettuazione, di una valutazione dell'inerenza al funzionamento del gruppo di appartenenza sul quale si pretende di farla gravare con la presentazione, poi, di una c.d. "pezza d'appoggio" che, a sua volta non può essere né generica né impersonale, come nel caso di specie.

La giurisprudenza, sia pure sotto il diverso versante penalistico, della Suprema Corte (vedi Cass. pen., Sez. VI, nn. 1053/2013 e 49976/2012), ha statuito che il capogruppo consiliare "riveste la qualità di pubblico ufficiale, esercitando una pubblica funzione che lo istituisce come partecipe diretto della procedura di controllo del vincolo di destinazione dei contributi erogati al gruppo consiliare con l'obbligo di rendicontazione e risponde personalmente per peculato per l'utilizzo dei fondi per finalità estranee a tale vincolo".

Ed ancora, siccome nella gestione delle risorse pubbliche i contributi erano stati versati al gruppo con preciso vincolo di destinazione, lo ha ritenuto un "vincolo che deve dal Gruppo, e per esso dal capogruppo, essere rispettato, non potendo prescindere dalla pertinenza con l'attività istituzionale del gruppo stesso e/o comunque, con la presenza di un nesso funzionale con la vita e le esigenze del gruppo" (Cass. pen., Sez. VI, n. 33069/2003).

Il D., allora, in tale qualità è stato ritenuto correttamente responsabile, per aver legittimato le richieste di rimborso delle spese effettuate.

Sul medesimo, infatti, in qualità di capogruppo, gravava l'onere del rispetto dei vincoli di destinazione delle somme assegnate al proprio gruppo, mentre appare evidente come abbia sostanzialmente avallato le singole spese negligentemente, venendo meno ai propri doveri di vigilanza.

Si riporta, per tutte una pronuncia di questa Corte (Sez. giur. Sicilia, 29 gennaio 2016, n. 44) dove pure il convenuto si riteneva svincolato da qualsiasi controllo e onere di allegazione, la quale ha ritenuto "deve, inoltre, ricordarsi che chi gestisce risorse pubbliche, come l'odierno convenuto in qualità di presidente del gruppo, ha l'onere di utilizzarle esclusivamente per le finalità per le quali sono state erogate e non può sottrarsi in alcun modo dal dovere di giustificare come le abbia utilizzate; in altri termini, se è pacifico che il capogruppo è sottratto dall'obbligo della resa del conto a questa Corte, è altrettanto pacifico che non si possa sottrarre dall'onere di documentazione".

Anche tale eccezione, allora, si appalesa come priva di fondamento.

3) Mancata sospensione del giudizio di primo grado in attesa della definitività di quello penale.

La notoria differente natura dei due giudizi, che li rende assolutamente non sovrapponibili, di per sé sarebbe sufficiente a ritenere del tutto infondata tale eccezione.

Purtuttavia, per mera completezza, ricorda questo Collegio che ben altri argomenti militano a sostegno di tale assunto.

In primis, il disposto dell'art. 106 c.g.c. il quale statuisce che il giudice ordina la sospensione del processo quando la previa definizione di altra controversia, civile, penale, amministrativa, pendente davanti a sé o ad altro giudice, costituisca, per il suo carattere pregiudiziale, il necessario antecedente dal quale dipenda la decisione della causa pregiudicata ed il cui accertamento sia richiesto con efficacia di giudicato.

Che nel caso di specie nessuna pregiudizialità giuridica sussista, è piuttosto evidente, atteso che la definizione del processo penale, alcun ruolo di antecedente logico-giuridico potrebbe mai svolgere, pur vertendo sui medesimi fatti, per essere finalizzati i due giudizi all'accertamento di differenti tipologie di responsabilità.

Di non poco momento, infine, anche il principio di natura costituzionale della ragionevole durata del processo che, in caso di sospensione, immotivatamente ne soffrirebbe.

4) Nullità dell'invito a dedurre e dell'atto di citazione.

Anche tale eccezione è del tutto priva di fondamento attesa la granitica, oltre che notoria, giurisprudenza in merito.

È appena il caso di ricordare che la nullità della citazione è appositamente disciplinata dall'art. 86, comma 6, del c.g.c. il quale la circoscrive ad eventi del tutto peculiari e ben specificati quali l'omissione o l'assoluta incertezza del requisito stabilito dal comma 2, lett. c), ovvero se manca l'esposizione dei fatti di cui al comma 2, lett. e).

Nel caso di specie, tanto non è dato rilevare, atteso che sono soddisfatti entrambi i requisiti per avere l'atto propulsivo ben indicato la quantificazione del danno con riferimento alle spese che sono state avallate dal capogruppo ed esposto i fatti e tutte le specifiche del caso.

Se poi, la doglianza la si vuole riferire alla mancata corrispondenza tra l'ammontare del lamentato danno indicato nell'invito a dedurre ed a quello della citazione, va rilevato che, in disparte l'assenza di codificazione di tale ipotesi, che già di per sé è indicativa dell'inconsistenza dell'eccezione sollevata, è giurisprudenza costante che tra invito e citazione non vi debba essere assoluta conformità attesa la funzione meramente conoscitiva che questo esplica nei confronti del destinatario, di contestazioni a suo carico che richiede unicamente la possibilità di individuare il petitum e la causa petendi, queste, sì, da riscontrarsi identiche nell'eventuale atto di citazione.

Ed in fattispecie, tanto è dato rilevare con assoluta chiarezza.

5) Prescrizione dell'azione di responsabilità amministrativa.

Neppure quest'ultima eccezione è fondata.

Come correttamente affermato dal giudice di prime cure, "il momento di decorrenza del termine prescrizionale deve essere correttamente individuato nella conoscenza da parte della Procura contabile della richiesta di rinvio a giudizio in sede penale del sig. Mario D., in quanto solo in quel momento detta Procura ha avuto notizia del danno".

È difatti, notoria la giurisprudenza più che granitica in merito, secondo cui il dies a quo della prescrizione non può essere identificato altro che con il momento della conoscenza degli eventi e, in fattispecie, esso coincide con la conoscenza della richiesta di rinvio a giudizio del giudice penale che ha reso edotto quello contabile dell'esistenza del danno in tutti i suoi elementi attraverso l'esame dell'esito delle indagini svolte.

Quindi, corretto è il riconoscimento operato in prime cure che porta anche questo giudice a ritenere che "dall'esito della documentazione in atti emerge che gli illeciti in questione sono emersi pienamente solo a seguito di una complessa attività investigativa, sfociata nella richiesta di rinvio a giudizio in sede penale".

La notorietà di tale concetto esime il Collegio dal soffermarsi su qualunque ulteriore approfondimento in proposito.

6) Merito.

Venendo, ora al merito della vicenda, rileva il Collegio l'infondatezza dell'appello proposto.

Come evidenziato in apertura, la fattispecie in oggetto, ha formato più e più volte oggetto di trattazione nella presente sede, tanto da portare questo giudice ad individuare una linea di condotta, ormai uniforme e consolidata, alla luce della normativa in materia.

Orbene, nel più che corposo atto di gravame, l'appellante lamenta l'insussistenza di presupposti oggettivi e soggettivi a suo carico capaci di sostenere l'ipotesi di responsabilità amministrativa sfociata nella sentenza di condanna, e che tanto sarebbe dimostrato dalla motivazione del tutto apparente che, a suo avviso, la caratterizza.

In buona sostanza la sentenza si limiterebbe ad esporre principi di carattere generale, senza alcun riferimento - rectius, senza porsi il problema della loro applicabilità - al caso concreto.

A ciò seguono una serie di considerazioni in merito, a cominciare, ad es., dalla configurazione del dolo che, purtuttavia, sono da ritenersi assorbite dalle considerazioni che seguono.

Innanzitutto, v'è da rilevare che la sentenza di prime cure esamina partitamente tutte le spese, con dovizia di particolari, come dimostra la suddivisione che ne rende agevole la lettura e la conseguente comprensione in termini di non attinenza a qualsivoglia finalità istituzionale.

Ma lo dimostra anche l'esclusione, dal novero degli importi costituenti il danno, di quelle somme che il Collegio - pur ritenendole alla luce della ricostruzione della vicenda, concorrenti alla condotta negligente del D. - ha ritenuto di escludere dal complessivo importo di danno all'erario allo stesso addebitabile, come ad es., l'acquisto degli orologi di marca "Rolex".

Orbene, siccome la maggior parte delle risorse regionali assegnate ai Gruppi sono stati utilizzate direttamente dal Capogruppo D. per esigenze personali proprie, o di altri membri del Gruppo; per acquistare libri rari e vari beni di lusso, quali le penne di marca Montblanc; per attività di propaganda elettorale personale e del partito politico di appartenenza; per retribuire a vario titolo il personale impiegato per esigenze private, nonché per asserite spese di rappresentanza consistenti però in regali ai Consiglieri regionali, ai dipendenti del gruppo, al personale del servizio di guardiania del Consiglio regionale e a soggetti non identificati, prive di qualsivoglia collegamento con eventi istituzionali del Consiglio regionale, nel caso di specie risulta senz'altro provata la precisa la volontà dell'appellante di utilizzare questi fondi a sua discrezione, sebbene ciò fosse in netto contrasto con la normativa vigente.

Risulta, altresì, dagli atti di causa che lo stesso D. in un interrogatorio svoltosi in sede penale (udienza del 15 febbraio 2017 nel giudizio immediato a suo carico dinanzi al Tribunale di Cagliari, conclusosi con la sentenza di condanna del 13 luglio 2018), lo abbia ammesso.

L'elemento soggettivo del dolo, allora, non può che ritenersi sussistente.

Parlare, quindi, di motivazione apparente in presenza di una tale parcellizzazione della stessa con riferimento ad ogni singola spesa, non può ritenersi assolutamente fondato.

Va, piuttosto ricordato che, è proprio dalla natura pubblica delle risorse assegnate ai gruppi consiliari che deriva la connotazione di danno erariale del pregiudizio scaturente da un utilizzo di dette somme per le quali non venga dimostrata la coerenza con le finalità proprie del contributo erogato.

Quindi, gestione di fondi pubblici operata in violazione dei fondamentali principi in materia di contabilità pubblica, che non può che ritenersi illegittima, e vieppiù illogica, irrazionale e contraria ai principi del buon andamento e dell'imparzialità, costituzionalmente garantiti.

Ha ritenuto la giurisprudenza di questa Corte (vedi per tutte, la stessa Sez. giur. Friuli, 15 luglio 2014, n. 65) che "la carenza di un'adeguata documentazione giustificativa, se sul piano soggettivo vale a qualificare la condotta del convenuto come inadempiente all'obbligo di 'dar conto' della gestione delle risorse della comunità amministrata, su quello oggettivo rende l'attività di spesa inutiliter data in quanto non univocamente riferibile all'interesse sotteso all'erogazione delle risorse della collettività. Prive di causa e, dunque, fonte di danno per l'Ente Regione vanno dunque ritenute tutte le spese che formano oggetto della domanda risarcitoria".

Ciò in quanto "non solo la deviazione dalle finalità pubblicistiche, ma anche l'omessa rendicontazione delle spese e la mancata indicazione delle circostanze in cui le stesse sono state sostenute, siano idonee ad integrare altrettante violazioni, quanto meno gravemente colpose, delle regole di gestione di fondi pubblici da parte dei soggetti cui l'ordinamento conferisce la responsabilità delle somme a ciò destinate".

Va, infine, precisato che la contestazione di spese non adeguatamente documentate - che non possono non ritenersi danno erariale in quanto in ordine ad esse non si è provveduto a rendere conto delle modalità di impiego del danaro pubblico usato, né a ricondurle a specifici eventi connessi - non è con riferimento all'oggi, ma al tempo della rendicontazione.

In buona sostanza, ciò che gli viene imputato è, non già di non ricostruire, oggi, il percorso contabile delle spese effettuate a suo tempo, ma di aver effettuato allora, in qualità di assegnatario di contributi, delle spese non adeguatamente documentate e, al momento della rendicontazione, di non aver attestato la loro pertinenza ad un concreto ed attuale interesse del gruppo consiliare di appartenenza.

Con ciò chiarendo che il sindacato operato ha avuto ad oggetto la mancata dimostrazione della necessaria correlazione tra ogni singola spesa sostenuta e la funzione da assolvere, in violazione di qualsivoglia regola di rendicontazione, irrinunciabile ogni qual volta si versi in casi di utilizzo di pubblico danaro.

In ipotesi quali quella in oggetto, mentre al giudice contabile compete la dimostrazione che un determinato soggetto ha ricevuto contributi aventi specifiche finalizzazioni che non sono state onorate, permane a tutto carico del percettore l'onere di dimostrare che l'utilizzo è avvenuto in coerenza con le finalità di legge.

In tal senso, uniformemente la giurisprudenza di questa Corte (vedi Sez. giur. Lombardia n. 239/2014; Sez. II, n. 64/2007; Sez. Piemonte, n. 172/2012, Sez. Veneto, n. 4/2014, Sez. Lombardia n. 163/2014) che anche l'odierno Collegio ritiene di confermare.

"La giustificazione della spesa da parte del destinatario" - come, ancora, ritenuto dalla giurisprudenza contabile (Sez. giur. Umbria n. 30 del 9 novembre 2017; Sez. giur. FVG, sentenza n. 51/2014) - "forma oggetto di un'obbligazione correlata alla fondamentale esigenza di garantire l'interesse alla trasparenza ed alla legittimità dell'impiego del denaro.

Ne discende che la dimostrazione puntuale della coerenza dell'attività di spesa con le finalità proprie del contributo erogato, costituisce il presupposto indispensabile per la liceità della stessa".

Giova richiamare, sul punto, la sentenza della Corte di cassazione penale n. 23066 del 4 giugno 2009 secondo la quale "nella materia della spesa pubblica rilevano gli artt. 3, 81, 97, 100 e 103 della Costituzione, che nel loro insieme dettano questi convergenti principi: ogni tipo di spesa deve avere una propria autonoma previsione normativa, che non può essere la mera indicazione nella legge di bilancio; la gestione delle spese pubbliche è sempre soggetta a controllo, anche giurisdizionale; l'impiego delle somme deve concretizzarsi in modo conforme alle corrispondenti finalità istituzionali, come indicate dalla propria previsione normativa; tale impiego deve in ogni caso rispettare i principi di uguaglianza, imparzialità, efficienza (che a sua volta comprende quelli di efficacia, economicità e trasparenza). La sintesi di tali principi è pertanto che sussiste il generale obbligo di giustificazione della spesa secondo le precipue finalità istituzionali".

In tale prospettiva deve appunto ritenersi che, sul piano "processuale", gravi sull'attrice la mera dimostrazione che i convenuti abbiano beneficiato di un contributo avente una specifica finalizzazione e che non siano stati forniti, all'atto della rendicontazione, elementi atti a ricondurre le spese effettuate ai fini previsti.

Resta, di conseguenza, a carico del convenuto l'onere di dimostrare che l'utilizzo delle risorse pubbliche sia avvenuto nel rispetto della legge ed in modo coerente con le finalità del contributo erogato.

Le spese sostenute non essendo state adeguatamente effettuate, non possono che ritenersi danno erariale in quanto in ordine ad esse non si è provveduto a rendere conto delle modalità di impiego del danaro pubblico usato, riconducendole a specifici eventi connessi con il funzionamento del Gruppo, finalità per le quali era stato concesso.

In buona sostanza, l'importo erogato a tale titolo è privo di valevole giustificazione e, come tale, va ritenuto danno erariale.

Di non poco momento poi che la differenza tra documentare una spesa e documentare la sua inerenza al fine per la quale è consentita, non è questione puramente formale, ma semantica.

Caratteristiche che devono essere riscontrate dal Capogruppo, ad es. quando ad effettuare le spese è un consigliere onde autorizzargli il rimborso, dovendo, in caso contrario rimanere a suo carico, posto che, contrariamente, si causa un indubbio danno erariale per utilizzo delle risorse pubbliche per finalità non riconosciute preventivamente dal legislatore.

Esattamente come nel caso di specie.

Una spesa si giustifica non soltanto con dichiarazioni come quelle dell'appellante, ma con il rispetto dei principi fissati dal legislatore che nel caso non è dato rinvenire.

Tutto quanto fin qui esposto, si ritiene assorbente di qualsivoglia altro residuo motivo di doglianza.

Da ultimo, atteso il riferimento fatto - rigorosamente in udienza e, non già sotto forma di eccezione, ma di sollecitazione al Collegio a tenerne conto - dalla difesa all'innovazione normativa introdotta dall'art. 21 del d.l. n. 76/2020 del 16 luglio 2020 che prevede l'inserimento dell'alinea "la prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell'evento dannoso" all'art. 1, comma 1, della l. n. 20/1994, si evidenzia la sua inapplicabilità.

Ai sensi del successivo comma 2 del medesimo art. 21 è, poi, specificato che tale previsione è da intendersi "limitatamente ai fatti commessi dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino al 31 luglio 2021".

Tanto premesso, allora, già solo tale limitazione temporale rende non accoglibile la sollecitazione della difesa.

I fatti di cui trattasi, invero, risalgono al periodo 2009/2012, mentre il c.d. Decreto Semplificazioni n. 76/2020, data 16 luglio 2020.

Vige, inevitabilmente, in materia il notorio principio del tempus regit actum, in base al quale è il diritto processuale in vigore al momento della causa che regola l'actio con riferimento a soggetto ed oggetto della fattispecie in esame.

Ciò significa che l'atto processuale resta soggetto alla disciplina vigente al momento del suo compimento per quanto si verifichi una modifica, medio tempore, nelle more del giudizio.

Già stabilito in via generale dall'art. 11, comma 1, delle disp. prel. c.c., è stato vieppiù ribadito dalla giurisprudenza nel tempo.

Pertanto, deve ritenersi che la novella invocata non si applica ai rapporti sorti antecedentemente alla modifica della norma in questione perché di carattere sostanziale, a differenza dei rapporti processuali che, al contrario, ben possono essere sempre regolati dalla normativa vigente al momento di pubblicazione della norma, indipendentemente dall'epoca di commissione del fatto.

In sostanza, le norme di carattere processuale sono di immediata applicazione e, quindi, si applicano anche ai rapporti in corso e non esauriti, mentre per le norme di carattere sostanziale, come quella in esame, vige il principio di cui all'art. 11, comma 1, delle disp. prel. c.c.

In tal senso, Corte cost., 6 dicembre 2017, n. 13 e ord. 12 marzo 1998, n. 61; Cass., Sez. un., 12 febbraio 2019, n. 4135; id., 13 dicembre 2018, n. 32360 e 9 giugno 2016, n. 11844; Cass., Sez. 2, 14 ottobre 2019, n. 25837; Cass., Sez. 3, 7 ottobre 2010, n. 20811.

In più, l'ultimo periodo del comma 2 prevede che tale limitazione di responsabilità non si applichi per i danni cagionati da omissione o inerzia del soggetto agente.

Orbene, atteso che l'addebito mosso al D. consiste proprio nel non aver controllato l'inerenza delle spese alle finalità per le quali i contributi erano stati erogati, ben si configura un comportamento qualificabile come omissivo e/o inerziale.

In ogni caso, quindi, la novella non sarebbe applicabile.

Conclusivamente, la sentenza di prime cure deve essere integralmente confermata e - a fronte di specifica richiesta in tal senso - precisato che, per costante giurisprudenza che non si ha motivo di disattendere, in fattispecie connotate da condotte dolose non è dato fare uso del potere riduttivo da parte di questo giudice.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

la Corte dei conti - Sezione Prima Giurisdizionale Centrale d'Appello, definitivamente pronunciando, ogni contraria istanza ed eccezione reiette:

- rigetta l'appello proposto avverso la sentenza in epigrafe indicata e, per l'effetto, la conferma;

- condanna la parte appellante al pagamento delle spese di giudizio che liquida nella misura di euro 160,00 (centosessanta/00).

Manda alla segreteria per gli adempimenti di competenza.

F. Del Giudice, B. Locoratolo

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