Corte dei conti
Sezione II centrale d'appello
Sentenza 9 dicembre 2020, n. 285
Presidente: Lupi - Estensore: Guerri
FATTO
1. Con la sentenza in epigrafe, la Sezione giurisdizionale regionale per la Liguria ha accolto la domanda risarcitoria proposta, a titolo di dolo, nei confronti del sig. Antonio G., nella sua qualità di professore associato a tempo definito dell'Università degli studi di Genova, condannandolo, in favore dell'Università medesima, al pagamento dell'importo di euro 197.887,00, oltre a rivalutazione monetaria, a decorrere dall'1 gennaio 2016, interessi legali dal deposito della predetta sentenza e spese di giudizio.
La Procura regionale presso la Sezione giurisdizionale per la Liguria ha citato in giudizio il dott. G. per avere svolto attività professionali extra-istituzionali incompatibili con la docenza universitaria poiché rientranti nell'esercizio del commercio e dell'industria - trattandosi delle cariche di amministratore delegato, presidente del consiglio di amministrazione e liquidatore in cinquantadue società commerciali facenti capo al gruppo industriale D. s.p.a. -, anche in violazione del dovere di esclusività e senza, comunque, averle comunicate all'Università medesima.
La Procura regionale ha posto a fondamento dell'azione il regime delle incompatibilità di cui agli artt. 60 del d.P.R. n. 3/1957, 53 del d.lgs. n. 165/2001, e la normativa specifica di cui agli artt. 11 e 15 del d.P.R. n. 382/1980 e 6, comma 9, della l. 240/2010, adducendo che l'attività di docente universitario a tempo definito è incompatibile con lo svolgimento di qualsivoglia attività lavorativa presso altri enti pubblici o privati e con l'esercizio del commercio e dell'industria, essendo tale ogni attività imprenditoriale e artigianale o ad essa equiparata e, pertanto, non possono ricoprire la carica di presidente o amministratore di società di capitali.
Riguardo, poi, al profilo dell'eventuale prescrizione, la Procura regionale ha rilevato nella propria citazione che, nel caso di specie, si sarebbe trattato di occultamento doloso dei fatti, per cui il dies a quo della prescrizione sarebbe stato da individuare nella data di scoperta dei fatti stessi, ovverosia il 21 novembre 2014, data del deposito della relazione istruttoria svolta dal funzionario delegato, e, dunque, l'azione sarebbe stata tempestiva.
In proposito, si è affermato che il sig. G. aveva l'obbligo giuridico di informare l'Università degli studi di Genova dello svolgimento di attività contestuali con lo svolgimento dell'attività di docenza, obbligo insito nella disciplina generale e settoriale relativa alle attività extra-istituzionali e alle incompatibilità dei pubblici dipendenti e che trova anche fondamento nei generali obblighi di correttezza e buona fede, di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.; l'omissione volontaria di tale comunicazione avrebbe integrato l'occultamento doloso di cui all'art. 1, comma 2, della l. n. 20/1994.
Così, la sentenza impugnata, rigettate le eccezioni preliminari e ricostruito minuziosamente il quadro normativo vigente all'epoca dei fatti di causa, ha accolto la domanda proposta dalla Procura regionale quantificando l'importo di cui alla condanna risarcitoria, equitativamente, nella misura del 30% dei redditi complessivi lordi percepiti dall'odierno appellante da parte dell'Università di Genova nel periodo 7 agosto 1995-29 aprile 2015, ravvisando il coefficiente psicologico doloso nella condotta contestata, alla luce della consapevole violazione delle norme regolanti lo stato giuridico del docente universitario a tempo definito e del dipendente pubblico laddove sono sanciti inequivocabilmente le incompatibilità e il dovere di esclusività della prestazione lavorativa a favore del datore di lavoro pubblico.
2. Il prof. G. ha proposto appello e, contestualmente, ha presentato un'istanza di definizione agevolata del contenzioso erariale, ai sensi dell'art. 1, commi 231 ss., della l. n. 266/2005, mediante il pagamento del 10% dell'importo di cui alla condanna di primo grado.
Tale istanza è stata respinta con il decreto di questa Sezione del 21 giugno 2019, n. 6.
L'appellante ha formulato i seguenti plurimi motivi di censura:
1) erroneità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell'art. 1, comma 2, l. n. 20/1994 e del principio di proporzionalità. Violazione e falsa applicazione del principio della buona fede contrattuale, dell'art. 12 delle preleggi e dei principi che reggono l'ermeneutica normativa. Difetto dei presupposti del doloso occultamento. Eccesso di potere per travisamento, illogicità e contraddittorietà, disparità di trattamento, ingiustizia grave e manifesta. Difetto di motivazione. In particolare, secondo l'appellante non vi sarebbe stato alcun occultamento doloso, tantomeno intenzionale, atteso, poi, che, a suo dire, non avrebbe avuto alcun obbligo di chiedere all'Università l'autorizzazione per svolgere attività extra-universitarie, in quanto titolare di insegnamento a tempo definito e, poiché, comunque, un tale obbligo non potrebbe rinvenirsi nella clausola generale di correttezza e buona fede;
2) erroneità della sentenza per violazione degli artt. 2730 e ss. c.c. Omesso esame di elementi probatori determinanti ai fini della decisione;
3) erroneità della sentenza per illogicità, contraddittorietà, ingiustizia grave e manifesta, carenza di istruttoria e di motivazione, in quanto l'Ateneo sarebbe stato a conoscenza delle attività extra-lavorative del prof. G. già dalla relazione del Garante di Ateneo al Senato accademico del 2006-2007;
4) erroneità della sentenza per omessa applicazione degli artt. 1175, 1226 e 1227 del c.c. Omesso esame di atti e documenti processuali rilevanti ai fini della decisione;
5) erroneità della sentenza per inesistenza del danno erariale ed assenza di prova. Violazione e falsa applicazione dei principi generali in tema di onere della prova. Eccesso di potere per travisamento, contraddittorietà ed illogicità, carenza di motivazione, sotto diverso profilo. Violazione dell'art. 1226 c.c. Violazione dell'art. 114 c.p.c.;
6) erroneità della sentenza per inesistenza del danno erariale ed assenza di prova. Violazione e falsa applicazione dei principi generali in tema di onere della prova. Eccesso di potere per travisamento, contraddittorietà ed illogicità, carenza di motivazione, sotto diverso ulteriore profilo. Violazione dell'art. 1226 c.c.;
7) erroneità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 11, comma 4, lett. b), d.P.R. n. 382/1980 e 60 d.P.R. n. 3/1957. Eccesso di potere difetto di presupposto e di motivazione;
8) erroneità della sentenza laddove computa il danno da risarcire sulla base delle retribuzioni lorde. Violazione del principio di proporzionalità. Illogicità e ingiustizia grave e manifesta.
In via istruttoria, l'appellante ha chiesto di "ammettere i capitoli di prova per testi, di cui al paragrafo n. 30 della memoria defensionale di primo grado, riprodotti nel quarto motivo, paragrafo 48, del presente gravame".
In subordine, ha chiesto di ridurre l'importo da risarcire per i motivi esposti nell'atto di appello ovvero nell'esercizio del potere riduttivo.
3. Si è costituita la Procura generale chiedendo di dichiarare inammissibile e/o infondato l'appello.
4. Con memoria in data 4 novembre 2020 l'appellante ha insistito per l'ammissione della prova per testi e l'accoglimento del gravame richiamando le argomentazioni dell'appello introduttivo e aggiungendone delle altre sulla legittimità della partecipazione in qualità di esperto ai consigli di amministrazione di società di capitali, sul fatto di avere pienamente svolto l'attività di docente universitario, così offrendo la propria controprestazione al datore di lavoro, nonché sul parametro impiegato per la quantificazione del danno in applicazione dell'art. 1226 c.c. e l'inconfigurabilità dell'occultamento doloso.
5. In udienza, le parti hanno esposto il contenuto dei rispettivi scritti e ne hanno chiesto l'accoglimento.
DIRITTO
1. La vicenda per la quale v'è causa riguarda la responsabilità amministrativa del sig. Antonio G., professore associato di ruolo dell'Università degli studi di Genova, per avere svolto attività professionali extra-istituzionali incompatibili con la docenza universitaria poiché rientranti nell'esercizio del commercio e dell'industria - trattandosi delle cariche di amministratore delegato, presidente del consiglio di amministrazione e liquidatore in cinquantadue società commerciali facenti capo al gruppo industriale D. s.p.a., nonché la carica di Presidente dell'associazione di settore F.A. -, anche in violazione del dovere di esclusività e senza, comunque, averle comunicate all'Università medesima.
L'appello non è meritevole di accoglimento per quanto di ragione.
2. L'appellante ha, anzitutto, contestato il rigetto dell'eccezione di prescrizione del diritto al risarcimento del danno sostenendo che non si sarebbe configurato alcun occultamento doloso delle attività extra-istituzionali da lui svolte in quanto non avrebbe dispiegato specifiche attività volte all'occultamento, né avrebbe avuto alcuna consapevolezza soggettivamente fraudolenta di celare attività incompatibili con quella universitaria, né sarebbe stato tenuto a comunicare tali attività all'Ateneo - non avendo un obbligo di esclusiva quale docente a tempo definito -, né avrebbe svolto attività fraudolente volte a occultare il danno, per cui il dies a quo del termine quinquennale sarebbe di gran lunga antecedente rispetto alla relazione del funzionario della Procura regionale del 21 novembre 2014, rilevando al più che la conoscenza del fatto risalirebbe quanto meno alla relazione del Garante di Ateneo al Senato Accademico sull'attività svolta nell'anno accademico 2006-2007 con cui l'Università sarebbe stata posta in condizione di conoscere o verificare i fatti oggetto della contestazione all'appellante.
Tale doglianza risulta infondata.
Come rilevato dal primo giudice, va applicata la regola della decorrenza della prescrizione da quando il fatto dannoso è divenuto conoscibile secondo ordinari criteri di diligenza, la c.d. conoscibilità obiettiva. Nel caso di specie, non risulta neppure necessario indagare l'eventuale configurabilità di un comportamento o di un atteggiamento omissivo qualificabile come occultamento doloso.
È sufficiente procedere a una piana applicazione delle regole generali in tema di prescrizione dei diritti.
In base alla previsione contenuta nell'art. 2935 c.c., il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno inizia a decorrere non già dalla data del fatto, inteso come fatto storico obiettivamente realizzato, bensì da quando ricorrano presupposti di sufficiente certezza, in capo all'avente diritto, in ordine alla sussistenza degli elementi costitutivi del diritto azionato, sì che gli stessi possano ritenersi, dal medesimo, conosciuti o conoscibili.
Ebbene, nel caso in esame, tale situazione si è realizzata nel momento in cui il funzionario delegato ha depositato la propria relazione istruttoria in data 21 novembre 2014, rispetto al quale risulta tempestivamente interrotto il termine di prescrizione quinquennale dalla data di notifica dell'invito a fornire deduzioni avutasi il 12 febbraio 2018.
Solamente tale evento ha disvelato in modo concreto e preciso l'inosservanza del divieto di svolgere attività extra-lavorative non compatibili con il pubblico impiego da parte dell'appellante.
E, comunque, come riconosciuto dalla Suprema Corte l'affermazione per cui in presenza di obbligo giuridico di informare e, quindi, di attivarsi, l'ulteriore condotta dolosa del debitore/dipendente pubblico, tesa ad occultare il fatto pregiudizievole, può estrinsecarsi anche in una condotta omissiva, "quando chiaramente riguardi atti dovuti, ai quali, cioè, il debitore è tenuto per legge" (Cass. civ., n. 392 del 16 febbraio 1967; id., 9 gennaio 1979, n. 125; 11 novembre 1998, n. 11348), sicché "il doloso occultamento è requisito diverso e più grave rispetto alla mera omissione di una informazione, omissione che assume rilievo solo ove sussista un obbligo della parte di informare" (Cass. civ., Sez. III, 29 gennaio 2010, n. 2030).
Di pari tenore sono le numerose pronunce della stessa Suprema Corte, in sede penale (Cass., Sez. II pen., n. 30798, del 27 luglio 2012), ove si afferma che: "[è] peraltro principio consolidato della giurisprudenza di legittimità che in materia di truffa contrattuale anche il silenzio maliziosamente serbato su alcune circostanze da parte di chi abbia il dovere giuridico di farle conoscere integra l'elemento oggettivo ai fini della configurabilità del reato di truffa, trattandosi di un raggiro idoneo a determinare il soggetto passivo a prestare un consenso che altrimenti non avrebbe dato e che il reato in esame è configurabile non soltanto nella fase di conclusione del contratto ma anche in quella di esecuzione allorquando una delle parti, nel contesto di un rapporto lecito, induca in errore l'altra parte con artifizi e raggiri, omettendo intenzionalmente la comunicazione di circostanze rilevanti che si ha il dovere di far conoscere, conseguendo un ingiusto profitto con altrui danno"; di talché, "l'omissione dolosa si riscontra anche nelle ipotesi in cui le circostanze taciute siano conoscibili dalla controparte mediante l'ordinaria diligenza" (Cass., Sez. II pen., n. 24340/2010 e n. 41717/2009).
Sul punto, la giurisprudenza contabile, in piena condivisione di tali criteri, ha ammesso che l'occultamento doloso può realizzarsi anche attraverso un comportamento semplicemente omissivo del debitore avente a oggetto un atto dovuto, cioè un atto cui il debitore sia tenuto per legge (si v. Sez. II App., n. 175 del 2019, Sez. III, n. 345 del 2016 e Sez. App. Sicilia, n. 198 del 2012).
Alla luce di tali canoni esegetici e del quadro normativo di riferimento, deve essere condotto lo scrutinio della questione oggetto di gravame. Nella fattispecie, infatti, non appare contestato che il Prof. G. sia stato professore associato a tempo definito del dipartimento di Economia dell'Università degli studi di Genova dall'1 novembre 1991 al 29 aprile 2015.
Come accertato, a partire dal 1995 e sino al 2015, quest'ultimo ha chiaramente gestito le attività industriali del gruppo D. s.p.a., che opera in tutto il mondo non solo nella produzione e nel commercio dell'acciaio, ma anche nei settori dell'energia, della logistica, dello shipping, delle attività ambientali, con più di 10.000 dipendenti, con impianti in 11 paesi, 17 siti produttivi, 42 uffici commerciali e ricavi per miliardi di dollari. Si è trattato "di un incarico operativo gravosissimo e assorbente", che lo ha portato tra l'altro a ricoprire numerose cariche in oltre cinquanta società dello stesso, tra cui quella di amministratore delegato e di presidente della holding del gruppo, con poteri di indirizzo e di gestione operativa oltre che di rappresentanza legale e di compimento di tutte le operazioni commerciali, finanziarie e bancarie connesse, quali riconosciuti dagli statuti delle singole società.
Al riguardo, non è contestabile che egli avesse l'obbligo di comunicare al datore di lavoro le attività extra-lavorative espletate affinché valutasse la loro compatibilità con il regime dell'art. 60 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (richiamato dal primo comma dell'art. 53 del d.lgs. n. 165/2001, che ha esteso a tutti i dipendenti pubblici il divieto), e dell'art. 11 del d.P.R. 11 luglio 1980, n. 382 che, per i professori universitari, ha confermato che "il regime d'impegno a tempo definito: è incompatibile con le funzioni di rettore, preside, membro elettivo del consiglio di amministrazione, direttore di dipartimento e direttore dei corsi di dottorato di ricerca; è compatibile con lo svolgimento di attività professionali e di attività di consulenza anche continuativa esterne e con l'assunzione di incarichi retribuiti ma è incompatibile con l'esercizio del commercio e dell'industria".
Va anche rilevato che tale regime di incompatibilità è rimasto fermo, sia pure con parziali aperture, nella regolamentazione dello status di docente universitario di cui alla l. n. 240/2010.
Sulla base di tali coordinate normative, non si può allora dubitare che vi sia a carico del professore - benché a tempo definito - un obbligo specifico di informare il proprio datore di lavoro. Tale obbligo appare agevolmente riconducibile, anzitutto, ai generali obblighi di correttezza e buona fede, di cui all'art. 1175 e 1375 c.c., che sono espressione di principi generali di matrice costituzionale (principio di solidarietà di cui all'art. 2 Cost., secondo Cass. 15 febbraio 2007, n. 3462) e, dunque, applicabili anche ai contratti di lavoro pubblici e privati, nonché fonte "legale" di precipui doveri di informazione (Cass. pen., Sez. II, n. 41717/2009).
Uno specifico obbligo di informazione discende, altresì, alla disciplina, generale e settoriale, che prevede le attività extra-istituzionali e le incompatibilità dei pubblici dipendenti. Non v'è dubbio, infatti, che la scelta legislativa di rendere assolutamente incompatibile l'esercizio di attività imprenditoriali e anche quelle libero-professionali per il docente a tempo pieno, al punto da prevedere l'irrogazione di sanzioni disciplinari - che possono giungere alla dichiarazione di decadenza dall'impiego - rinvia al potere-dovere dell'Amministrazione di conoscere le cause dell'incompatibilità e avviare, se del caso, il procedimento delineato dagli artt. 63 d.P.R. n. 3/1957 e 15 d.P.R. n. 382/1980, sopraccitati (così, Sez. II App., n. 175/2019).
In proposito, l'art. 53, comma 5, del d.lgs. n. 165/2001, prevede che "il conferimento operato direttamente dall'amministrazione, nonché l'autorizzazione all'esercizio di incarichi che provengano da amministrazione pubblica diversa da quella di appartenenza, ovvero da società o persone fisiche, che svolgano attività d'impresa o commerciale, sono disposti dai rispettivi organi competenti secondo criteri oggettivi e predeterminati, che tengano conto della specifica professionalità, tali da escludere casi di incompatibilità, sia di diritto che di fatto, nell'interesse del buon andamento della pubblica amministrazione o situazioni di conflitto, anche potenziale, di interessi, che pregiudichino l'esercizio imparziale delle funzioni attribuite al dipendente".
Tale onere di conoscenza gravante sull'Amministrazione presuppone, quindi, un comportamento collaborativo, corretto e in buona fede del dipendente (art. 1175 c.c.): non può imputarsi, infatti, alla stessa amministrazione l'ignoranza non colpevole della situazione di incompatibilità nella quale versa il dipendente infedele che abbia serbato un consapevole silenzio sulla specifica circostanza. In tal caso, l'affidamento che l'Ente ripone nel permanere delle condizioni fissate al momento dell'assunzione può essere rimosso soltanto se essa è posta nella condizione di obiettiva conoscibilità o effettiva conoscenza della causa impediente.
Nel caso di specie, tale condizione non risulta essersi verificata.
Il Prof. G. non ha mai comunicato l'esercizio delle attività oggetto di contestazione, né è mai stato autorizzato a svolgerle. Egli si è, quindi, sottratto a un preciso obbligo di informazione.
Versandosi, pertanto, nella situazione di cui all'art. 1, comma 2, della l. n. 20/1994 e di doloso occultamento, la "conoscenza effettiva" dell'esercizio dell'attività extra-istituzionale viene a coincidere, come evidenziato dal Procuratore regionale appellante, con la data della prima relazione istruttoria (21 novembre 2014), rispetto alla quale risulta tempestivamente interrotto il termine di prescrizione quinquennale dalla data di notifica dell'invito a dedurre.
Né si può sostenere che tale momento possa fissarsi alla data della relazione al Senato accademico presentata da parte del Garante di Ateneo riguardo alle attività dei docenti genovesi nel 2006-2007, ove peraltro non vi era alcun accenno alle attività imprenditoriali extra-universitarie svolte dal prof. G.
Tale relazione aveva indotto la Procura regionale a verificare le dimensioni del fenomeno del cumulo di impieghi e dell'assenteismo, come poi confermato da varie decisioni della Sezione territoriale. Quanto all'individuazione dei casi specifici, del resto, il Pubblico Ministero - riscontrato il fumus della indicazione proveniente dal Garante - aveva necessariamente dovuto svolgere una attività istruttoria mirata alla valutazione delle posizioni dei singoli professori. Del resto, la sentenza delle SS.RR. n. 12/2011 distingue la notizia dalla denuncia ricordando che "certamente l'espressione 'notizia' di danno, contenuta nella norma, è assai meno stringente di quella riferibile ad una 'denuncia' di danno", e che la prima "secondo la comune accezione, fa dunque riferimento ad un mero dato cognitivo, che potrebbe derivare da apposita comunicazione, ovvero da strumenti di informazione (che a loro volta potrebbero essere, o meno, di pubblico dominio)".
La consistenza oggettiva dei predetti requisiti di specificità e concretezza, poi, sempre seguendo lo schema definitorio delle SS.RR., è idonea a superare i filtri della specificità e della concretezza, la "notizia di danno tale da ingenerare il sospetto della esistenza dei presupposti per l'esercizio dell'azione di responsabilità, che comunque - va pure ricordato - secondo le norme tuttora vigenti mantiene i caratteri della doverosità ed indisponibilità" (nel senso, quindi, che solo una notizia con tali caratteristiche è in grado di consentire una attività istruttoria non generica ed ancorata ad un fatto specifico) (così, Sez. II App., n. 138/2020).
Peraltro, proprio con specifico riguardo alle relazioni istruttorie prodotte dal medesimo funzionario delegato da parte della Procura per la Liguria, in fattispecie analoghe riguardanti altri docenti del medesimo Ateneo, ha già avuto modo di esprimersi la III Sezione centrale di Appello, con le sentenze nn. 345/2016, 514/2016 e 55/2017 e, anche nel caso di specie - come ha concluso il giudice di primo grado -, non vi è alcun motivo di discostarsi dalle conclusioni raggiunte in tali pronunce. Infatti, soltanto tale relazione "ha consentito al fatto asseritamente dannoso di assumere una sua concreta qualificazione giuridica e di identificarlo come presupposto di una fattispecie pure catalogata come presuntivamente pregiudizievole, colorandosi così della giusta attitudine a consentire l'avvio dell'azione erariale e a far decorrere i termini di prescrizione" (Sez. III App., n. 345/2016).
E, comunque, l'azione risulterebbe tempestiva anche a voler ancorare la possibile data di disvelamento al momento della pubblicazione del curriculum vitae del docente sul sito della Scuola dell'Ateneo, nel marzo 2013.
Pertanto, nessuna inerzia è ravvisabile nella promozione dell'azione di responsabilità amministrativa da parte della Procura regionale.
3. Nel merito, l'appello è infondato nei termini appresso specificati.
3.1. L'appellante ha contestato la sentenza per essersi limitata a meramente ripercorrere la normativa di riferimento e per non aver debitamente considerato che l'attività esterna svolta non avrebbe avuto alcuna influenza negativa sull'attività di docenza, non avendo mai ostacolato il regolare svolgimento di quest'ultima, nonché per essersi trattato dell'attività di commercialista e/o di consulente.
Non merita accoglimento tale censura, con la quale l'appellante ritiene non applicabile al professore a tempo definito la disciplina di cui ai citati artt. 11 d.P.R. n. 382/1980 e 53 d.lgs. n. 165/2001. La situazione di incompatibilità, nella quale l'appellante versava all'epoca dei fatti, era già stigmatizzata dall'art. 60 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, secondo cui "[l]'impiegato non può esercitare il commercio, l'industria, né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in società o enti per le quali la nomina è riservata allo Stato e sia all'uopo intervenuta l'autorizzazione del Ministro competente". L'art. 53 citato non ha fatto altro che estendere a tutti i dipendenti pubblici il divieto, la cui ratio va rinvenuta nel principio costituzionale sancito all'art. 98 Cost., secondo cui "[i] pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione", che ha stabilito il vincolo inderogabile di esclusività della prestazione lavorativa a favore del datore pubblico per preservare le energie del lavoratore e tutelare il buon andamento della p.a., anche prevenendo potenziali conflitti di interessi e situazioni di assoluta incompatibilità con l'attività principale.
La totale dedizione del pubblico impiegato alle mansioni proprie dell'ufficio non deve, in definitiva, essere compromessa dall'esercizio di attività collaterali che ne possano minare l'efficienza e l'indipendenza.
Inoltre, correttamente la sentenza di primo grado ha sottolineato che, per quanto concerne il settore specifico dei docenti universitari, il d.P.R. 11 luglio 1980, n. 382, sul riordinamento della docenza universitaria, nel disciplinare l'impegno, tra gli altri, dei professori a tempo definito, all'art. 11 ha ribadito l'incompatibilità con l'esercizio del commercio e dell'industria.
In forza dell'art. 34 dello stesso d.P.R., ai docenti universitari si applicano direttamente "le norme di cui alla parte prima, titolo V, del testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3", in materia di incompatibilità o di cumulo di impieghi.
Il divieto è, peraltro, rimasto vigente anche dopo l'entrata in vigore dell'art. 6 della l. n. 240 del 2010.
Pertanto, la sentenza ha correttamente fatto applicazione di tutta la disciplina vigente nel periodo 1995-2015 (ossia gli artt. 60 e ss. del d.P.R. n. 3/1957; gli artt. 11 e 12 del d.P.R. n. 382/1980; l'art. 53 del d.lgs. 165/2001 e per il periodo successivo alla sua entrata in vigore, anche delle norme contenute dalla l. n. 240/2010), secondo cui, in estrema sintesi, l'attività di docenza a tempo definito è incompatibile con lo svolgimento di qualsivoglia attività lavorativa presso altri enti pubblici o privati e con l'esercizio del commercio e dell'industria, essendo tale ogni attività imprenditoriale e artigianale o ad essa equiparata; per i docenti a tempo pieno, sussiste, inoltre, l'incompatibilità con l'esercizio di attività libero-professionale (fatta eccezione per quanto previsto dal combinato disposto dell'art. 11 d.P.R. n. 382/1980 e dell'art. 5, comma 12, d.lgs. 517/1999).
In base al quadro probatorio risulta, poi, da escludere che il prof. G. abbia svolto incarichi quale mero "commercialista" o "consulente" del gruppo D. s.p.a., ma che, viceversa, abbia svolto vere e proprie attività gestionali e operative dell'intero grande gruppo industriale, anche divenendo il rappresentante nazionale dell'associazione del settore siderurgico, F.A.
Inoltre, agli atti non vi è, comunque, alcuna comunicazione dell'appellante all'Università degli studi di Genova per le attività contestate nel periodo in esame, dato che nessuna delle cariche assunte nel gruppo D. s.p.a. era stata da questi comunicata.
Nessun dubbio, dunque, che nell'arco temporale in contestazione il prof. G., in quanto professore a tempo definito, non avrebbe potuto svolgere le predette attività extra-lavorative del tutto incompatibili per legge con quella di docente universitario e, comunque, mai comunicate né tantomeno autorizzate.
La fattispecie risulta, quindi, nettamente diversa rispetto a quella che ha formato oggetto della sentenza n. 138/2020 di questa Sezione, posto che, differentemente dalla posizione del docente ivi analizzata, il prof. G. non partecipava ai consigli di amministrazione del gruppo D. s.p.a. "in qualità di esperto, senza deleghe operative", bensì ha svolto in prima persona attività qualificabili come imprenditoriali, su cui supra (in proposito, cfr. C.d.S., Sez. IV, n. 271/1985), di tale dimensione, costanza e pervasività (oltre 50 società, tra cui la holding di un gruppo leader nel proprio settore e presenti in altri settori industriali e commerciali, con un fatturato di miliardi di euro, tanto da portarlo ad essere eletto alla carica di presidente di F.A.), da non poter non aver influito, con una distrazione di rilievo di energie, sulle sue prestazioni quale pubblico impiegato.
Per cui, la precisazione del prof. G. sulla natura consulenziale delle attività svolte, oltre che irrilevante ai fini dell'esclusione dell'addebito a suo carico della violazione della normativa in materia di incompatibilità, stante il divieto assoluto di assumere qualsiasi incarico in società aventi scopo di lucro, non può ragionevolmente essere condivisa, considerato che l'amministratore delegato e il presidente del consiglio di amministrazione di una società per azioni (nello specifico di numerose società di capitali di un medesimo gruppo) si configurano indubbiamente come organi gestori, considerate la particolare natura, le competenze e le responsabilità insite nell'espletamento di tali incarichi.
Conseguentemente, resta indimostrato che l'appellante abbia puntualmente svolto ogni compito connesso alla sua funzione di docente, e, comunque, la responsabilità in esame scaturisce dalla violazione del divieto di esercitare il commercio e l'industria mentre si è pubblici impiegati.
In proposito, non va sottaciuto che l'appellante "è risultato assente a 61 riunioni del Consiglio di Facoltà su un totale di 67 e che, pertanto, non tutti gli obblighi connessi all'incarico di docente sono stati adempiuti" e che, da alcuni rilievi formulati dagli studenti sui suoi corsi (e da questo depositati), sono emersi il mancato rispetto dell'intera durata oraria delle lezioni, dei ritardi e il fatto che alcuni moduli fossero delegati ad altri docenti.
Peraltro, nel delineato contesto, la verifica circa l'assolvimento dei doveri del pubblico impiegato e la compatibilità delle attività extra-lavorative svolte non potevano certo essere eseguiti in autonomia da parte dell'appellante, come da questo presupposto, ma avrebbero dovuto essere conseguenti alla preventiva comunicazione ai competenti uffici dell'amministrazione universitaria che, a sua volta, avrebbe valutato il rispetto dei limiti fissati dalla legge e l'assenza di profili di incompatibilità.
Per tutto quanto emerso al riguardo e riportato nella sentenza di primo grado, che viceversa acclarava la reiterata e perdurante trasgressione delle più basilari incompatibilità da parte dell'appellante, ne deriva anche l'infondatezza della censura di omessa acquisizione istruttoria, da parte del giudice di prime cure, di prova testimoniale in merito alle concrete attività svolte dal convenuto e all'assenza di conflitto di interessi, che, per quanto detto, non possono essere invocate a sua scusante.
3.2. Riguardo all'addebito di dolo, si ritiene corretta la motivazione della sentenza di primo grado laddove ha rilevato che l'appellante ha realizzato una consapevole violazione delle norme primarie dell'ordinamento e ha omesso di comunicare le potenziali incompatibilità e richiedere le necessarie autorizzazioni, poiché, stante la disciplina applicabile all'epoca dei fatti - oltre alla regolamentazione adottata da parte dell'Università degli studi di Genova -, ben sapeva che le attività non sarebbero state autorizzate, sia prima che dopo l'entrata in vigore della c.d. legge Gelmini, non potendo sorgere dubbi di sorta sulla loro incompatibilità con il regime del pubblico impiego. Per inciso, le osservazioni del funzionario delegato incaricato di redigere la relazione istruttoria sono prive di pregio ai fini della qualificazione dell'elemento soggettivo la quale è stata riservata, da parte del legislatore, al Pubblico ministero presso la Corte dei conti.
3.3. Riguardo, inoltre, all'assenza del nesso di causalità l'appellante ha sostenuto che una quota di responsabilità andrebbe imputata alle perduranti omissioni dell'Università degli studi di Genova, per assenza di ogni vigilanza sui corretti adempimenti, volta ad evitare il consolidarsi di una prassi irregolare, anche in applicazione degli artt. 1175 e 1227 c.c.
Quanto sostenuto è palesemente infondato. Nel caso di specie, incombeva sull'appellante l'obbligo giuridico di comunicare al proprio datore di lavoro, ovvero all'Università degli Studi di Genova, lo svolgimento di ogni attività professionale potenzialmente incompatibile e l'omissione volontaria di tale comunicazione configura il requisito del nesso di causalità tra la condotta tenuta e il danno erariale, senza alcun coinvolgimento dell'Amministrazione. L'Ateneo di appartenenza doveva essere tenuto informato dal suo dipendente, sulla base della normativa vigente e delle regole di correttezza, dell'esistenza di situazioni che potenzialmente potessero essere fonte di incompatibilità e/o di potenziale conflitto di interessi (di qui la necessità di autorizzazione), senza che potesse assumere importanza la possibile, casuale conoscenza per altre vie; mentre eventuali superficialità dei controlli costituiscono circostanze agevolatrici esterne al soggetto agente, che come tali non incidono né sull'elemento soggettivo dell'illecito, né sulle caratteristiche oggettive e soggettive della condotta di volontario occultamento. Tanto più che con tutte le proprie condotte, volutamente omissive, il prof. G. ha dato prova di ben conoscere la disciplina che era applicabile alla sua attività imprenditoriale extra-lavorativa e di volerla contravvenire.
3.4. La sentenza è meritevole di conferma anche con riguardo ai profili di quantificazione del danno in misura equitativa ai sensi dell'art. 1226 c.c., ove si è ancorato il valore della incompatibilità e distrazione di energie, in termini di esclusività della prestazione in un rapporto di pubblico impiego rispetto all'esercizio del commercio e dell'industria, facendo riferimento al comparto dei medici e dei veterinari del S.S.N., in cui l'obbligo di esclusività della prestazione viene remunerato con la corresponsione di una specifica indennità che ammonta a circa il 30% della retribuzione complessiva.
La predetta misura, da un lato tiene conto del fatto che l'Ateneo ha, comunque, tratto indubbie utilità dalle prestazioni lavorative rese dal docente G., dall'altro ha equitativamente valorizzato il fatto che tali prestazioni siano state svolte contra ius, ovverosia da parte di un soggetto che era tenuto a dimettersi dal pubblico impiego e che ha, viceversa, tenuto in non cale i più basilari obblighi di incompatibilità ed esclusività, non dando attuazione agli specifici valori costituzionali di garanzia del prestigio della pubblica amministrazione e di correttezza del suo operato, nonché, secondo questo Collegio, del fatto che la sua duplice attività dava evidentemente luogo a una distrazione di energie - che è in parte emersa in modo presuntivo -, essendosi per di più chiaramente dedicato a un'attività imprenditoriale pervasiva e assorbente in modo principale.
Ritiene, quindi, il Collegio che il danno possa essere confermato nella misura di euro 197.887,00, ovverosia il 30% dell'ammontare dei redditi complessivi lordi percepiti dall'appellante nel periodo 7 agosto 1995-29 aprile 2015 (euro 659.623,05), in qualità di docente universitario a tempo definito.
3.5. Da ultimo, il Collegio ravvisa che la quantificazione, peraltro stabilita in via equitativa, dell'importo da ristorare, diversamente da quanto preteso dall'appellante, debba avvenire al lordo degli oneri riflessi fiscali (di rilievo). Appare dirimente al riguardo la recente pronuncia delle Sezioni Riunite della Corte dei conti in sede giurisdizionale che ha affermato il principio nomofilattico secondo cui "[i]n ipotesi di danno erariale conseguente alla illecita erogazione di emolumenti lato sensu intesi in favore di pubblici dipendenti (o, comunque, di soggetti in rapporto di servizio con la Pubblica Amministrazione), la quantificazione deve essere effettuata al lordo delle ritenute fiscali Irpef operate a titolo di acconto sugli importi liquidati a tale titolo" (SS.RR., n. 24/2020/QM/SEZ).
In proposito, si è difatti esplicitato che "... il danno erariale rappresenta la proiezione contabile della lesione del patrimonio dell'Ente. Nel caso in cui tale lesione consista in un esborso non dovuto, l'intera spesa sostenuta in modo indebito integra danno per l'Ente. Detto altrimenti, è all'onere complessivamente sopportato dall'Amministrazione che occorre avere riguardo per individuare l'effetto pregiudizievole generato dalla condotta censurata. L'esborso, con ogni evidenza, comprende anche gli importi dovuti per ottemperare agli obblighi tributari e contributivi: questi ultimi concorrono, al pari delle altre causali, a gravare sul bilancio come componente negativa. Ciò che va considerato è che il vantaggio che si assume derivare allo Stato dalla riscossione dell'acconto IRPEF non è legato alla commissione del danno ma al semplice fatto che l'amministrazione ha erogato in favore del proprio dipendente un compenso che per il percettore costituisce reddito imponibile, in ciò integrandosi una obbligazione tributaria autonoma che nasce indipendentemente dal carattere illecito della vicenda sottostante all'erogazione della spesa. Da ciò l'evidente insussistenza di una identità causale tra fatto generatore del danno e fatto generatore del vantaggio... Difetta, dunque, in questi casi l'identità (soggettiva e oggettiva) del fatto generatore che la giurisprudenza stessa individua quale presupposto indefettibile della citata compensatio lucri cum damno. Peraltro, gli importi dovuti per ottemperare agli obblighi tributari e contributivi, in quanto compresi nell'esborso, devono ritenersi concorrenti, al pari delle altre causali, a gravare sul bilancio dell'ente danneggiato come componente negativa, ancorché la parte di spesa sostenuta per gli adempimenti fiscali e contributivi sia poi destinata a trasformarsi in un beneficio per altri soggetti pubblici, non potendo quella stessa parte essere suscettibile, per quanto precedentemente detto, di valutazioni compensative ai sensi dell'art. 1, comma 1-bis, della l. 14 gennaio 1994, n. 20".
3.6. Infine, in punto di mancato esercizio del potere riduttivo lamentato dall'appellante, per giurisprudenza consolidata di questa Corte, non si tratta di un vizio che inficia la sentenza, in quanto il giudice ha uno specifico obbligo motivazionale soltanto qualora sia stato fatto uso del potere invocato. L'appellante ha, peraltro, reiterato in appello la richiesta di riduzione dell'addebito ex art. 52 r.d. n. 1214/1934, in relazione alle condizioni di fatto nelle quali egli si è trovato a operare e in considerazione dell'ambiguità delle norme. Ritiene il Collegio che le argomentazioni svolte dall'appellante non siano meritevoli di accoglimento, essendo univoca la giurisprudenza di questa Corte che esclude l'applicazione del potere riduttivo in presenza di condotta dolosa o prevalentemente dolosa, come nella fattispecie - attesa l'evidente piena consapevolezza dell'antigiuridicità della condotta da parte dell'appellante - soprattutto nelle ipotesi di reiterazione di condotte illecite e di significativa riprovevolezza del comportamento (ex plurimis: Sez. II, n. 209/2017; id., n. 639 del 24 settembre 2015; Sez. I, n. 494 del 18 settembre 2015; Sez. III, n. 421 del 24 agosto 2015).
4. In conclusione, l'appello deve essere rigettato. Le spese seguono il principio della soccombenza come di seguito statuito.
P.Q.M.
la Corte dei conti, Sezione Seconda Centrale d'Appello, così definitivamente pronunciando, rigetta l'appello e, per l'effetto, conferma la sentenza impugnata.
Condanna l'appellante alle spese di questo grado di giudizio che sino alla pubblicazione della presente sentenza liquida in euro 192,00 (centonovantadue/00).