Corte di cassazione
Sezione VI civile
Ordinanza 29 novembre 2022, n. 35024
Presidente: Scoditti - Relatore: Iannello
FATTI DI CAUSA
1. Teresa A. convenne in giudizio davanti al Tribunale di Napoli Stefano S. e la A.s.l. Napoli 1 Centro chiedendone la condanna al risarcimento dei danni patiti a seguito di un intervento di tiroidectomia eseguito, in data 16 ottobre 2013, presso l'ospedale Santa Maria del Popolo degli Incurabili, all'esito del quale erano residuati a suo danno la paralisi dei nervi laringei ed ipoparatiroidismo.
La A.s.l. e il sanitario chiamarono in causa le rispettive compagnie di assicurazione e, ritualmente instaurato il contraddittorio, all'esito dell'istruttoria, il Tribunale, sulla scorta della consulenza tecnica d'ufficio, rigettò la domanda con integrale compensazione delle spese.
2. Proposto gravame dalla soccombente, la Corte d'appello chiamò a chiarimenti il c.t.u., nei confronti del quale la difesa dell'appellante formulò istanza di ricusazione, respinta all'esito dell'udienza del 10 dicembre 2019, con separata ordinanza, sentite le parti in contradditorio e il consulente.
3. Resi, quindi, dal c.t.u., per iscritto, i chiarimenti richiesti e precisate dalle parti le conclusioni, la Corte d'appello ha pronunciato sentenza (n. 67/2021, depositata il 13 gennaio 2021) con la quale ha rigettato l'impugnazione, confermando integralmente la decisione di primo grado e condannando l'appellante alle spese del grado, con distrazione.
Questi, per quanto interessa in questa sede, i passaggi salienti della motivazione:
- come riferito dal c.t.u., l'intervento chirurgico al quale venne sottoposta la paziente era quello adeguato alla patologia diagnosticata, né vi erano possibili interventi o procedure sostitutive;
- l'intervento di tiroidectomia non può mai essere considerato semplice o routinario e, nel caso di specie, si presentava vieppiù complesso e di difficile esecuzione in ragione del notevole volume del gozzo, caratteristico del Morbo di Basedow;
- dopo l'intervento erano sopravvenute due «complicanze», segnatamente la paresi dei nervi laringei e una transitoria ipocalcemia;
- tali complicanze non sono addebitabili a una scorretta esecuzione da parte del chirurgo;
- come precisato dal c.t.u., convocato a chiarimenti, la lesione dei nervi laringei è complicanza che in chirurgia tiroidea ha una percentuale variabile secondo le varie casistiche nazionali ed internazionali (paralisi permanente 0, 3-3%) (paralisi temporanea 5-8%), percentuale di rischio che aumenta significativamente per alcune patologie, come nel caso di gozzi iperfunzionanti (M. di Basedow), ribadendo che la complicanza può essere determinata da vari fattori da individuarsi in: lesione diretta durante l'intervento chirurgico per incaute manovre di dissezione, prevalentemente quando non si evidenzia il nervo laringeo inferiore; lesione indiretta per devascolarizzazione, stiramento, caduta di escara per coagulazione nelle immediate vicinanze dei nervi laringei; per errate manovre anestesiologiche nella intubazione e nella pressione del pallone della cannula orotracheale; in seguito a «processi flogistici tenacemente adesi al nervo stesso nel postoperatorio che determinano la non funzionalità del nervo e conseguentemente la paralisi della corda vocale»;
- nel caso di specie deve riferirsi a quest'ultima l'eziologia dell'evento dannoso, considerato che, come evidenziato dal c.t.u., «al risveglio della paziente non sono enunciate alterazioni del respiro né riportate in cartella anestesiologica e clinica», mentre è solo nel pomeriggio del giorno dell'intervento che si verifica la «complicanza dispnoica, prontamente trattata e si evidenzia successivamente la paralisi bilaterale delle cc.vv.» e considerato altresì che «la dispnea e/o la disfonia sono eventi che si avverano nell'immediato postoperatorio già al risveglio del paziente sul letto operatorio quando conseguenza di un evento lesivo diretto»;
- sul punto, non si rinvengono nelle note critiche dei c.t.p., né all'originaria relazione né con riguardo alla relazione a chiarimenti, argomentazioni di alcun genere atte a confutarne la validità medico-scientifica;
- l'affermazione dell'ausiliario che il quadro morboso della paziente, in seguito all'intervento, è da ritenersi sicuramente in relazione con l'intervento chirurgico nella sua completezza non implica, come sembra inferire la difesa appellante, responsabilità del chirurgo o della struttura; infatti, dovendosi ricondurre l'esito peggiorativo a complicanze non altrimenti evitabili, sopra descritte e ben note in letteratura medico-scientifica (e delle quali il paziente è stato correttamente informato), l'operazione chirurgica è da considerarsi come l'occasione che le ha cagionate;
- peraltro, la ripresa del nervo laringeo può avvenire nel tempo massimo di un anno e, dunque, il successivo intervento di vaporizzazione del III posteriore e medio della corda vocale destra fu eseguito prematuramente, dieci mesi dopo la tiroidectomia, determinando una fissità con impossibilità di un eventuale recupero funzionale, pur avendo assicurato, come precisato dal c.t.u., un adeguato spazio respiratorio.
4. Avverso tale sentenza Teresa A. propone ricorso per cassazione affidato a tre motivi, cui resistono Stefano S. e l'A.s.l. Napoli 1 Centro, con separati controricorsi.
Le compagnie d'assicurazioni intimate non svolgono difese nella presente sede.
Essendo state ritenute sussistenti le condizioni per la trattazione del ricorso ai sensi dell'art. 380-bis c.p.c., il relatore designato ha redatto proposta, che è stata notificata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell'adunanza della Corte.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia «violazione o falsa applicazione degli artt. 1218, 2043, 2697 e 1123 c.c.».
1.1. Osserva anzitutto (v. ricorso, pagg. 20-21) che, avendo essa assolto l'onere di provare l'esistenza di un nesso causale tra l'intervento del sanitario ed il danno evento, in termini di aggravamento della sua situazione patologica ed insorgenza di ulteriori patologie, ricadeva sul sanitario e sui convenuti l'onere di provare il nesso eziologico tra eventuale causa esterna, imprevedibile ed inevitabile alla stregua della ordinaria diligenza di cui all'art. 1176, comma primo, c.c., e la impossibilità sopravvenuta della prestazione di diligenza professionale.
Ciò premesso, lamenta che, nel caso di specie, non è stata data la prova della imprevedibilità ed inevitabilità della causa che ha reso impossibile la prestazione di diligenza professionale.
1.2. Sotto altro profilo la ricorrente sottopone a critica (v. pag. 22, terzo cpv.) l'affermazione secondo cui la lesione si è manifestata qualche ora dopo il risveglio, rilevando essere stato «evidenziato in atti come sia del tutto comprensibile come dal risveglio da una pesante anestesia trascorrano alcune ore prima che il paziente possa adeguatamente svegliarsi e rendersi conto delle sue condizioni di salute e di eventuali difficoltà quali ad es. la disfonia».
1.3. Sotto altro profilo ancora la ricorrente censura poi l'assunto espresso in sentenza secondo cui la causa dell'evento sia da riguardare non solo nel processo infiammatorio predetto ma anche nel precoce intervento di «vaporizzazione del III posteriore e medio della corda vocale destra».
Rileva al riguardo che a tale secondo intervento essa si sottopose dieci mesi dopo il primo, per cercare di rimediare ai danni da questo prodotti, esattamente nel rispetto dei protocolli e delle linee guida menzionate dal c.t.u. secondo cui una ripresa spontanea della funzionalità dell'organo è attesa in un tempo variabile fino a dodici mesi successivi alla tiroidectomia.
2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all'art. 360, comma primo, n. 3, c.p.c., violazione e falsa applicazione dell'art. 196 c.p.c., in relazione agli artt. 51 e 63 c.p.c.
Premette che:
- il Tribunale non aveva motivato il rigetto dell'istanza di ricusazione del c.t.u. proposta in relazione alla dedotta sussistenza di rapporto di lavoro tra l'ausiliario e l'A.s.l. n. 1 Napoli Centro;
- l'analoga istanza avanzata in appello (sul rilievo della necessità che il consulente: fosse specializzato in medicina legale; non avesse vertenze in corso per responsabilità professionale; non avesse stretti rapporti personali con i convenuti; non avesse rapporti di lavoro con alcuno di essi) è stata rigettata dalla Corte d'appello con ordinanza che, in motivazione, si è soffermata solo sulla prospettazione di rapporti di frequentazione, conoscenza e collaborazione con lo S., ritenuta in fatto infondata.
Ciò premesso, contesta la valutazione sul punto svolta dalla Corte territoriale e lamenta che comunque essa risponde solo in minima parte alle dedotte ragioni di ricusazione, omettendo in particolare di considerare il rapporto di lavoro dipendente tra il c.t.u., dott. L., e l'A.s.l. appellata.
3. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all'art. 360, comma primo, n. 4, c.p.c., «nullità della sentenza per motivazione meramente apparente e comunque al di sotto del c.d. "minimo costituzionale", in violazione dell'art. 132 c.p.c., 111 Cost.».
Lamenta che al rilievo dell'appellante secondo cui la dispnea e la disfonia furono avvertite immediatamente al risveglio, la Corte di limita a contrapporre la contraria affermazione secondo cui tali problematiche si manifestarono non al risveglio ma nel pomeriggio, senza tener conto del fatto che il risveglio cosciente della paziente non coincide con il semplice risveglio post-intervento ma ad anestesia smaltita.
Rileva inoltre che nessuna argomentazione è offerta in sentenza in ordine alla intensità e gravità delle lesioni, né sul rilievo svolto con l'appello secondo cui le lesioni causate dall'intervento avevano gradualmente invalidato la paziente.
4. Il primo motivo è inammissibile, con riferimento a tutti e tre i distinti profili di doglianza sopra enucleati.
4.1. Giova anzitutto rilevare che il fatto lesivo si è verificato anteriormente all'entrata in vigore dell'art. 7, comma 3, l. 8 marzo 2017, n. 24, la quale non ha efficacia retroattiva e non è applicabile ai fatti verificatisi anteriormente alla sua entrata in vigore (v. Cass. 11 novembre 2019, n. 28994; cfr. anche Cass. 8 novembre 2019, n. 28811; 19 marzo 2018, n. 6689). La fattispecie va dunque scrutinata alla luce dell'orientamento giurisprudenziale in precedenza invalso, secondo cui il medico, ancorché abbia operato non in ragione di un incarico professionale direttamente conferitogli dal paziente, ma in quanto dipendente della struttura sanitaria, risponde ex contractu (v. Cass. 22 gennaio 1999, n. 589). Ad analogo paradigma deve poi farsi riferimento quanto alla responsabilità della struttura, ai sensi dell'art. 1228 c.c.
4.2. Ciò premesso, va ricordato che, secondo principio da tempo acquisito nella giurisprudenza di questa Corte, «in tema di inadempimento di obbligazioni di diligenza professionale sanitaria, il danno evento consta della lesione non dell'interesse strumentale alla cui soddisfazione è preposta l'obbligazione (perseguimento delle leges artis nella cura dell'interesse del creditore) ma del diritto alla salute (interesse primario presupposto a quello contrattualmente regolato); sicché, ove sia dedotta la responsabilità contrattuale del sanitario per l'inadempimento della prestazione di diligenza professionale e la lesione del diritto alla salute, è onere del danneggiato provare, anche a mezzo di presunzioni, il nesso di causalità fra l'aggravamento della situazione patologica (o l'insorgenza di nuove patologie) e la condotta del sanitario, mentre è onere della parte debitrice provare, ove il creditore abbia assolto il proprio onere probatorio, la causa imprevedibile ed inevitabile dell'impossibilità dell'esatta esecuzione della prestazione» (Cass. 11 novembre 2019, nn. 28991 e 28992; v. anche, in precedenza, Cass. 26 luglio 2017, n. 18392).
La Corte d'appello si è mossa correttamente nel solco tracciato da tale principio, avendo da un lato ritenuto sussistente un nesso causale tra l'intervento e l'insorgenza di nuove patologie a carico della paziente operata e, dunque, assolto l'onere della prova gravante in capo alla attrice/appellante (c.d. primo ciclo causale): esplicita, in tal senso, l'affermazione, leggibile a pag. 9 della sentenza, all'inizio del par. 3.6, secondo cui «il quadro morboso della paziente, in seguito all'intervento, è da ritenersi sicuramente in relazione con l'intervento chirurgico nella sua completezza»; dall'altro, ritenuto però anche dimostrata l'esistenza di una causa che ha fatto sì che dall'intervento sortisse quell'esito invalidante, non imputabile al medico e alla struttura alle cui dipendenze il primo ha operato, rappresentata da una c.d. «complicanza» - ben nota nella letteratura scientifica per interventi e contesti patologici pregressi quali quelli descritti - ma tuttavia non evitabile, con ciò dunque ritenendo parimenti assolto l'onere probatorio per converso gravante sui convenuti/appellati (c.d. secondo ciclo causale).
4.3. È necessario al riguardo chiarire che, nel sindacare la correttezza, in iure, di tale valutazione, non assume rilievo il riferimento al concetto di «complicanza», quanto piuttosto il fatto che l'evento in cui nel caso concreto essa viene identificata sia stato ritenuto in sentenza come «non evitabile».
In proposito va rammentato che, come questa Corte ha già più volte chiarito (v. Cass. 30 giugno 2015, n. 13328; Cass. 11 novembre 2019, n. 28985), il lemma «complicanza» - con il quale la medicina clinica e la medicina legale designano solitamente un evento dannoso, insorto nel corso dell'iter terapeutico, che pur essendo astrattamente prevedibile, non sarebbe evitabile - è di per sé inutile nel campo giuridico.
Ciò perché, quando, nel corso dell'esecuzione di un intervento o dopo la sua conclusione, si verifichi un peggioramento delle condizioni del paziente, delle due l'una:
- o tale peggioramento era prevedibile ed evitabile, ed in tal caso esso va ascritto a colpa del medico, a nulla rilevando che la statistica clinica lo annoveri in linea teorica tra le "complicanze";
- ovvero tale peggioramento non era prevedibile oppure non era evitabile: ed in tal caso esso integra gli estremi della «causa non imputabile» di cui all'art. 1218 c.c., a nulla rilevando che la statistica clinica non lo annoveri in linea teorica tra le «complicanze».
Al diritto non interessa se l'evento dannoso non voluto dal medico rientri o no nella classificazione clinica delle complicanze: interessa solo se quell'evento integri gli estremi della «causa non imputabile»: ma è evidente che tale accertamento va compiuto in concreto e non in astratto (così, in motivazione, Cass. n. 13328 del 2015, cit.).
Orbene nella specie tale accertamento, come detto, è specificamente contenuto nella sentenza impugnata.
Con esso la ricorrente non si confronta o - se in tale prospettiva possano leggersi, implicitamente, le doglianze svolte - lo fa in termini meramente oppositivi e apodittici, là dove lamenta che nella specie non sarebbe stata data la prova della imprevedibilità ed inevitabilità della causa che ha reso impossibile la prestazione di diligenza professionale.
4.4. Appare opportuno al riguardo ancora ulteriormente chiarire che non si ricava dai principi enunciati da Cass. n. 18392 del 2017 e da Cass. n. 28991-2 del 2019, l'affermazione della necessaria coesistenza, nella causa che ha reso impossibile l'adempimento del medico, affinché la stessa possa dirsi non imputabile, dei caratteri della non prevedibilità e della non evitabilità con l'uso della ordinaria diligenza, atteso che, specie nel campo della responsabilità sanitaria, detti connotati debbono piuttosto ritenersi a tal fine come richiesti in alternativa, nel senso che resta non imputabile ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 1218 c.c. anche la causa bensì prevedibile (come per definizione è la complicanza nota nella casistica e nella letteratura scientifica) ma tuttavia non evitabile se non mediante la rinuncia a priori all'intervento che pure, come nella specie, deve invece ritenersi necessario e correttamente prescritto ed eseguito.
Chiaramente in tal senso si erano già espressi, del resto, i precedenti richiamati di Cass. n. 18332 del 2015 e Cass. n. 28985 del 2019, ai quali va data continuità, secondo cui causa non imputabile è l'evento non prevedibile «o» non evitabile. Particolarmente chiara sul punto Cass. n. 13328 del 2015 che, nel riferirsi ai caratteri della imprevedibilità e inevitabilità che la causa di impossibilità dell'adempimento o dell'esatto adempimento deve presentare perché possa dirsi non imputabile al debitore, usa la congiunzione «oppure».
4.5. La seconda sub-censura (v. supra «Ragioni della decisione», § 1.2) è parimenti inammissibile, trattandosi di censura in facto e non in iure, estranea comunque al paradigma censorio di cui all'art. 360, comma primo, n. 5, c.p.c. (peraltro nemmeno evocato), oltre che inosservante dell'onere di specifica indicazione degli atti richiamati, in violazione dell'art. 366, n. 6, c.p.c.
4.6. È anche inammissibile la terza sub-censura. Essa investe, infatti, affermazione priva di effettivo valore fondante della decisione, la giustificazione della quale risiede in modo esaustivo ed assorbente nella ritenuta sussistenza di causa non imputabile che ha reso impossibile la prestazione.
Giova invero precisare che, ove non fosse ravvisabile tale causa impeditiva della responsabilità da inadempimento, il rilievo secondo cui il successivo intervento di vaporizzazione del III posteriore e medio della corda vocale destra fu eseguito prematuramente varrebbe solo a individuare una causa concorrente della lesione, inidonea come tale ad escludere (ex art. 41 c.p.) l'efficacia eziologica del primo intervento e, con essa, ex art. 2055 c.c., la responsabilità per intero del primo operatore (v. Cass., Sez. un., 21 novembre 2011, n. 24408; Cass. 21 luglio 2011, n. 15991; 11 novembre 2019, n. 28986).
Resta il fatto, però, che, nella specie, come detto, la responsabilità del primo operatore è stata esclusa per la diversa e autonoma ragione della divisata sussistenza di causa non imputabile ex art. 1218 c.c.
5. Il secondo motivo è inammissibile.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte (v. Cass. [n.] 4532 del 16 maggio 1996; n. 25651 del 27 ottobre 2017; n. 22873 del 13 agosto 2021), posto che - ai sensi del combinato disposto degli artt. 53, 54 e 63 c.p.c. - la decisione sulla ricusazione del consulente tecnico è adottata con ordinanza non impugnabile, il ricorso per cassazione avverso la sentenza del giudice d'appello (con il quale si censura la decisione impugnata perché fondata sulla consulenza redatta dal consulente asseritamente incompatibile) deve essere fondato su ragioni, sorrette da adeguate argomentazioni, tendenti a dimostrare che la predetta incompatibilità ha in effetti inciso sulla valutazione delle risultanze cliniche e strumentali, così da determinare un vizio di motivazione della sentenza (sussistenza del requisito della decisività).
Tali caratteristiche non si ravvisano nel caso di specie, risolvendosi il motivo nella mera allegazione di circostanze - allegazione peraltro di per sé inosservante dell'onere di specifica indicazione del se, dove e quando esse siano state rappresentate al giudice a quo - indicative della sussistenza di ragioni di ricusazione e, dunque, dell'asserita loro erronea esclusione da parte della Corte d'appello, senza tuttavia argomentare, tanto meno alla stregua del paradigma censorio di cui all'art. 360, comma primo, n. 5, c.p.c., in ordine alle ragioni per le quali debba ritenersi che tale asserita causa di ricusazione abbia effettivamente inciso sull'operato del c.t.u., determinando una falsa ed erronea lettura dei dati clinici sottoposti all'esame del consulente.
6. È anche inammissibile il terzo motivo.
Secondo pacifico indirizzo è denunciabile in cassazione solo l'anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; tale anomalia si esaurisce nella "mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili" e nella "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile", esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di "sufficienza" della motivazione (Cass., Sez. un., n. 8053 del 7 aprile 2014; Cass. n. 21257 del 2014; n. 23828 del 2015; n. 23940 del 2017; n. 22598 del 2018).
Nella specie è evidente che la motivazione addotta nella sentenza impugnata soddisfa il minimo costituzionale richiesto per non incorrere nel vizio denunciato, in essa dandosi ampio conto, alla stregua di argomentazione coerente e lineare, del convincimento raggiunto sulla scorta di un esaustivo esame degli elementi raccolti e delle conclusioni del c.t.u.
Per contro nel motivo si intende ricondurre inammissibilmente a tale ipotesi la mancata risposta ad argomenti difensivi, peraltro genericamente evocati, dedotti nel giudizio di appello.
7. Il ricorso deve essere pertanto dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna della ricorrente alla rifusione, in favore di ciascuno dei controricorrenti, delle spese del presente procedimento, liquidate come da dispositivo.
8. In calce al controricorso depositato nell'interesse di Stefano S. si legge una richiesta di distrazione delle spese in favore dei «sottoscritti procuratori, Avv. Massimiliano Bersani, Avv. Stefania Cavalli, Avv. Sandro Piscicelli, che se ne dichiarano anticipatari».
Sta di fatto, però, che nessuno dei detti avvocati è in procura per il giudizio di cassazione, mentre l'unico procuratore officiato della difesa nel giudizio di legittimità, Avv. Dario Scognamillo, non è indicato tra gli Avvocati per i quali è chiesta la distrazione.
Si tratta evidentemente di un refuso (errore materiale) ma, in mancanza di alcuna successiva rettifica, non è dato comprendere se l'errore consista nell'avere indicato i destinatari della distrazione o nella richiesta tout court.
Per come è formulata la richiesta non può dunque essere accolta.
9. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, l. 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell'art. 1-bis dello stesso art. 13.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, liquidate, per ciascuno, in euro 7.500 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200, 00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall'art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.