Corte di cassazione
Sezione II civile
Sentenza 31 gennaio 2023, n. 2817

Presidente: D'Ascola - Estensore: Criscuolo

RAGIONI IN FATTO DELLA DECISIONE

A seguito di numerose segnalazioni avvenute negli anni 2015 e 2016, l'Ordine dei medici di Treviso decideva di intraprendere un procedimento disciplinare nei confronti del dott. Roberto G., a seguito della pubblicazione di note giornalistiche, divulgazione di notizie su social network e pubblicazioni varie, che si riteneva costituissero una propaganda contro le vaccinazioni pediatriche, in contrasto con le indicazioni nazionali ed internazionali, nonché con le disposizioni del SSN e le direttive regionali, il tutto altresì in contrasto con le evidenze della letteratura scientifica disponibile.

Dopo avere proceduto all'audizione del dott. G., il quale tramite i suoi legali depositava copiosa documentazione, la Commissione per gli iscritti all'albo dei medici chirurghi deliberava l'apertura del procedimento disciplinare, assumendo che il sanitario non avesse tutelato, nell'esercizio della propria attività, la salute individuale e collettiva, non basando le proprie prescrizioni sulle evidenze scientifiche disponibili e sottraendo le persone assistite, in particolare i minori, a trattamenti scientifici fondati e di comprovata efficacia.

Era altresì contestato che non aveva garantito agli assistiti un'informazione esaustiva sulla prevenzione e sui prevedibili rischi e complicanze, intraprendendo trattamenti terapeutici senza il preventivo consenso informato; non aveva attuato un'informazione sanitaria trasparente, rigorosa e prudente, fondata sulle conoscenze scientifiche acquisite, ma divulgando notizie che avevano potuto alimentare aspettative e timori infondati, idonei a determinare un pregiudizio dell'interesse generale. Inoltre, aveva denigrato la professionalità e le competenze dei colleghi, il tutto in violazione degli artt. 3, 13, 15, 32, 33, 35 e 55 del codice deontologico medico.

La Commissione disciplinare concedeva, su richiesta del sanitario, una proroga del termine per la sua audizione, pari a 30 giorni, e con successiva comunicazione il G. dichiarava di ricusare il Presidente dell'Ordine, dott. Guarini, per una sua precedente pubblicazione scientifica che contrastava le tesi del ricorrente.

Disattesa anche tale richiesta, si procedeva alla celebrazione dell'udienza disciplinare alla quale il dott. G. non partecipava.

Quindi la Commissione in pari data deliberava la radiazione del sanitario dall'albo dei medici chirurghi.

Tale decisione era impugnata dinanzi alla Commissione centrale per gli esercenti le professioni sanitarie che, con la decisione dell'11 novembre 2020, rigettava il ricorso.

La Commissione disattendeva i primi tre motivi di opposizione, con i quali si deduceva la genericità delle contestazioni mosse in sede disciplinare, rilevando altresì che al procedimento in esame non trovava applicazione la disciplina di cui alla l. n. 241/1990, attesa la specialità delle previsioni di cui al d.P.R. n. 221/1950.

Inoltre, il G. era stato posto nelle condizioni di conoscere le incolpazioni mosse, essendo stato anche espressamente convocato.

La conoscenza delle contestazioni era evincibile anche dalle difese svolte in sede disciplinare, che denotavano la piena consapevolezza del sanitario e del suo difensore circa gli addebiti contestati.

Era altresì infondata la deduzione secondo cui le condotte contestate al G. non erano state precisamente sussunte nelle norme sanzionatorie disciplinari, essendo tale affermazione smentita dalla lettura del provvedimento di avvio del procedimento disciplinare.

Né poteva addursi che anche tale provvedimento dovesse essere motivato, trattandosi di atto che, in quanto emesso all'esito della fase preliminare, deve semplicemente limitarsi a contestare gli addebiti rivolti al sanitario.

Quanto alla motivazione della sanzione irrogata, la decisione evidenziava che la commissione di disciplina aveva puntualmente evidenziato la presenza dell'elemento soggettivo e la gravità della condotta ascritta al G., che obiettivamente giustificava l'adozione del provvedimento di radiazione.

In particolare, quanto all'elemento soggettivo, la decisione reclamata aveva evidenziato come il G., sebbene avesse preso l'impegno con la commissione di attenersi ad una condotta prudente nelle comunicazioni al pubblico in materia di vaccinazioni pediatriche, aveva disatteso poi tale impegno, come emergeva dalla documentazione raccolta che confermava il discredito che le sue dichiarazioni avevano apportato alla categoria dei pediatri, che erano accusati di non prestare attenzione alle caratteristiche individuali dei pazienti.

Doveva quindi reputarsi che il G. avesse la consapevole e preordinata volontà di diffondere in una platea di ascoltatori interessati, ma privi di adeguate conoscenze scientifiche, un sentimento di avversione nei confronti dei trattamenti vaccinali, senza però un confronto con la più accreditata opinione scientifica.

Quanto al merito delle contestazioni, la decisione rilevava che il G. aveva dato informazioni con toni allarmistici, sostenendo che il SSN taceva circa i rischi cui erano esposti i bambini a seguito delle vaccinazioni, avendo quindi assunto un ruolo attivo al fine di disincentivare il ricorso alla pratica vaccinale, proponendo delle terapie alternative, ma senza offrire un'adeguata ed esaustiva informazione, onde rendere il consenso a tali pratiche effettivamente informato.

Emergeva una contraddizione nella condotta del G. che, pur formalmente non dichiarandosi contrario ai vaccini, corredava tale affermazione di una serie di altre precisazioni tali da ingenerare allarme nell'opinione pubblica.

In relazione al motivo con il quale il G. si doleva della partecipazione alla Commissione del dott. Guarini, la decisione osservava che, ferma restando l'applicazione anche a tale ipotesi delle norme dettate per l'astensione e la ricusazione dei giudici, nella specie doveva escludersi che l'articolo a firma del Guarini, con l'adesione ad una tesi scientifica, potesse costituire motivo di astensione obbligatoria del professionista in ordine alla decisione da assumere in sede disciplinare, posto che tale procedimento ha la finalità di riaffermare il primato delle norme deontologiche e non anche quello di perseguire un interesse personale dei singoli componenti del collegio giudicante.

Risultava infondata la doglianza circa la mancata concessione dei termini a difesa, posto che il termine inizialmente concesso era stato prorogato e che il G. aveva depositato abbondante e ponderosa documentazione a sostegno della propria difesa.

Non poteva accedersi né alla richiesta di audizioni di testimoni (per la genericità delle circostanze sulle quali gli stessi avrebbero dovuto deporre) né a quella di disporre una consulenza tecnica, né era meritevole di accoglimento la richiesta di celebrazione del procedimento disciplinare in pubblica udienza, non essendo tale modalità di svolgimento del procedimento contemplata dal d.P.R. n. 221/1950.

Infine, era da disattendere la richiesta di disapplicazione dell'art. 55 del codice deontologico per il preteso contrasto con l'art. 21 Cost., posto che la norma deontologica non rappresenta un limite alla libera manifestazione del pensiero, ma ribadisce che è dovere del medico quello di promuovere un'informazione prudente, oltre che rigorosa e trasparente, evitando la diffusione di notizie che possano alimentare timori o allarmismi.

Il diritto di manifestazione del pensiero va quindi esercitato nel rispetto del diritto alla salute individuale e collettiva, occorrendo quindi far riferimento alle evidenze scientifiche disponibili ed alle linee diagnostiche terapeutiche accreditate.

La cassazione della decisione della Commissione centrale per gli esercenti le professioni sanitarie è chiesta da G. Roberto sulla base di sedici motivi di ricorso.

Il Ministero della salute e l'Ordine provinciale dei medici chirurghi e degli odontoiatri di Treviso hanno resistito con autonomi controricorsi.

Gli altri intimati non hanno svolto difese in questa fase.

RAGIONI IN DIRITTO DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso denuncia la nullità della sentenza per l'irregolare costituzione del collegio giudicante della Commissione centrale per gli esercenti le professioni sanitarie (CCEPS), in quanto i relativi membri sarebbero stati nominati con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 27 dicembre 2016, n. 425, in maniera illegittima, posto che il potere di nomina ai sensi dell'art. 17 del d.lgs. n. 233/1946 prevede che la nomina debba avvenire con decreto del Capo dello Stato.

Né vale opporre la diversa previsione di cui all'art. 1 della l. n. 13/1991, in quanto tale norma prescrive che il decreto del Presidente delle Repubblica sia necessario per tutte le nomine e conferimento di incarichi direttivi a magistrati sia ordinari che speciali, tra i quali rientra anche la CCEPS.

Il secondo motivo denuncia la nullità della sentenza in quanto la CCEPS ha giudicato nella vicenda con la partecipazione di soli quattro membri (il presidente, cons. Pasca, e tre giudici a latere, Gaudiano, Nume e Mora), il tutto in evidente violazione dell'art. 17 del d.lgs. n. 233/1946 che per la validità delle decisioni prescrive la presenza di non meno di cinque membri, compreso il presidente.

Il terzo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 21 Cost.

Si evidenzia che al G. non sono state contestate pratiche terapeutiche scorrette ma solo la diffusione di informazioni di carattere sanitario, rivolte alla generalità dei cittadini, anche in ragione degli strumenti di diffusione utilizzati.

Avuto riguardo al contenuto delle informazioni propalate deve reputarsi che l'attività del ricorrente rientri a pieno titolo nella libera manifestazione del pensiero, avendo il G. sempre corredato le informazioni di richiami ad opinioni scientifiche, tacciate però di non essere in linea con quelle invece ritenute dominanti presso la comunità scientifica.

La prevalenza del diritto di manifestazione del pensiero imponeva quindi, come già richiesto in sede di opposizione, di pervenire alla disapplicazione dell'art. 55 del codice deontologico, in quanto previsione idonea a pregiudicare il diritto costituzionalmente garantito di manifestazione del pensiero.

Il quarto motivo denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 21 Cost. e dell'art. 10 della CEDU e dell'art. 11 della CDFUE, nella parte in cui la decisione gravata ha reputato che solo l'espressione del pensiero che risulti conforme alle più accreditate informazioni scientifiche possa essere avallata, dovendosi invece sanzionare quella che, ancorché sulla base di diverse nozioni scientifiche, si ponga in dissonanza rispetto al pensiero dominante.

Il quinto motivo denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 3 della l. n. 241/1990 nonché dell'art. 156 c.p.c. e dell'art. 39 del d.P.R. n. 221/1950.

È erronea l'affermazione della CCEPS secondo cui debba negarsi al procedimento disciplinare l'applicazione delle norme dettate per il procedimento amministrativo, occorrendo sempre assicurare la motivazione di tutti i provvedimenti amministrativi, anche quelli aventi carattere disciplinare.

La natura amministrativa degli atti esclude poi che sia corretto il richiamo alla sanatoria di cui all'art. 156 c.p.c., dettata per gli atti processuali.

Il sesto motivo denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 3 della l. n. 241/1990 nonché falsa applicazione dell'art. 156 c.p.c. e dell'art. 39 del d.P.R. n. 221/1950, avendo la CCEPS reputato che, sebbene l'atto di contestazione non contenesse la specifica individuazione dei fatti che reggevano la contestazione, degli stessi il G. ne era comunque a conoscenza, e ciò in quanto la prevista trasmissione delle segnalazioni non poteva supplire alla carenza dell'atto di promovimento dell'illecito disciplinare.

Il settimo motivo denuncia la violazione dell'art. 3 della l. n. 241/1990 nonché la falsa applicazione dell'art. 156 c.p.c. e dell'art. 39 del d.P.R. n. 221/1950 nella parte in cui la CCEPS ha sostenuto che l'atto di contestazione contenesse la puntuale indicazione delle norme deontologiche violate.

Infatti, la sanzione appare correlata anche alla violazione dell'art. 79 del codice deontologico, norma che però non è menzionata nell'atto de quo. Inoltre, è mancata l'effettiva sussunzione della fattispecie concreta nella previsione astratta.

L'ottavo motivo denuncia la violazione dell'art. 3 della l. n. 241/1990 nonché la falsa applicazione dell'art. 156 c.p.c. e dell'art. 39 del d.P.R. n. 221/1950, nella parte in cui la CCEPS ha sostenuto che non fosse necessario motivare l'atto di contestazione degli addebiti disciplinari sul presupposto dell'inapplicabilità della l. n. 241/1990.

In particolare, l'atto de quo non spiega le ragioni per le quali erano state disattese le deduzioni difensive svolte in sede di audizione dal ricorrente, il che determinava una violazione anche del diritto di difesa.

Il nono motivo denuncia un error in motivando quanto alla assenza di motivazione circa la scelta di applicare al ricorrente la sanzione più grave della radiazione.

Il decimo motivo denuncia la violazione degli artt. 7 ed 8 della CEDU e dell'art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU.

In tal senso si rileva che la sanzione della radiazione appare del tutto indeterminata nella parte in cui è ancorata alla generica affermazione che consegue alla grave compromissione della reputazione del medico e della dignità della classe sanitaria.

Ciò comporta una imprevedibilità delle conseguenze della condotta, in contrasto con i principi della CEDU che impongono una tipizzazione delle pene.

L'undicesimo motivo lamenta la violazione e falsa applicazione dell'art. 3 della l. n. 241/1990 quanto all'omessa motivazione della decisione gravata circa la ricorrenza dell'elemento soggettivo dell'illecito disciplinare, non potendosi reputare a tal fin sufficiente il solo richiamo al fatto che il G. fosse venuto meno ad impegni asseritamente assunti al fine di attenersi ad una condotta prudente.

Il dodicesimo motivo denuncia un error in motivando nella parte in cui si è sostenuto che l'attività di divulgazione del ricorrente fosse antiscientifica, denigratoria ed allarmistica, senza tenere conto delle plurime argomentazioni spese al fine di confutare tale giudizio.

Il tredicesimo motivo lamenta la violazione e falsa applicazione dell'art. 51 c.p.c. e dell'art. 64 del d.P.R. n. 221/1950 nella parte in cui la CCEPS ha disatteso la richiesta di ricusazione del dott. Guarini presidente della Commissione di disciplina ed altresì presidente del Consiglio dell'Ordine dei medici di Treviso, trascurando che il medesimo aveva pubblicato un articolo su di una rivista, nel quale anticipava la propria posizione quanto alle questioni affrontate dal G. e che avevano determinato l'apertura del procedimento disciplinare.

Il quattordicesimo motivo lamenta la nullità della sentenza per irregolare composizione del collegio giudicante, e ciò in quanto il dott. Mora, membro della CCEPS, in una dichiarazione pubblicata sulla stampa nell'ottobre del 2016, nel riferirsi ai fatti contestati al G., aveva asserito che a suo avviso "Per me quel medico andrebbe radiato", dichiarazione questa che gli imponeva di astenersi.

Il quindicesimo motivo lamenta la falsa applicazione del principio del giusto procedimento e la violazione dell'art. 39 del d.P.R. n. 221/1950, per essere stata confermata la decisione reclamata circa la mancata concessione dei termini a difesa nel corso del procedimento disciplinare. La decisione è erronea poiché ha ritenuto che la sola mole dei documenti prodotti avesse assicurato il diritto di difesa del ricorrente, senza avvedersi che non era la sola mole a dover essere ponderata ma altresì la sufficienza della documentazione versata in atti.

Il sedicesimo motivo lamenta la violazione dell'art. 6 della CEDU, in quanto è stata disattesa la richiesta di celebrazione del procedimento disciplinare in una pubblica udienza, sebbene la detta norma preveda che ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata pubblicamente.

2. Il primo motivo di ricorso è infondato.

Questa Corte ha specificato che (Cass. nn. 596 e 597 del 2015) la Commissione centrale per gli esercenti le professioni sanitarie è un organo di giurisdizione speciale chiamato ad esaminare, tra l'altro, i ricorsi avverso i provvedimenti degli ordini e collegi professionali locali in materia di albo e di irrogazione di sanzioni disciplinari.

La nomina e la composizione della Commissione centrale per gli esercenti le professioni sanitarie sono disciplinate dal d.lgs.C.p.S. n. 233 del 1946, art. 17.

In base a questa disposizione, la Commissione centrale è "nominata con decreto del Capo dello Stato, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, di concerto con il Ministro per la grazia e giustizia, presieduta da un consigliere di Stato e costituita da un membro del Consiglio superiore di sanità e da un funzionario dell'Amministrazione civile dell'interno di grado non inferiore al sesto. Fanno altresì parte della Commissione: [...] a) per l'esame degli affari concernenti la professione dei medici chirurghi, un ispettore generale medico ed otto medici chirurghi, di cui cinque effettivi e tre supplenti".

Questa disposizione ha ricevuto alcune modifiche implicite di dettaglio, e tra queste rilevano, ai fini del motivo in esame, la circostanza che l'atto di nomina non assume più la forma del d.P.R., ma quello del d.P.C.m., in forza della l. 12 gennaio 1991, n. 13, art. 2 (Determinazione degli atti amministrativi da adottarsi nella forma del d.P.R.), ai sensi del quale "Gli atti amministrativi, diversi da quelli previsti dall'art. 1, per i quali è adottata alla data di entrata in vigore della presente legge la forma del d.P.R., sono emanati con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri o con decreto ministeriale, a seconda della competenza a formulare la proposta sulla base della normativa vigente di cui sopra. Gli atti amministrativi di cui al comma 1, ove proposti da più Ministri, sono emanati nella forma del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri". La disciplina, così modificata, è tuttora vigente e l'organo continua ad operare in base ad essa. Il d.l. 13 settembre 2012, n. 158, art. 15, comma 3-bis (Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute), aggiunto dalla legge di conversione 8 novembre 2012, n. 189, ha, infatti, stabilito: "In considerazione delle funzioni di giurisdizione speciale esercitate, la Commissione centrale per gli esercenti le professioni sanitarie, di cui all'articolo 17 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 13 settembre 1946, n. 233, e successive modificazioni, è esclusa dal riordino di cui all'articolo 2, comma 4, della legge 4 novembre 2010, n. 183, e continua ad operare, sulla base della normativa di riferimento, oltre il termine di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto-legge 28 giugno 2012, n. 89, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 132, come modificato dal comma 3-ter del presente articolo".

Ne consegue che la designazione dei componenti della CCEPS con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri è legittima, rivelandosi quindi il motivo privo di fondamento.

3. Viceversa deve reputarsi fondato il secondo motivo di ricorso.

La composizione della Commissione centrale è disciplinata dall'art. 17 del d.lgs. del Capo provvisorio dello Stato n. 233 del 1946, che, per quanto di interesse, prevede al primo comma che "Presso l'Alto Commissariato per l'igiene e la sanità pubblica è costituita, per i professionisti di cui al presente decreto, una Commissione centrale, nominata con decreto del Capo dello Stato, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, di concerto con il Ministro per la grazia e giustizia, presieduta da un consigliere di Stato e costituita da un membro del Consiglio superiore di sanità e da un funzionario dell'Amministrazione civile dell'interno di grado non inferiore al 6°".

Il settimo comma dell'art. 17 d.lgs. 233/1946 dispone che per la validità di ogni seduta occorre la presenza di non meno di cinque membri della Commissione, compreso il presidente; almeno tre dei membri devono appartenere alla stessa categoria alla quale appartiene il sanitario di cui è in esame la pratica.

Sulla vicenda della composizione della Commissione è, a suo tempo, intervenuta la Corte costituzionale che, con sentenza n. 215 del 7 ottobre 2016, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 17, primo e secondo comma, lettere a), b), c), d) ed e), del d.lgs.C.p.S. n. 233 del 1946 per via della illegittima composizione della Commissione stessa, poiché di essa facevano parte due dirigenti del Ministero della salute, Ministero che è, a sua volta, parte necessaria del procedimento, come tale legittimato ad impugnarne le decisioni.

Il Consiglio di Stato con sentenza n. 769 del 6 febbraio 2018 nel ribadire che la Commissione centrale, soprattutto con riferimento ai suoi poteri disciplinari, ha natura giurisdizionale «alla luce di una interpretazione sistematica delle disposizioni dell'ordinamento in materia e, comunque, di quelle già contenute nella disciplina del 1946, e che - come pure tale dottrina ha osservato - il sistema della c.d. giurisdizione professionale rimonta a tempi precedenti alla Costituzione, a tempi, cioè, in cui la disciplina della giurisdizione, per usare le parole di tale dottrina, e la tutela stessa delle situazioni soggettive "era molto diversa, e certamente rigorosa, rispetto a quella della Carta costituzionale"», e pur manifestando l'auspicio che il legislatore intervenga con una disciplina della materia più moderna, più organica e più rispettosa dei principi costituzionali ed europei, allo stato della legislazione vigente, quale rimodulata dalle pronunce della Corte costituzionale, ha però ritenuto che il d.P.C.m. del 27 dicembre 2016 era illegittimo, quanto alla nomina di due componenti della CCEPS, di cui uno effettivo e l'altro supplente.

Si trattava, infatti, di due dirigenti del Ministero della salute che, sebbene designati dal Consiglio superiore di sanità e non più, dopo la sentenza della Corte costituzionale, dallo stesso Ministero della salute, non fornivano, stavolta sul piano sostanziale, i prescritti requisiti di autonomia e indipendenza dal Ministero della salute stesso, riproducendo la stessa situazione censurata dal giudice delle leggi.

È stato quindi dato l'invito all'Istituto superiore di sanità ed alla Presidenza del Consiglio dei ministri a provvedere, nell'ambito delle rispettive competenze, alla designazione e alla nomina di due membri, effettivo e supplente, della Commissione che forniscano, da un lato, per ambito attitudinale, professionalità e competenza e, dall'altro, per l'assenza di qualsivoglia soggezione del proprio status economico e giuridico al Ministero della salute, in sostanziale e non solo formale conformità a quanto ha stabilito la Corte costituzionale nelle motivazioni della sentenza n. 215 del 7 ottobre 2016, le necessarie e sufficienti garanzie di imparzialità e di indipendenza nel proprio operato di componenti della Commissione stessa, quale organo decisionale della giurisdizione speciale in sede disciplinare.

Analogo contenuto presenta anche la sentenza del Consiglio di Stato n. 4059 del 2018, che ha ribadito come, anche a seguito dell'intervento della Consulta, la composizione della Commissione centrale per gli esercenti professioni sanitarie, organo di giurisdizione speciale, è disciplinata dall'art. 17 d.lgs. 13 settembre 1946, n. 233, senza che sul punto sia necessario, per il suo perdurante funzionamento, un intervento normativo a rimodularne la composizione, il cui numero si è ridotto da nove a sette membri.

Così riassunto il quadro normativo, anche alla luce della parziale dichiarazione di incostituzionalità della norma, resta però tuttora applicabile la previsione di cui all'art. 17 sopra riportata che individua in 5 il numero di membri minimo per la validità delle decisioni (comma 7), avendo peraltro di recente questa Corte affermato che nulla osta a che la CCEPS possa decidere anche con un numero pari di componenti, stante la previsione di cui all'art. 65 del d.P.R. 221/1950 che prevede che "Le decisioni della Commissione sono adottate a maggioranza; in caso di parità prevale il voto del presidente, che vota per ultimo, dopo aver raccolto i voti dei componenti" (Cass. n. 23253/2021).

Il caso esaminato dal precedente ora richiamato, se avalla la legittimità delle decisioni adottate dalla CCEPS con un numero di componenti superiore a quello minimo di cinque, e ciò anche se il numero sia pari, trovando la norma il rimedio per l'ipotesi di parità di voti tra i componenti nella prevalenza accordata al voto del presidente, non può in alcun modo avallare una soluzione che consenta di superare la previsione in merito al numero minimo dei partecipanti alla decisione, previsione a presidio della quale è appunto posta la sanzione della validità della decisione.

Come si ricava dal testo del provvedimento impugnato, effettivamente lo stesso risulta essere stato deciso da soli quattro componenti (il presidente, dott. Antonio Pasca, e tre componenti, dott. Vito Gaudiano, dott. Cosimo Nume e dott. Roberto Mora), e con l'assistenza del segretario verbalizzante, dott. Antonio Federici, funzionario del Ministero della salute, circostanza questa che non può che determinarne la nullità.

Né vale addurre, come sostenuto dalla difesa erariale, che si tratti di scelta imposta a seguito della sentenza della Corte costituzionale e del successivo annullamento del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 27 dicembre 2016 di nomina dei nuovi componenti, posto che, come ricordato dal precedente del Consiglio di Stato sopra riportato, è pur vero che il numero dei componenti della CCEPS si era ridotto a sette, ma che si tratta in ogni caso di un numero che consente il rispetto della prescrizione minimale di cui al settimo comma dell'art. 17.

Né appare altrettanto meritevole di condivisione il rilievo della difesa del Consiglio dell'Ordine, secondo cui non potrebbe escludersi che alla camera di consiglio abbia partecipato un numero di componenti pari a quello prescritto dalla norma.

Infatti, deve ritenersi che l'epigrafe della decisione, con l'indicazione dei componenti, rispecchi la reale composizione del collegio giudicante non solo in relazione all'udienza ma anche per l'individuazione di coloro che hanno deliberato in camera di consiglio, essendo peraltro preclusa la possibilità che alla camera di consiglio possano prendere parte soggetti diversi da quelli che hanno invece partecipato all'udienza di discussione ovvero, come nella specie, all'adunanza pubblica.

Il motivo deve quindi essere accolto e la decisione gravata deve essere cassata, con rinvio per nuovo esame alla CCEPS, in diversa composizione.

4. L'accoglimento del secondo motivo determina poi l'assorbimento dei restanti motivi di ricorso.

Non può avere seguito però la richiesta del Pubblico ministero di pronunciare il principio di diritto nell'interesse della legge, in relazione ai temi posti dal terzo e quarto motivo di ricorso.

Ostano a tale istanza la non riconducibilità della vicenda nella previsione di cui al comma 1 dell'art. 363 c.p.c. e la non ricorrenza delle condizioni invece dettate dal terzo comma del medesimo articolo, atteso l'accoglimento del secondo motivo.

Inoltre, rileva la circostanza che, in ragione della natura del vizio accolto, il giudizio di rinvio ha evidentemente carattere restitutorio, essendo la Commissione chiamata ex novo a pronunciarsi, stante l'assoluta nullità della precedente decisione, ed essendo quindi chiamata senza alcun vincolo scaturente dalla precedente sua decisione a dover rivalutare sul piano disciplinare la condotta del ricorrente.

5. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Accoglie il secondo motivo di ricorso, rigetta il primo ed assorbiti i restanti, cassa la decisione impugnata in relazione al motivo accolto con rinvio alla Commissione centrale per gli esercenti le professioni sanitarie, in diversa composizione.

Condanna i controricorrenti, in solido tra loro, al rimborso delle spese in favore del ricorrente che liquida in complessivi euro 4.200,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% sui compensi, ed accessori di legge.