Corte dei conti
Sezione I centrale d'appello
Sentenza 15 ottobre 2024, n. 233

Presidente: Torri - Estensore: Bussi

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Nell'interesse della Casa di cura Cascini s.r.l., è stato promosso appello avverso la sentenza n. 183/2022 della Sezione giurisdizionale regionale per la Calabria, con la quale la società è stata condannata per il pregiudizio cagionato all'erario dell'Azienda sanitaria provinciale di Cosenza, pari a euro 1.113.600,00, oltre rivalutazione e interessi, per essersi adoperata al fine di realizzare pagamenti non dovuti nell'ambito di un rapporto di convenzionamento intercorrente con la struttura pubblica.

L'Ufficio requirente aveva agito per il reintegro dei compensi indebitamente ottenuti, che erano stati liquidati a seguito di una procedura esecutiva, con assegnazione delle somme da parte del giudice civile, attivata da un soggetto terzo in qualità di cessionario dei crediti, che la medesima Casa di cura aveva dichiarato senz'altro di vantare, sebbene l'ente li avesse in parte contestati e in parte disconosciuti.

Con la pronuncia impugnata, il giudice di primo grado ha riconosciuto la sussistenza del rapporto di servizio in capo alla convenuta, al fine del radicamento della giurisdizione erariale, ritenendo che, sulla base delle disposizioni vigenti, apparisse evidente come i privati "accreditati" presso il SSR (diversamente da quelli "autorizzati") fossero veri e propri uffici dell'amministrazione (incaricati di pubblico servizio), come desumibile dall'art. 8-bis del d.lgs. 502 del 1992. In particolare, detti operatori non sarebbero dei semplici fornitori di prestazioni, in un ambito puramente contrattualistico, ma sarebbero inseriti in un sistema complesso pubblico-privato, qualificato dal raggiungimento di fini di interesse generale e di particolare rilevanza costituzionale, quale il diritto alla salute, per cui su tali soggetti graverebbero obblighi di partecipazione e di cooperazione nella definizione della stessa pianificazione e programmazione del volume delle attività.

È stato pertanto concluso come il rispetto del conseguente tetto di spesa rappresenti un dovere di servizio, da ritenersi violato qualora avvengano sovraprestazioni non previamente autorizzate e se ne ottenga il pagamento al di fuori delle ordinarie procedure amministrative o contenziose (in modo da consentire all'amministrazione di verificarne la debenza e di inserire nella propria programmazione le maggiori pretese della struttura accreditata), specie con l'utilizzo doloso di strumenti che determinano un pagamento non programmato ed estemporaneo.

Sulla base di tali considerazioni, ritenuto che ricorressero tutti gli elementi della responsabilità, la Casa di cura è stata quindi condannata a rifondere l'Azienda sanitaria per l'intero danno azionato.

Con l'appello in epigrafe, detta società ha formulato diversi motivi di censura avverso la sentenza, chiedendone la riforma. Nello specifico, ha domandato, in via preliminare e assorbente, di dichiarare il proprio difetto di legittimazione passiva per insussistenza del rapporto di servizio con la Pubblica Amministrazione e, in via principale, di essere prosciolta da ogni responsabilità in assenza di qualsivoglia tipo di pregiudizio erariale, di comportamento antigiuridico, di dolo o colpa grave, nonché di nesso di causalità fra condotta ed evento. Il tutto con vittoria di spese e competenze di lite, con attribuzione ai procuratori antistatari.

Le ragioni di doglianza possono essere così sintetizzate:

1) inesistenza di un rapporto di servizio tra la Casa di cura Cascini e l'ASP di Cosenza: violazione art. 8-quinquies d.lgs. 502/1992 e art. 24 Cost.

È stato obiettato che, diversamente da quanto statuito in prime cure, nel caso di specie, la pretesa della struttura nei confronti dell'ente, con ogni evidenza, innescherebbe una controversia tra le parti di un contratto, per la corretta determinazione del corrispettivo dovuto per l'esecuzione dell'obbligazione, la quale, come tale, non apparterrebbe alla giurisdizione del giudice contabile. Invero, nella fattispecie, a essere violato non sarebbe il dovere, lato sensu pubblicistico, gravante sul privato di agire nell'interesse dell'amministrazione, bensì quello di adempiere correttamente i doveri dedotti in negozio, ai quali corrisponderebbero diritti in contropartita, su un piano di parità. Alla Casa di cura con accreditamento, pertanto, non sarebbero devoluti poteri autoritativi propri degli uffici pubblici, che consentirebbero, secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione, di giustificare l'inserimento funzionale e temporaneo nel relativo apparato organizzativo, operando esclusivamente quale erogatore di prestazioni. La gestione del pubblico denaro pertanto permarrebbe nella competenza dell'amministrazione sanitaria, alla quale il privato contraente avrebbe il diritto di chiedere la retribuzione dei servizi resi. In definitiva, al soggetto incaricato non spetterebbe di esercitare alcun potere discrezionale, decisionale o valutativo delle esigenze della collettività, ma solo di fornire le attività domandate dai cittadini, ottenendone la remunerazione dalla ASP entro i limiti fissati in convenzione; in conseguenza, non potrebbe che rivolgersi all'Autorità giudiziaria ordinaria per conseguire la liquidazione delle prestazioni svolte su richiesta degli utenti che non trovano copertura finanziaria nell'accordo, di cui comunque la P.A. si avvantaggerebbe affrancandosi dalla relativa spesa. È quanto si riscontrerebbe nella vicenda, in cui il pagamento è avvenuto all'interno delle ordinarie procedure contenziose, in contraddittorio con l'Azienda davanti ad un Giudice ordinario, utilizzando uno strumento processuale regolarmente previsto dall'ordinamento giuridico e messo a disposizione di chiunque vanti un presunto credito, ossia l'intervento dei creditori ai sensi dell'art. 499 c.p.c. Qualsiasi vizio rinvenibile nella prospettazione della SPV Project, cessionaria del credito e interveniente, avrebbe dovuto essere censurato nelle sedi competenti (dinanzi al Giudice dell'esecuzione) e con i rimedi processuali appositamente contemplati dalla legge, ovverosia l'opposizione all'esecuzione o agli atti esecutivi, ex artt. 615 e 617 c.p.c., mai esperiti;

2) un secondo motivo di gravame ha riguardato l'inesistenza di un danno ingiusto e la violazione dell'art. 8-quinquies, comma 1, lett. d), del d.lgs. 502/1992, nonché dell'art. 103 Cost.

Invero, secondo l'appellante, le prestazioni extra-budget sarebbero astrattamente remunerabili, per espressa previsione di legge e ammissione giurisprudenziale, come già rilevato nella comparsa di costituzione depositata in primo grado, appositamente richiamata, al ricorrere di determinate condizioni, la cui valutazione spetterebbe esclusivamente al Tribunale ordinario, che infatti è stato adito e che si sarebbe già espresso sulla questione. In altri termini, difetterebbe in capo al Giudice contabile la competenza a conoscere di aspetti che attengono al merito della compensabilità o meno di servizi aggiuntivi e della relativa prova, in quanto materia prettamente civilistica, come peraltro riconosciuto dalla stessa Corte nei diversi passaggi della decisione censurata.

A ogni buon conto, le prestazioni sarebbero pienamente liquidabili sia con riguardo al 2002, sia per quanto concerne il 2007.

Con riferimento al primo degli anni considerati, il credito originerebbe dall'annullamento della delibera G.r. n. 457 del 28 maggio 2002, con la quale era stato disposto un abbattimento tariffario del 10%, a seguito delle pronunce emesse dal T.A.R. Calabria e dal Consiglio di Stato, dinanzi ai quali era stata impugnata da alcuni operatori del settore sanitario, che riferendosi a un atto a contenuto generale non potrebbero che riguardare tutte le strutture, anche se rimaste estranee al processo.

Per il 2007, sarebbe incontestabile la sussistenza di un diritto a favore degli erogatori privati a ottenere il pagamento delle prestazioni extra-budget - e un corrispondente obbligo delle Aziende sanitarie di compensarle - subordinatamente all'avverarsi della condizione (futura e incerta) che il tetto di spesa globale assegnato alla Regione non si fosse esaurito.

Ciò sulla base del disposto dell'art. 8-quinquies, comma 1, lett. d), d.lgs. 502/1992 e s.m.i., il quale sancisce l'obbligo per le Regioni di prevedere "i criteri per la determinazione della remunerazione delle strutture ove queste abbiano erogato volumi di prestazioni eccedenti il programma preventivo concordato tenuto conto del volume complessivo di attività e del concorso allo stesso da parte di ciascuna struttura".

Secondo l'appellante, l'onere della dimostrazione della sussistenza di fondi disponibili graverebbe sulla parte convenuta nel relativo contenzioso, venendo in considerazione come elemento impeditivo del credito preteso dall'attrice; per il principio di vicinanza della prova, spetterebbe all'ente pubblico l'allegazione dell'eventuale incapienza di risorse nel patrimonio collettivo, dovendo la società limitarsi a documentare di avere effettuato le prestazioni, come nel caso di specie.

Quanto ai requisiti del pregiudizio, dal punto di vista oggettivo, non sarebbe rinvenibile nessun aggravio ingiustificato per le casse erariali, in quanto si tratterebbe di somme riconosciute come dovute dal Tribunale di Cosenza.

Peraltro, sul piano soggettivo, alcun dolo o colpa grave potrebbe rinvenirsi nella condotta della cessionaria - e di riflesso della cedente - in quanto l'agire della stessa sarebbe stato improntato ai dettami del codice di procedura civile, in particolare dell'art. 499 c.p.c., e sarebbe passato al vaglio dell'Autorità giudiziaria, senza che la richiesta di pagamento sia mai stata rivolta direttamente all'ASP di Cosenza, perché fosse indotta a elargire somme non dovute.

Per quanto concerne l'inesistenza del danno da extra-budget, è stato sottolineato come l'Azienda avesse sempre e solo contestato la remunerabilità delle prestazioni per superamento dei limiti contrattualmente previsti, non anche la loro effettiva erogazione, provata nelle sedi competenti e, comunque, ritenuta pacifica per mancanza di espressa contestazione ex art. 115 c.p.c.

Ne discenderebbe l'omessa dimostrazione del pregiudizio in concreto, essendo stato ancorato esclusivamente alla violazione di soglie di spesa, come riconosciuto in precedenti di appello di questa Corte, sul punto richiamati, che dovrebbero condurre alla parziale assoluzione dell'interessata, per tale aspetto.

Quanto al nesso causale, in assenza di danno ingiusto, non vi sarebbe evento cui collegare alcuna condotta e, comunque, sotto il profilo della causalità adeguata o dell'id quod plerumque accidit.

Non potrebbe, infatti, ritenersi normale, né probabile, che ad una cessione di credito ad una società di cartolarizzazione segua la produzione di un nocumento erariale per la P.A., proprio perché questa tipologia di operazione, per sua natura, è sempre improntata alla verifica giudiziale della sussistenza del credito, con la conseguenza che sarebbe stata attribuita alla Casa di cura una responsabilità per fatto altrui.

Nessuna antigiuridicità sarebbe infine ravvisabile nel contegno dell'appellante, atteso che il contratto di cessione è solo uno "strumento" reso necessario proprio dall'atteggiamento ostracizzante della P.A., che sovente non paga nemmeno le prestazioni entro il budget contrattualizzato e/o riconosciute in sentenze definitive, imponendo ai privati di ricercare modalità di finanziamento alternative, per portare avanti attività che altrimenti collasserebbero.

Da ultimo, non potrebbe essere individuato dolo o colpa grave nella condotta volta a ottenere il pagamento rispetto al diniego opposto dall'Azienda, procedendo per le vie legali a tutela dei propri interessi.

In data 8 giugno 2024, la Procura generale ha depositato le proprie conclusioni scritte, nelle quali ha così replicato rispetto ai motivi di gravame:

- sull'eccepita insussistenza di un rapporto di servizio tra la Casa di cura Cascini e l'ASP di Cosenza, ha ribadito il pacifico orientamento della giurisprudenza in materia, richiamato anche dal giudice di prime cure, che correttamente ha ravvisato un vincolo di carattere pubblico con l'azienda sanitaria discendente dall'accreditamento ex art. 8-quater del d.lgs. 502/1992.

La natura del rapporto, a metà strada tra concessione e abilitazione tecnica idoneativa, nell'ambito di un servizio essenziale, imporrebbe, infatti, al privato accreditato precisi doveri di leale collaborazione con l'ente, amplificando l'ordinario dovere di diligenza e correttezza esigibile nei comuni rapporti obbligatori. Il sistema dell'accreditamento, dunque, non si sottrarrebbe al preminente esercizio del potere autoritativo e conformativo dell'amministrazione, che si qualificherebbe di tipo concessorio, assolvendo la funzione di ricondurre in un quadro di certezza il volume e la tipologia dell'attività del soggetto accreditato, il cui concorso con le strutture pubbliche nelle prestazioni di assistenza soggiacerebbe alla potestà di verifica sia tecnica che finanziaria della Regione e a criteri di sostenibilità, nei limiti di spesa annuali. D'altro canto, la natura di soggetto accreditato non costituirebbe vincolo per la liquidazione delle prestazioni erogate al di fuori degli accordi assunti (cfr. Cass., Sez. un., n. 16336/2019, e Sez. III, n. 27608/2019);

- relativamente all'inesistenza di un danno ingiusto, giacché difetterebbe in capo al Giudice contabile la competenza a conoscere di questioni che attengono al merito della remunerabilità o meno di attività extra-budget e della relativa prova, che, invece, apparterrebbero alla cognizione del Giudice ordinario, è stato sottolineato come la Corte, nella sua autonomia a giudicare in materia di contabilità, può sempre conoscere in via incidentale i fatti materiali che formano o hanno formato oggetto di giudizio presso un altro plesso, al fine di trarne elementi che portino all'accertamento del pregiudizio pubblico, così come può, ai medesimi fini, valutare la vicenda processuale nel suo complesso sviluppatasi in altra sede e dalla quale potrebbero emergere circostanze utili ai fini decisori.

In ordine agli ultimi tre motivi di appello, concernenti sia l'elemento soggettivo che quello oggettivo dell'azione, è stato rimarcato che il processo erariale mutua le proprie valutazioni probatorie su canoni probabilistici, alla stregua del processo civile. In applicazione di tali principi, per la Procura, nella sentenza impugnata sarebbero state accuratamente selezionate le varie condotte alle quali è stato ricollegato eziologicamente il danno. Sul piano soggettivo, a fronte di comportamenti caratterizzati da piena consapevolezza e volontà, non potrebbe che ritenersi sussistente il dolo in capo alla Casa di cura. L'adesione psichica dell'agente alla condotta contra ius ed alle conseguenze lesive per l'ente sarebbe stata correttamente desunta dall'esistenza del tetto di spesa nel contratto, dal fatto che la obiezione di non debenza dei pagamenti della ASP fosse conosciuta dalla convenuta, e infine, dal frangente che la società avesse dichiarato in sede di cessione che le somme erano dovute, che nessuna eccezione potesse essere opposta dal debitore e che quest'ultimo non avesse elevato contestazioni sull'esigibilità dei crediti.

In definitiva, è stato chiesto il rigetto dell'appello, con condanna alle spese.

All'udienza del 12 luglio 2024, per l'appellante è stato ribadito che il presunto danno si sarebbe concretizzato allorché il Tribunale di Cosenza ha emesso la propria ordinanza di assegnazione delle somme al cessionario, sottolineando pertanto come non potrebbe sussistere una responsabilità erariale, poiché il fatto si sarebbe determinato a seguito delle statuizioni del giudice. È stato, inoltre, rilevato che gli addebiti dovrebbero essere ascritti alla stessa Azienda sanitaria che non avrebbe posto in essere alcuna attività per impugnare il predetto provvedimento. Ha, infine, posto l'accento sull'assenza di dolo e di comportamenti antigiuridici, in quanto la Casa di cura avrebbe solo ceduto i crediti.

Il Pubblico ministero si è opposto alle tesi difensive, insistendo per il rigetto dell'appello e la condanna alle spese.

La causa è stata trattenuta in decisione.

MOTIVI DELLA DECISIONE

La vicenda oggetto della sentenza, di cui si chiede il riesame, attiene alla liquidazione di somme a titolo di corrispettivi non spettanti, determinata dalla condotta antigiuridica ascritta alla Casa di cura in epigrafe.

Nel procedere alla delibazione della causa secondo i criteri sanciti dall'art. 101 c.g.c., che delinea il percorso decisionale del giudice, prevedendo che siano affrontate con priorità le questioni pregiudiziali sollevate dalle parti o rilevabili d'ufficio, prima di passare al merito, si pone all'attenzione del Collegio l'eccezione di carenza di legittimazione passiva della convenuta, come qualificata dalla stessa parte anche in sede dibattimentale in prime cure.

Nel gravame è stata, infatti, riproposta la tematica, ampiamente vagliata nella decisione censurata, dell'insussistenza di un rapporto di servizio tra la struttura accreditata e il Servizio sanitario regionale, per assenza in capo alla medesima di poteri autoritativi, nonché di patrocinio degli interessi pubblici, giacché incaricata di eseguire prestazioni retribuite a favore dell'utenza, sulla base di un vincolo contrattuale di stampo privatistico, sulla cui remunerazione verterebbe pertanto la controversia, di carattere solo civilistico.

Il motivo di impugnazione non può essere accolto, per i diversi profili di seguito analizzati. Il Collegio reputa che non sia meritevole di adesione la prospettazione dell'appellante, alla stregua di quanto esaustivamente argomentato nella pronuncia avversata, che rifacendosi alla giurisprudenza consolidata anche di questa Sezione è giunta alla conclusione che, nel caso di specie, sussista una relazione funzionale tra la società e l'ente regionale, nel cui apparato la prima, in forza dell'accreditamento ex art. 8-quater del d.lgs. 502 del 1992, risulta inserita, per la realizzazione delle esigenze pubblicistiche, per cui ha acquisito uno specifico obbligo, in forza di formale investitura: su tale collegamento strumentale, dal quale discende per il privato il ruolo di agente dell'amministrazione, si fonda il radicamento della giurisdizione contabile, nell'evenienza in cui il soggetto con la propria attività contra legem, e dunque in violazione dei doveri derivanti dal convenzionamento con la Regione, abbia prodotto un danno all'erario, senza che abbia rilievo la natura provvedimentale o negoziale o, anche solo, di mero fatto della fonte da cui è originato il rapporto medesimo.

Come è stato già osservato in alcuni precedenti di questa Corte, aventi a oggetto casi simili a quello in trattazione, con i quali occorre porsi in continuità, le strutture accreditate contribuiscono con le proprie funzioni di pertinenza pubblica all'attuazione delle finalità di assistenza sanitaria (artt. 43 della l. n. 833/1978 e 8 del d.lgs. n. 502/1992) e, d'altro canto, l'inerenza all'interesse della collettività giustifica sia l'esborso di danaro, sotto forma di assunzione a carico del bilancio regionale delle prestazioni assicurate, attraverso il sistema della remunerazione tariffaria, sia l'esistenza di regole tecniche e operative che definiscono i limiti entro i quali l'attività resa può essere validata (in questo senso, Sez. II app., sent. n. 290 del 2016).

Risolutivo ai presenti fini è quanto affermato dalla stessa Corte di cassazione, che proprio con riferimento alla sussistenza di un rapporto di servizio in capo all'organismo privato, ha ritenuto che ricorra la competenza del giudice contabile per i fatti dannosi frutto di una mala gestio del vincolo concessorio intercorrente con l'ente pubblico che, in ragione del riconoscimento della qualità di soggetto accreditato, ha determinato l'inserimento del medesimo, in modo continuativo e sistematico, nell'organizzazione dell'Amministrazione (Cass., sent. n. 473 del 2015).

Tale ultimo aspetto, concernente gli effetti traslativi di funzioni e di vincoli pubblicistici, attraverso il meccanismo dell'accreditamento, soprattutto per quanto concerne l'osservanza della programmazione della spesa sanitaria e degli obiettivi del suo contenimento, tra cui indubbiamente rientra la non remunerabilità di servizi extra-budget non verificati, è stato ricostruito in modo rigoroso e completo dalla Sezione territoriale, in guisa che ad avviso del Collegio non sono ravvisabili i vizi di motivazione sollevati dall'appellante.

In particolare, meritano conferma le argomentazioni spese per supportare gli esiti raggiunti nella sentenza gravata, ovvero che:

- il dovere di rispettare le convenzioni (in specie la quantità e qualità delle prestazioni stabilite e il connesso limite di spesa) non ha una mera valenza civilistica, ma assume rilievo ai fini della tenuta complessiva del sistema e della concreta attuazione del diritto alla salute, a prescindere dalla circostanza che la spettanza di compensi per attività erogate oltre la soglia fissata possa dare luogo a controversie in sede giudiziaria civile o amministrativa;

- costituisce violazione di un obbligo di servizio il superamento del cosiddetto tetto di spesa - oggetto di contestazione in questa sede - qualora non sia stato previamente autorizzato e se il corrispettivo per le attività rese sia stato ottenuto, come nel caso di specie, al di fuori delle ordinarie procedure (non consentendo all'amministrazione di verificarne la debenza e di inserire nella propria programmazione le maggiori pretese della struttura accreditata), specie con l'utilizzo doloso di strumenti che determinano un pagamento non programmato ed estemporaneo.

Sul punto, è stato da tempo chiarito dalla stessa Suprema Corte che, mentre nel sistema inaugurato dalla l. 23 dicembre 1978, n. 833, il principio di libera scelta della prestazione sanitaria da parte dell'assistito non era assoluto, l'idea di fondo del nuovo sistema ha posto l'esigenza di contemperare gli obiettivi di liberalizzazione con la necessità di blindare la spesa pubblica, trovando il suo punto di equilibrio nel disposto dell'art. 2, comma 7, d.P.R. 14 gennaio 1997, n. 37, a tenor del quale la qualità di soggetto accreditato non costituisce vincolo per le aziende e gli enti del servizio sanitario nazionale a corrispondere la remunerazione delle prestazioni erogate, al di fuori - ma anche oltre - degli appositi rapporti di cui al d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni e integrazioni, nell'ambito del livello di spesa annualmente definito (Cass., n. 473 del 2015).

In definitiva, l'inosservanza delle regole stabilite in regime di accreditamento, alla cui conformità i concessionari sono tenuti ex lege, comporta l'insorgere della responsabilità erariale dei soggetti (autori dell'illecito) ancorché formalmente estranei all'amministrazione danneggiata (Sez. un., n. 16336/2019; Sez. I app., n. 290 del 2016; Sez. II app., n. 123 del 2021).

Tanto precisato in ordine al profilo della sussistenza della piena potestas judicandi di questa Corte nei confronti della convenuta e della relativa legittimazione processuale nell'odierno giudizio, ogni altro aspetto inerente alla dedotta violazione del rapporto di servizio da parte della struttura, attraverso l'utilizzo distorsivo e improprio dello strumento negoziale della cessione di crediti a terzi, allo scopo di conseguire pagamenti non spettanti, attiene al merito della vicenda.

In altri termini, acclarato che detto comportamento tenuto dalla Casa di cura sia riferibile all'esercizio delle funzioni per le quali possa dirsi compartecipe delle attività del SSN e delle sue finalità, lo stesso deve essere oggetto di disamina per quanto attiene agli elementi oggettivi (ovvero evento dannoso e nesso causale) e soggettivi (dolo o colpa grave) che compongono la fattispecie e che sono stati oggetto di odierna censura.

Il punto centrale del gravame è, infatti, costituito dalla addotta assenza di un aggravio ingiustificato per le casse pubbliche, poiché, per un verso, non sarebbe esclusa in astratto la remunerabilità delle prestazioni extra-budget, al ricorrere di determinate condizioni; per altro verso, nell'ipotesi in esame, si tratterebbe di somme riferite a servizi erogati all'utenza, per gli anni 2002 e 2007, riconosciute come dovute dal Tribunale di Cosenza, al quale spettava in via esclusiva la relativa decisione.

Per la prima delle annualità richiamate, secondo l'appellante, il credito originerebbe dall'annullamento, a seguito delle pronunce emesse dal T.A.R. Calabria e dal Consiglio di Stato, su iniziativa di alcuni operatori sanitari, della delibera G.r. n. 457 del 28 maggio 2002, con la quale era stato disposto un abbattimento tariffario del 10%, la cui caducazione non potrebbe che avere portata generale. Per il 2007, invece, ricorrerebbe un diritto delle strutture private a ottenere il pagamento delle attività extra, subordinatamente all'avverarsi della condizione (futura e incerta) che il tetto di spesa globale assegnato alla Regione non si fosse esaurito. Per tale ultimo aspetto, per il principio di vicinanza della prova, competerebbe tuttavia all'ente pubblico l'allegazione dell'eventuale incapienza di stanziamenti nel patrimonio collettivo, dovendo la società limitarsi a dimostrare di avere effettuato prestazioni.

Per entrambe le prospettazioni, la sentenza di primo grado, ampia e articolata, appare esente dagli errori di giudizio contestati, essendo stati scandagliati i presupposti normativi affinché l'astratta compensabilità dei servizi aggiuntivi somministrati all'utenza dall'organismo accreditato potesse divenire concreta, escludendosi comunque che il contraente privato potesse pretendere il corrispettivo per avere svolto erogazioni ulteriori rispetto a quelle stabilite - e dunque oltre i tetti di spesa programmati - in assenza dell'assenso preventivo o comunque della loro validazione da parte dell'azienda titolare della funzione.

In proposito, non può non rilevarsi, anche da parte di questo Collegio, come risponda a un principio fondamentale dell'ordinamento contabile che l'utilizzo di risorse pubbliche debba essere attuato nel rispetto delle prescritte procedure di spesa, essendo precluso in generale - a fortiori se si tratta di un soggetto esterno convenzionato per l'espletamento di servizi a titolo oneroso - qualsiasi diritto a un più elevato compenso, laddove il contraente, di propria iniziativa e ignorando i limiti imposti dall'amministrazione, abbia reso prestazioni supplementari rispetto a quelle programmate e autorizzate.

D'altronde, merita piena adesione pure la considerazione espressa nella decisione avversata, secondo la quale dalle attività extra-budget non avrebbe potuto derivare un diritto all'indennizzo per l'illegittimo arricchimento da parte dell'ente pubblico, ai sensi dell'art. 2041 c.c. (in tal senso ha concluso il Tribunale ordinario di Cosenza in un caso analogo, con sentenza del 10 febbraio 2021, depositata agli atti), anche perché, in disparte l'affermazione che la giurisprudenza civile è pacifica nell'affermare che la comunicazione del tetto di spesa alla singola struttura (contenuta nella convenzione) costituisca rifiuto implicito di prestazioni ulteriori, vi erano stati chiari dinieghi da parte dell'Azienda sanitaria al riconoscimento dei servizi aggiuntivi, sia nei confronti della stessa struttura accreditata, con riferimento alla fattura n. 5 del 2014, con nota prot. 69154 del 27 marzo 2014, sia nei confronti anche della società cessionaria del credito (SPV Project 1505 s.r.l.), con riguardo alla mancata accettazione della cessione medesima, con nota prot. 146396 del 26 agosto 2014.

Seppure in termini parzialmente differenti, analogamente deve concludersi per la posizione creditoria legata alle prestazioni del 2002, «non spettante a titolo contrattuale in quanto non fondat(a) su una convenzione e contestat(a) dalla ASP», come risulta dalla documentazione del fascicolo civile; anche in questo caso, deve ribadirsi l'esito rassegnato in primo grado, atteso che alla caducazione della deliberazione della G.r. n. 457 del 2002 (che prevedeva una decurtazione tariffaria retroattiva), per effetto della sentenza del Consiglio di Stato n. 3521 del 2014, non potrebbe riconoscersi una valenza erga omnes, non risultando agli atti che la struttura avesse preso parte al giudizio amministrativo. Conseguentemente, in mancanza di un intervento risolutivo della Regione, cui pure la pronuncia sopra citata faceva riferimento, la pretesa avanzata a tale titolo non poteva dirsi né liquida, né esigibile, tanto che la non debenza della somma era stata opposta alla stessa società cessionaria. A ciò deve aggiungersi, sul piano meramente pratico, che l'importo oggetto di assegnazione in sede esecutiva si riferisce a entrambe le fatture, senza che sia stato specificato se e in quale frazione attenga alle richieste per il 2002, il cui ammontare, pari a euro 696.700,53, appare di gran lunga inferiore rispetto a quello relativo al 2007, pari a euro 3.078.880,00, capace di assorbire ampiamente l'intera somma risultata dal riparto giudiziale.

Ciò precisato, in linea più generale, non può che essere confermato quanto statuito dal giudice territoriale, secondo il quale, alla luce dell'assetto normativo vigente [art. 8-quinquies, commi 1 e 2, lett. d), del d.lgs. n. 502/1992], per la remunerazione delle prestazioni eccedenti, è sempre necessario che la Regione abbia stabilito se finanziarle o meno, deliberando i relativi criteri, e che tale evenienza - entro il livello di spesa massimo fissato - sia altresì contemplato in convenzione. È inoltre imprescindibile, nel caso di richieste di pagamenti addizionali, che l'amministrazione riscontri se i servizi ulteriori siano stati effettivamente forniti, affinché la loro compensazione sia conforme alla legge.

Nel caso in trattazione, come già rilevato in prime cure, non ricorrono i presupposti sopra delineati, in quanto, da un lato, difetta la certezza che vi fossero fondi disponibili per la liquidazione delle prestazioni aggiuntive vantata dalla società (è stato evidenziato come nel 2007 le strutture accreditate presso l'ASP avessero impegnato quasi il triplo dell'ipotetico accantonamento del 10% previsto per le attività extra-budget), dall'altro, non risulta che l'ente regionale avesse svolto un controllo sui servizi concretamente resi, ai fini del loro pagamento, tenuto anche conto della previsione nella stessa convenzione del meccanismo di regressione tariffaria, teso a consentire il rientro progressivo del superamento del limite di spesa, attraverso la riduzione dei compensi determinati dall'aumento delle attività.

Infatti, l'Amministrazione competente non aveva concluso le operazioni di accertamento delle erogazioni oggetto della pretesa e aveva, oltretutto, come sopra riportato, contestato sia alla struttura contraente sia alla cessionaria la sussistenza di crediti, ovvero la loro liquidità ed esigibilità.

Tanto si coglie agevolmente dagli esiti rassegnati a seguito delle indagini esperite dalla Guardia di Finanza, nel cui documentato rapporto informativo sono descritte analiticamente le diverse anomalie che hanno contrassegnato la complessiva operazione di cessione, tra cui si evidenziano, in particolare, per la loro valenza rivelatrice della illegittimità delle condotte addebitate, la mancanza di corrispondenza tra l'indicazione del credito nell'allegato A dell'accordo, in cui si fa riferimento - con riguardo alla tipologia - a prestazioni in-budget, e quanto riportato nella fattura n. 5 del 17 marzo 2014, in cui compare la causale prestazioni extra-budget per il 2007, nonché a fronte della dicitura di cui all'allegato B dell'atto medesimo, in cui si menzionano genericamente "differenze di budget dovute per l'anno 2007". Sono state, inoltre, poste in rilievo le dichiarazioni di regolarità espresse dalla Casa di cura cedente, quanto alla immediata riscuotibilità dei crediti medesimi, sebbene l'Azienda ne avesse espressamente negato la sussistenza e, soprattutto, per quanto attiene all'osservanza del limite di spesa fissato, il quale era stato invece incontestabilmente superato.

Nonostante le obiettive carenze evidenziate e ben note alla Casa di cura, quest'ultima aveva proseguito nella predetta contrattazione, consentendo così al cessionario di intervenire nella sede giudiziale già pendente dinanzi al Giudice dell'esecuzione, poiché attivata da altri soggetti. In proposito, era stato riscontrato, da parte dei militari delegati delle indagini, che l'Azienda non avesse avuto contezza dell'iniziativa processuale intrapresa dalla SPV Project 1505 in seno alla procedura, per la quale non erano altresì risultate individuabili, alla luce della documentazione acquisita, le modalità di verifica dei presupposti, ex art. 499, commi 2 e 3, c.p.c., ai fini dell'assegnazione delle somme.

Sotto tale profilo, infatti, non appare fondato quanto obiettato dall'appellante in ordine al contegno inerte dell'Amministrazione nel difendere i propri interessi in giudizio, circostanza che non potrebbe gravare sul creditore che avrebbe legittimamente agito tramite gli strumenti processuali messi a disposizione dall'ordinamento.

Invero, dalla disamina degli atti non risulta che il legale dell'ASP avesse ricevuto la notifica dell'intervento ex art. 499 c.p.c., per altro dichiarato tardivo dal giudice, e che nelle udienze precedenti all'assegnazione, nei cui verbali non compare la SPV Project 1505, bensì la Opera SVP, sebbene per il medesimo importo, avesse eccepito l'esistenza dei crediti degli interventi attuati senza titolo, come da verbale d'udienza dell'11 gennaio 2016, opponendo altresì alcuni pagamenti e chiedendo la nomina di un CTU.

Per l'appellante, tuttavia, «qualsiasi eventuale e denegata "anomalia" riveniente dalla procedura... - comunque non rinvenuta dal Giudice dell'Esecuzione - lungi dal costituire condotta dolosa o gravemente colposa del cessionario, avrebbe potuto costituire, al più, un error in iudicando del Tribunale di Cosenza», da far valere in sede giudiziaria, proponendo opposizione all'esecuzione o agli atti esecutivi ex artt. 615-617 c.p.c. Tanto sarebbe stato riconosciuto anche dal giudice di primo grado.

Sul punto, ad avviso di questo Collegio, quanto affermato nella sentenza in esame è pienamente idoneo a superare la predetta doglianza, prospettata dalla convenuta anche nella pregressa fase di giudizio, poiché l'omessa impugnazione avverso l'ordinanza di assegnazione di somme del giudice dell'esecuzione non determina alcun effetto sul piano dell'accertamento sostanziale del credito (rimanendo impregiudicati e controvertibili i rapporti tra debitore esecutato e creditore esecutante), non trattandosi di un provvedimento suscettibile di acquisire autorità di cosa giudicata, giacché non risolve una controversia nei modi della cognizione (Cass., n. 11404 del 2009; anche n. 11493 del 2015).

Altro è che dallo stesso sia derivato, a causa del comportamento ascritto alla società cedente, come sopra ricostruito, un pregiudizio economico a carico delle finanze regionali, illegittimamente depauperate di somme non dovute ed espressamente contestate, per le quali, solo in virtù dell'operazione negoziale, posta in essere in contrasto con quanto previsto negli atti di convenzionamento con l'Amministrazione e con quanto dalla stessa prontamente obiettato, in particolare sulla non remunerabilità delle prestazioni extra-budget prive di validazione, è stato possibile ottenere, pur in assenza di una previa verifica sulla reale debenza (per cui pende un giudizio civile tra l'ASP e la SPV Project).

Tanto precisato, può solo aggiungersi, ai presenti fini, che sul piano della concatenazione causale, la mancata opposizione all'esecuzione da parte dell'Azienda sanitaria non si pone come un fattore sopravvenuto in grado di elidere il nesso teleologico tra l'illegittima condotta della struttura accreditata, attuata in violazione del rapporto di servizio, e il fatto pregiudizievole, reso possibile dalla rifiutata cessione del credito, di cui l'assegnazione delle somme al soggetto terzo, nell'ambito della procedura esecutiva già pendente, ha costituito uno sviluppo tutt'altro che improbabile e imprevedibile (come sostenuto nel gravame).

Per giungere alla predetta conclusione appare, infatti, decisivo quanto sancito dall'art. 41 del c.p., volto a regolare, nell'ambito della sfera penale, il rapporto di causalità tra comportamento ed evento, in caso di concorso di cause, ritenuto pacificamente applicabile ai giudizi erariali.

In particolare, il comma 2 della citata disposizione, nel limitare il principio di equivalenza causale, espresso nel comma 1, prevede che le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l'evento. Secondo il prevalente orientamento della giurisprudenza penale tale formulazione si riferisce tuttavia a concause qualificate, capaci di assumere su di sé l'intera valenza dell'imputazione eziologica (Cass. pen., n. 36920 del 2014).

È evidente che tale connotazione non sia rinvenibile nella addotta assenza di reazione da parte dell'Azienda rispetto al provvedimento assunto nell'ambito del pignoramento mobiliare in corso che, all'evidenza, non è tale da integrare una causa sopravvenuta di per sé sola sufficiente a generare il danno. Rispetto alla progressiva concretizzazione della fattispecie lesiva, i cui prodromi necessari e determinanti devono essere fatti risalire al negozio di cessione, l'ordinanza di assegnazione del giudice dell'esecuzione si limita a rendere attuale la perdita patrimoniale correlata.

Una volta verificatosi il pregiudizio, le successive iniziative della pubblica amministrazione, tra cui quelle previste dall'art. 52, comma 6, c.g.c., per evitarne l'aggravamento, non hanno alcuna incidenza sulla sua determinazione. Infatti, il venire meno del danno a seguito di rifusione da parte del danneggiante convenuto, ovvero attraverso la retrocessione delle somme da parte del terzo cessionario, al quale sono pervenute in sede esecutiva (come detto, pende contenzioso civile, intentato dalla SPV Project 1505 s.r.l. nei confronti dell'ASP, per inadempimento contrattuale o arricchimento senza causa) dà luogo a una questione esterna al fatto generatore di responsabilità a carico della Casa di cura, che potrebbe al più trovare regolazione in sede di esecuzione della sentenza di condanna, secondo le ordinarie regole. Infatti, è scontato che a fronte di eventuali futuri recuperi potranno essere adottate dall'ente tutte le misure necessarie affinché non si realizzi l'acquisizione a suo favore di una duplice somma a soddisfacimento dello stesso debito.

Sempre sul versante eziologico, rimane da affrontare il differente profilo sollevato nel gravame e riguardante l'assenza di un collegamento efficiente o dell'id quod plerumque accidit tra la cessione del credito e il conseguimento delle somme all'esito della fase esecutiva. Non potrebbe, secondo l'appellante, ritenersi normale, né probabile, che al contratto predetto segua la produzione di un nocumento erariale per la P.A., proprio perché si interporrebbe una verifica giudiziale della sussistenza del credito.

Tale assunto non può essere condiviso. Anche in questo caso soccorre l'art. 41 del c.p., sopra richiamato, che, al comma 1, dispone che il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute non elimina il rapporto di causalità tra l'azione o l'omissione e l'evento, anche se indipendenti.

Dall'applicazione di tale regola generale discende che la Casa di cura con la propria condotta, che si è sostanziata nel trasferimento di crediti incedibili, contravvenendo alla convenzione in essere con l'Azienda sanitaria e disinteressandosi del diniego motivato espresso dalla medesima, ha posto in essere un antecedente causale indispensabile e assorbente perché il terzo cessionario potesse inserirsi, ai sensi dell'art. 499 c.p.c., nella procedura di esecuzione instaurata da altro creditore. A prescindere dalla sussistenza o meno di anomalie in tale sede, che esulano dall'ambito di questo giudizio, non può non osservarsi che si tratta di uno strumento processuale che può essere attivato anche dal creditore non munito di titolo esecutivo, come nel caso di specie, e che, nell'ambito degli incombenti processuali fissati - in tale ipotesi - per il prosieguo dell'iniziativa giudiziale, non risulta che il debitore abbia riconosciuto il credito, ai fini e per gli effetti di cui al comma 5 del medesimo art. 499 c.p.c.

Non può che ribadirsi, anche sotto tale aspetto, che l'ordinanza di assegnazione, pur essendo resa all'esito di un processo, non contiene alcun accertamento sostanziale della pretesa, in quanto è assunta dal giudice sulla base di una delibazione sommaria di fondatezza, funzionale esclusivamente all'emissione dell'effetto pratico che la tipica fase esecutiva, per la sua stessa conformazione, è volta a conseguire.

Da ciò discende che, in disparte la sussistenza di condizioni per l'opposizione al provvedimento di assegnazione medesimo, la riscossione anche coattiva del credito non poteva che costituire l'ordinario sviluppo di un'operazione negoziale, quale quella di cessione di crediti, tramite cartolarizzazione, attivata dalla struttura accreditata, essendo la realizzazione di poste attive la finalità propria dello strumento di "smobilizzazione", attuato attraverso la società SPV.

Per quanto sin qui rappresentato, il Collegio ritiene, quindi, che la condotta della convenuta abbia con efficienza causale autonoma e adeguata determinato il prodursi dei presupposti per il prodursi del danno subito dall'Azienda sanitaria, rimanendo il provvedimento emesso in sede di esecuzione, sulla base del quale sono state liquidate le somme, un effetto prevedibile, e anzi atteso, dell'accordo di cessione.

Accertato tale requisito, rimane ora da delibare il piano soggettivo del comportamento posto in essere dalla Casa di cura, che si reputa connotato da piena consapevolezza, quanto all'insussistenza e all'indisponibilità di crediti oggetto di negoziazione.

Con riferimento all'elemento psicologico, e ritenuto ogni altro motivo assorbito, non si rinvengono nelle doglianze espresse nell'atto di impugnazione elementi idonei a mettere in discussione le ragioni poste a base della pronuncia di cui si chiede la revisione. Le argomentazioni svolte ripropongono quanto evidenziato nella precedente fase di giudizio, senza che emerga in quale vizio sarebbe incorso il giudice territoriale, il cui percorso logico espositivo appare non censurabile.

Sul punto, può pertanto aderirsi a quanto argomentato dalla stessa Procura generale, la quale ha in sintesi evidenziato gli aspetti salienti idonei a configurare il dolo - o secondo il giudice di primo grado quantomeno la colpa con previsione - nell'agire dell'appellante, per avere coscientemente ceduto crediti derivanti da prestazioni non autorizzate e in violazione dei limiti di spesa fissati nel contratto o comunque non liquidi e non esigibili, trascurato la contestazione della ASP di non spettanza delle somme, e infine, dichiarato in sede di cessione che le somme erano dovute, che nessuna eccezione potesse essere opposta dal debitore e che quest'ultimo non avesse mosso obiezioni sull'esigibilità delle partite cedute, elementi questi non contraddetti dalle argomentazioni addotte ai fini dell'appello.

In conclusione, alla luce di quanto sinora esposto e assorbito ogni altro motivo di doglianza, il gravame proposto dalla Casa di cura Cascini deve essere rigettato, con integrale conferma della sentenza impugnata.

Le spese del presente grado di giudizio, ai sensi dell'art. 31, comma 5, c.g.c., seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte dei conti, Sezione prima giurisdizionale centrale d'appello, definitivamente pronunciando, rigetta l'appello iscritto al n. 60388 del registro di segreteria, proposto dalla Casa di cura Cascini s.r.l. e per l'effetto conferma integralmente la sentenza impugnata.

Le spese del presente grado di giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate in euro.

Manda alla Segreteria per gli adempimenti di competenza.