Corte di cassazione
Sezioni unite civili
Sentenza 18 maggio 2025, n. 13200
Presidente: D'Ascola - Estensore: Vincenti
FATTI DI CAUSA
1. D. Alessandro convenne in giudizio L. Domenico, quale giornalista redattore di un articolo, dal titolo "Truffa del superfinanziere", pubblicato il 24 giugno 2013 sull'edizione online del settimanale "L'Espresso", M. Bruno, in qualità di direttore responsabile del settimanale, e l'editore del settimanale, il Gruppo Editoriale L'Espresso s.p.a., lamentando che l'anzidetto articolo avesse leso il proprio diritto all'onore, alla reputazione e all'immagine.
A tal fine l'attore dedusse di esser stato individuato, nello scritto giornalistico, come imputato per truffa, mentre all'epoca egli era solo indagato, non essendo ancora stato raggiunto dalla richiesta di rinvio giudizio, peraltro in relazione al diverso reato di tentata truffa; gli veniva, infatti, attribuito l'incameramento di una somma consistente di denaro erogata da un terzo soggetto, vittima della condotta riferita, del quale era stata asseritamente carpita la fiducia (con la complicità di un'altra persona), attraverso la prospettazione di un sicuro acquisto di una forte partecipazione in "Telecom Argentina", grazie alla loro attività di lobby, a discapito di altri offerenti.
1.1. L'adito Tribunale di Roma respinse la domanda risarcitoria del D. Alessandro con sentenza del maggio 2016, reputando che l'articolo non fosse diffamatorio, poiché gli errori in esso contenuti non avevano scalfito l'aderenza al vero della ricostruzione complessiva dei fatti, sussistendo la sostanziale corrispondenza dello scritto alla realtà, atteso il significativo coinvolgimento del D. Alessandro nell'attività truffaldina ai danni di un uomo d'affari sudamericano.
2. L'impugnazione proposta da D. Alessandro avverso detta decisione veniva accolta dalla Corte di appello di Roma con sentenza resa pubblica il 17 ottobre 2022, conseguendone la condanna solidale dei convenuti al risarcimento del danno non patrimoniale in favore dell'attore, liquidato nell'importo di euro 25.000,00, oltre interessi legali; il L. Domenico veniva, altresì, condannato al pagamento, in favore del medesimo D. Alessandro, della somma di euro 5.000,00 ai sensi dell'art. 12 della l. n. 47 del 1948; era, infine, disposta la pubblicazione per estratto della sentenza per due settimane consecutive nell'edizione online del periodico "L'Espresso".
2.1. A fondamento della decisione, la Corte territoriale reputava falso l'addebito nei confronti del D. Alessandro - ossia, essere imputato per aver effettivamente intascato a seguito di attività truffaldina cinque milioni di dollari - e tale falsità non poteva ritenersi «sfumata e assorbita dall'essere effettivamente l'appellante indagato per un altro episodio meramente tentato; ciò alla luce del prestigioso incarico ricoperto dal D. Alessandro (amministratore della banca d'affari Rothschild Italia, tanto da essere stato definito nel titolo un "superfinanziere") e dalla conseguente intuibile pregnanza in termini di attacco alla carriera e alla solidità della posizione ricoperta».
In punto di liquidazione del danno non patrimoniale, il giudice di appello, ritenendo "congruo utilizzare le tabelle emanate dal Tribunale di Milano in materia", determinava, quindi, l'entità del risarcimento nell'importo di euro 25.000,00, in considerazione della "diffusione nazionale del settimanale", della "gravità dei fatti al diffamato", della "esistenza comunque di un'indagine a suo carico per tentata truffa" e della "notorietà del D. Alessandro che, seppur rilevante nel settore della finanza e bancario, non è di portata generale nell'ambito nazionale".
La Corte territoriale reputava, infine, che sussistessero i presupposti per la condanna del giornalista al pagamento di una sanzione pecuniaria (nella misura di euro 5.000,00) ai sensi dell'art. 12 della l. n. 47 del 1948.
3. Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto ricorso L. Domenico, M. Bruno e GEDI Gruppo Editoriale s.p.a., affidando le sorti dell'impugnazione a quattro motivi, illustrati da memoria.
Ha resistito con controricorso, illustrato da memoria, D. Alessandro.
4. Con ordinanza interlocutoria n. 12239 del 6 maggio 2024, la Prima Sezione civile ha disposto la trasmissione degli atti alla Prima Presidente, ai sensi dell'art. 374 c.p.c., ritenendo che con il primo motivo di ricorso sia stata posta una questione, al contempo, di massima di particolare importanza e oggetto di contrasto (tra la giurisprudenza civile e quella penale di questa Corte) in ordine alla ricorrenza, in ipotesi di diffamazione a mezzo stampa, della scriminante dell'esercizio del diritto di cronaca, in ragione dell'addebito, diretto o indiretto, della qualità di imputato, piuttosto che quella di indagato, e della commissione di un reato consumato piuttosto che di un reato tentato.
La Prima Presidente ha rimesso la decisione del ricorso a queste Sezioni unite.
5. In prossimità dell'udienza pubblica fissata per la discussione della causa, hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c. sia il pubblico ministero, che entrambe le parti private; con la propria memoria il pubblico ministero ha chiesto il rigetto del primo motivo di ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo mezzo è denunciata, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., violazione e/o falsa applicazione degli artt. 21 Cost., 2043 c.c., 51 e 595 c.p. e 11 della l. 8 febbraio 1948, n. 47, "con riferimento ai principi elaborati dalla giurisprudenza in tema di diffamazione a mezzo stampa".
I ricorrenti, con due distinti profili di censura, si dolgono che sia stata negata l'esimente del diritto di cronaca.
Anzitutto, si deduce che, nell'articolo del settimanale "L'Espresso", il D. Alessandro non viene mai indicato come "imputato", o come "rinviato a giudizio", anziché di "indagato", come era all'epoca dei fatti, mentre viene "evidenziato il rischio (probabile)" di un rinvio a giudizio e ciò proprio in ragione dell'emissione, prima della pubblicazione dello scritto giornalistico, dell'avviso ex art. 415-bis c.p.p. da parte della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma, quale elemento sintomatico della probabile intenzione del pubblico ministero di esercitare l'azione penale.
Ne consegue, ad avviso dei ricorrenti, che la Corte territoriale avrebbe erroneamente negato la sostanziale equivalenza tra una richiesta di rinvio a giudizio e la notificazione dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari, di cui all'art. 415-bis c.p.p., mancando di considerare che il pubblico ministero, con detto avviso, ritenendo "di non dover formulare richiesta di archiviazione", esprime l'intenzione di "esercitare l'azione penale", essendo "assai probabile che al primo segua il secondo, come d'altronde verificatosi nel nostro caso".
Con il secondo profilo di censura, si assume che il giudice di appello sia incorso in una falsa applicazione dei principi giurisprudenziali relativi alla "marginalità dell'errore", ritenendo erroneamente che, nel caso di specie, l'attribuzione di un reato consumato (quello di truffa), anziché nella forma tentata, rappresenti non già un'inesattezza irrilevante, ma un "addebito falso", in grado di alterare la verità sostanziale dei fatti oggetto della notizia, nonché di aggravarne la valenza diffamatoria.
I ricorrenti sostengono, infatti, che il D. Alessandro era, in ogni caso, "seriamente coinvolto nella truffa" in danno dell'imprenditore intenzionato all'acquisto di una partecipazione in "Telecom Argentina", non essendosi consumato il reato in danno di quest'ultimo "solo perché egli non ha effettuato il pagamento e non perché vi fosse stato un ripensamento o un cambiamento nella condotta".
2. Con il secondo mezzo è dedotta, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1223, 2043 e 2059 c.c., per aver la Corte territoriale "ritenuto provata la sussistenza del danno non patrimoniale in via presuntiva in carenza di ogni allegazione avversaria, senza avere svolto una preventiva valutazione circa la sussistenza di un nesso di causalità effettivamente immediato e diretto tra il danno non patrimoniale lamentato e l'articolo contestato".
3. Con il terzo mezzo è prospettata, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., violazione e/o falsa applicazione dell'art. 12 della l. n. 47/1948, per aver la Corte territoriale erroneamente condannato il giornalista L. Domenico al pagamento della sanzione pecuniaria pur essendo "pienamente corretto" l'articolo pubblicato e, in ogni caso, non essendovi "traccia alcuna dell'integrazione del dolo necessario affinché possa essere irrogata" detta sanzione.
4. Con il quarto mezzo è denunciata, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., violazione e/o falsa applicazione dell'art. 120 c.p.c., per aver il giudice di appello erroneamente disposto la richiesta pubblicazione della sentenza sul settimanale "L'Espresso", quale statuizione da doversi caducare in conseguenza dell'accoglimento delle censure proposte con i motivi che precedono.
5. L'intervento di queste Sezioni unite è stato sollecitato dalla Prima Sezione civile che ha colto, nella linea difensiva articolata con il primo motivo di ricorso, l'emergere di una questione di massima di particolare importanza ["per il rilievo mediatico e le ricadute pratiche sull'esercizio del diritto (di e) all'informazione"], la quale, al tempo stesso, paleserebbe l'esistenza di un "contrasto interpretativo tra plessi giurisdizionali (quello penale e quello civile)" in tema di diffamazione a mezzo stampa e, in particolare, sul "rilievo che assume, al fine della ricorrenza della diffamazione o della scriminante dell'esercizio del diritto di cronaca, la circostanza che, al soggetto che si assume leso dall'articolo di stampa, sia stata attribuita, direttamente o indirettamente - mediante il richiamo ad atti giudiziari tipizzati o a norme codicistiche - la qualità di imputato, piuttosto che quella di indagato, e la commissione di un reato consumato piuttosto che di un reato tentato".
5.1. L'ordinanza interlocutoria n. 12239/2024, nel tratteggiare le coordinate più generali della giurisprudenza di legittimità, sia civile che penale, sull'esercizio del diritto di cronaca giornalistica e, segnatamente, di quella giudiziaria, pone l'accento in particolare sul requisito della verità della notizia, soprattutto come "verità putativa del fatto", evidenziando in che termini la notizia "inesatta" manterrebbe una tale connotazione, ossia allorquando - richiamandosi a tal fine Cass. n. 11233/2017 e Cass. n. 7757/2020 - "la verità dei fatti oggetto della notizia non è scalfita da inesattezze secondarie che non alterino, nel contesto dell'articolo, la portata informativa dello stesso rispetto al soggetto al quale sono riferibili".
Nell'esaminare, poi, il tema specificamente oggetto di rimessione ex art. 374 c.p.c., la Prima Sezione osserva che la giurisprudenza civile di questa Corte mostra di seguire un orientamento piuttosto coeso nell'affermare che integra diffamazione a mezzo stampa, per l'insussistenza dell'esimente del diritto di cronaca giudiziaria, l'attribuzione ad un soggetto nell'ambito di un articolo giornalistico della falsa posizione di imputato, anziché di indagato, allorché il giornalista riferisca di un'avvenuta richiesta di rinvio a giudizio, in luogo della reale circostanza della notificazione dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari di cui all'art. 415-bis c.p.p. (Cass. n. 12370/2018 e Cass. n. 11769/2022; in precedenza, analogamente, Cass. n. 22190/2009, Cass. n. 18264/2014 e Cass. n. 17197/2015).
Proprio sullo specifico tema che interessa in questa sede (e non tanto, quindi, sugli aspetti di sistema più generali) si colgono - secondo l'ordinanza interlocutoria n. 12239/2024 - "punti di divergenza significativi" rispetto a quanto affermato dalle Sezioni penali.
Viene, infatti, richiamato l'arresto di cui a Cass. pen. n. 15093/2020, secondo il quale si esclude, per l'appunto, che possa dar luogo a un'ipotesi di diffamazione a mezzo stampa "la divulgazione di una notizia d'agenzia riportante l'erronea affermazione che taluno sia stato raggiunto da richiesta di rinvio a giudizio anziché da avviso di conclusione delle indagini preliminari", ciò integrando "una mera inesattezza su un elemento secondario del fatto storico, che non intacca la verità della notizia principale, secondo cui il procedimento, nella prospettiva della pubblica accusa, è approdato ad una cristallizzazione delle risultanze d'indagine funzionale alla sua progressione".
Un precedente, questo, che - come annota la stessa ordinanza interlocutoria - "sembra porsi in contrasto con i principi espressi dalle decisioni civili n. 12370/2018 e n. 11769/2022" e, al tempo stesso, non collimare neppure con "il più rigoroso precedente di legittimità penale" (Cass. pen. n. 34544/2001) che ha ritenuto configurabile il reato di diffamazione a mezzo stampa "nel caso in cui un organo di stampa abbia diffuso la falsa notizia del coinvolgimento dell'indagato in un procedimento in quanto destinatario di una informazione di garanzia, laddove lo stesso era stata solo iscritto, nella qualità di indagato, nel registro delle notizia di reato". E ciò dando rilievo alla considerazione che il livello di sensibilizzazione dell'opinione pubblica sarebbe tale da averla ormai resa "avvezza a valutare il differente grado di coinvolgimento dell'indagato in un procedimento a seconda che egli sia soltanto iscritto nel registro delle notizie di reato o sia anche destinatario di una informazione di garanzia".
La Prima Sezione civile evidenzia, poi, che, anche in relazione al profilo della portata diffamatoria, o meno, da "riconoscere alla propalazione di una notizia riguardante un reato consumato, piuttosto che un reato tentato", si registrano posizioni non armoniche tra la giurisprudenza di legittimità civile e quella penale. Per quest'ultima "non è irrilevante per la reputazione di un soggetto l'attribuzione di un fatto illecito diverso da quello su cui effettivamente si indaga, tale essendo - alla luce degli elementi costitutivi - la fattispecie del reato tentato, rispetto a quella del reato consumato".
La giurisprudenza civile - chiosa la Sezione rimettente - è, invece, orientata a valutare le "imprecisioni", al fine dell'accertamento dell'offensività, in funzione «del loro peso sull'intero fatto narrato al fine di stabilire se siano idonee a renderlo "falso" e, oltre che tale, diffamatorio».
6. Occorre, dunque, esaminare il primo motivo di ricorso sul quale si incentra la questione di rilevanza nomofilattica alla quale queste Sezioni unite sono chiamate a dare risposta.
6.1. Giova, anzitutto, contestualizzare i complessi rapporti, in reciproca e costante tensione, tra libertà di manifestazione del pensiero e diritti della personalità che, in una visione sistemica dei valori-principi di cui si compone la Costituzione (Corte cost., sent. n.264 del 2012) e in considerazione della tendenziale equiordinazione dei diritti fondamentali della persona (Corte cost., sent. n. 85 del 2013), trovano dei delicati punti di equilibrio nei limiti, per quanto segnatamente interessa in questa sede, del diritto di cronaca.
La libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.) è, in un ordinamento democratico, un diritto fondamentale poiché rappresenta il canale attraverso il quale l'identità personale si esprime all'esterno attraverso la formulazione di idee o di giudizi.
Esso - che, in una dimensione sovranazionale, è contemplato dall'art. 10 CEDU, quale norma posta a tutela della libertà di espressione contro le ingerenze dei pubblici poteri - è destinatario di una tutela bidimensionale, che non si arresta all'esercizio in forma individuale, ma si estende anche alla sua manifestazione in forma collettiva, che a sua volta si interseca con il diritto all'informazione nella sua declinazione attiva - diritto di informare - e passiva - diritto ad essere informati.
In tale contesto, dunque, si è potuto affermare che la libertà di stampa, quale massima espressione dell'esercizio in forma collettiva della libertà di manifestazione del pensiero, rappresenta una "pietra angolare dell'ordine democratico" (Corte cost., sent. n. 84 del 1969 e sent. n. 150 del 2021).
La libertà di stampa assurge, quindi, a fattispecie "qualificata" di libertà di manifestazione del pensiero, idonea a giustificare una tutela circondata da particolari cautele, che trova espressione nel diritto di cronaca (oltre che di critica), configurandosi quale esimente che attribuisce un valore oggettivamente e universalmente lecito alla condotta di propalazione di notizie (o, per il diritto di critica, di valutazioni soggettive) in tutti i rami in cui l'ordinamento si articola.
Il diritto di cronaca, in particolare, si concretizza nella narrazione oggettiva di fatti realmente accaduti, diffusi attraverso i mezzi di informazione per rispondere a un interesse pubblico alla loro conoscenza. A differenza del diritto di critica, che si caratterizza per una componente valutativa e soggettiva, la cronaca si configura come una rappresentazione neutra e fedele della realtà, finalizzata a garantire ai cittadini un'informazione chiara e trasparente su eventi di rilievo sociale, politico o economico.
Tuttavia, l'esercizio del diritto di cronaca (come anche quello di critica) è portato ad interferire con i diritti, di pari rilevanza costituzionale, posti a presidio della dignità umana del singolo destinatario della narrazione (o del giudizio critico).
I diritti della personalità, come quelli alla reputazione, all'onore e all'immagine, corollari impliciti della dignità umana ed evolutivamente desumibili dalle clausole generali di cui agli artt. 2 e 3 Cost., costituiscono limiti che comprimono ab extrinseco lo spazio in cui può validamente esplicarsi la libertà di manifestazione del pensiero attraverso il diritto di cronaca (e di critica).
Ciò si fa evidente nei casi in cui la narrazione dei fatti (o l'espressione di un giudizio) assume una connotazione diffamatoria, ossia quando il contenuto dell'informazione leda la reputazione di una persona. La diffamazione, come è noto, è sanzionata nell'ambito del diritto penale mediante la fattispecie incriminatrice di cui all'art. 595 del c.p., mentre in ambito civile è fonte di responsabilità ai sensi degli artt. 2043 e 2059 c.c. allorquando generi un danno ingiusto alla vittima, sia esso di natura patrimoniale, quando incide su aspetti economici e professionali, sia non patrimoniale, quando compromette il valore sociale e personale della reputazione.
Di qui, l'esigenza, dunque, di individuare il perimetro entro il quale l'esercizio della libertà di stampa possa considerarsi legittimo, senza trasmodare nell'intollerabile lesione di diritti individuali antagonisti.
È questa la logica che esprime il c.d. "decalogo del giornalista", formulato da questa Corte [in] una ormai risalente sentenza n. 5259 del 1984 della Prima Sezione civile, che la giurisprudenza successiva ha, però, recepito come "diritto vivente", assumendo quella veste che, in ambito sovranazionale, ha dato corpo al principio del c.d. "giornalismo responsabile", sul presupposto che il ruolo fondamentale della stampa, come garanzia di effettività della democraticità di un ordinamento, non valga di per sé a deresponsabilizzare l'attività del giornalista, rendendola meritevole, per ciò solo, di una tutela incondizionata.
Secondo tale principio, tratto dal secondo comma dell'art. 10 CEDU, la tutela della libertà di espressione è, per il giornalista, condizionata, quindi, da un esercizio in buona fede, nonché all'accuratezza e all'affidabilità delle informazioni veicolate al pubblico (tra le altre: Corte EDU, Grand Chamber, 20 ottobre 2015, Petikainen c. Finlandia, § 90; Corte EDU, 24 gennaio 2017, Travaglio c. Italia, § 36; Corte EDU, 9 febbraio 2021, Sagdic c. Turchia, § 27; Corte EDU, Grand Chamber, 4 luglio 2023, Hurbain c. Belgio, § 181).
Quel "decalogo", dunque, ha tracciato il perimetro entro cui si esplica l'efficacia esimente del diritto di cronaca (e di critica), individuandone i limiti interni, al fine di filtrare le condotte suscettibili di essere attratte in quell'orbita: verità, anche putativa, pertinenza e continenza.
6.2. Interessa in questa sede soffermarsi sul requisito della verità.
Esso, in rapporto al diritto di cronaca in generale, viene individuato in un'accezione di compromesso, volta a mediare tra esigenze di flessibilità, a tutela dell'attività del giornalista, ed esigenze più rigoristiche, per la salvaguardia dei diritti della personalità con cui quella attività può interferire.
Sotto il primo profilo, la verità non è necessario che si declini in termini assoluti, ossia come necessaria corrispondenza tra la notizia narrata e il fatto accaduto nella realtà storica, essendo sufficiente, per integrare il requisito, che venga in rilievo una verità putativa.
Tuttavia, per ritenere legittima la propalazione di una notizia putativamente conforme al vero, non è sufficiente una mera verosimiglianza tra il narrato e l'accaduto. Si richiede, infatti, al giornalista la prova di una verosimiglianza qualificata, rapportata all'osservanza di uno standard comportamentale improntato alla diligenza e alla professionalità, in maniera tale da non deresponsabilizzarne l'attività.
Per tale ragione il canone della verità, imposto al fine di considerare la condotta propalatrice legittima, deve declinarsi con riferimento ad una verità frutto di una rappresentazione che appare verosimile all'esito di una prodromica indagine giornalistica, condotta con scrupolo e diligenza, nell'esame, nella verifica e nel controllo della consistenza della relativa fonte informativa, di guisa che l'errore non sia frutto di negligenza, imperizia o di colpa non scusabile.
Sicché, l'errore del giornalista nel controllo delle fonti informative può esimerlo da responsabilità solo se incolpevole.
Nell'assolvimento di questi oneri risiede, dunque, il contemperamento tra l'inesigibilità della verità assoluta della notizia e la garanzia di un'adeguata protezione dei beni individuali del soggetto che dalla stessa venga attinto, in coerenza con il principio del "giornalismo responsabile".
In siffatti termini si è consolidato il "diritto vivente" e cioè - come riconosciuto dalla stessa Corte costituzionale - nel "condiziona(re) l'operatività della causa di giustificazione del diritto di cronaca nella sua forma putativa (art. 59, quarto comma, c.p.) al requisito dell'assenza di colpa nel controllo delle fonti: ammettendo conseguentemente la responsabilità del giornalista per il delitto di diffamazione anche nell'ipotesi in cui egli abbia confidato, seppur per un errore evitabile, nella verità del fatto attribuito alla persona offesa" (Corte cost., sent. n. 150 del 2021; analogamente già Corte cost., ord. n. 132 del 2020).
6.2.1. Il diritto di cronaca, con particolare riferimento proprio al requisito della verità, assume, poi, una fisionomia peculiare quando il suo contenuto sia rappresentato dalla narrazione di vicende giudiziarie da veicolare alla collettività.
La particolare tipologia dell'informazione fa assumere all'attività consistente nella sua propalazione una vocazione culturale e sociale ancor più pregnante, condensando l'attenzione dei lettori su fatti di reato e sull'operato degli organi giudiziari.
In questo ambito, il rilievo pubblicistico dell'attività acquisisce particolare spessore in ragione del rapporto che essa viene ad instaurare rispetto ad un altro valore-principio costituzionale, riconosciuto e garantito dall'art. 101, comma secondo, Cost.
Tale norma esprime un principio funzionale a garantire un'amministrazione della giustizia trasparente, in base al quale l'esercizio dell'attività giurisdizionale trova nel "popolo", in nome del quale la giurisdizione viene esercitata, il proprio referente.
L'attività giornalistica in generale e il circuito dell'informazione in particolare assicurano una virtuosa circolarità democratica che si sviluppa attraverso il racconto dei fatti e la sensibilizzazione della collettività su tematiche che i fatti oggetto di narrazione attingono. Sicché, si stimola la formazione dell'opinione pubblica non solo sulla legge come emanata, ma anche su come essa viene applicata, consentendosi alla collettività una partecipazione attiva, informata e consapevole al complessivo processo democratico.
Tuttavia, anche nell'ambito della cronaca giudiziaria il ruolo fondamentale dell'attività giornalistica non vale di per sé a fondare una legittimazione incondizionata della propalazione di notizie e, anzi, il giudizio di bilanciamento si viene a comporre di un ulteriore valore-principio di rilevanza costituzionale: la presunzione di non colpevolezza ex art. 27 Cost.
La partecipazione di tale principio al giudizio di bilanciamento porta con sé necessarie implicazioni che si riverberano sul requisito della verità, che viene conformato in relazione alle peculiarità della fonte primaria da cui la notizia promana, trattandosi di atti e/o provvedimenti giudiziari il cui contenuto mostra, di regola, una incisiva attitudine a ledere i diritti della personalità del soggetto che ne è attinto.
La peculiarità del contesto non impone, comunque, il ricorso a fonti informative "privilegiate", giacché la notizia può essere estrapolata da una fonte "indiretta", come, ad esempio, un altro articolo di giornale, che riproduca a sua volta il contenuto dell'atto/provvedimento giudiziario, in cui la notizia è incorporata.
Tuttavia, il referente ultimo per valutare l'aderenza al vero della narrazione rimane la fonte primaria e ciò, dunque, preclude all'autore della pubblicazione giornalistica artificiose rielaborazioni e reinterpretazioni delle informazioni tratte da atti/provvedimenti giudiziari, alterandone o manipolandone il contenuto, imponendo, altresì, un necessario aggiornamento temporale dell'informazione, alla luce degli sviluppi investigativi e istruttori intercorsi tra il momento dell'atto/provvedimento al quale si fa riferimento e quello della divulgazione della notizia.
6.3. Il tratteggiato percorso interpretativo è il precipitato delle più generali coordinate di principio in tema di cronaca giudiziaria individuate dalla giurisprudenza di questa Corte, sia civile, che penale, che, in sintesi, ha affermato (di seguito sono citati solo alcuni precedenti):
a) ai fini dell'applicabilità dell'esimente di cui all'art. 51 c.p., è indispensabile che il giornalista verifichi, con cura e diligenza, l'attendibilità della fonte e anche l'aggiornamento della notizia che viene fornita, perché il riferimento ad un determinato atto processuale potrebbe non essere più attuale (Cass. n. 21969/2020; Cass. n. 11769/2022; Cass. pen. n. 41135/2001; Cass. pen. n. 23695/2010; Cass. pen. n. 27106/2010; Cass. pen. n. 51619/2017; Cass. pen. n. 32603/2023);
b) nel caso di notizie lesive mutuate da provvedimenti giudiziari, il presupposto della verità deve essere restrittivamente inteso (salva la possibilità di inesattezze secondarie o marginali, inidonee a determinarne o aggravarne la valenza diffamatoria), nel senso che la notizia deve essere fedele al contenuto del provvedimento e che deve sussistere la necessaria correlazione tra fatto narrato e quello accaduto, senza alterazioni o travisamenti di sorta, non essendo sufficiente la mera verosimiglianza, in quanto il sacrificio della presunzione di non colpevolezza richiede che non si esorbiti da ciò che è strettamente necessario ai fini informativi (Cass. n. 22190/2009; Cass. n. 18264/2014; Cass. n. 17197/2015; Cass. n. 11769/2022; Cass. n. 6072/2023; Cass. n. 28331/2023; Cass. pen. n. 12859/2005; Cass. pen. n. 43382/2010; Cass. pen. n. 38323/2023);
c) quanto alle inesattezze dei fatti oggetto della notizia, queste devono avere carattere "secondario", ossia tali che non alterino, nel contesto dell'articolo, la portata informativa dello stesso rispetto al soggetto al quale sono riferibili. Sono da considerare marginali le imprecisioni che non mutano in peggio l'offensività della narrazione e, per contro, sono rilevanti quelle che stravolgono il fatto "vero" in maniera da renderne offensiva l'attribuzione a taluno, all'esito di una valutazione del loro peso sull'intero fatto narrato al fine di stabilire se siano idonee a renderlo "falso" e, oltre che tale, diffamatorio (Cass. n. 11233/2017; Cass. n. 7757/2020; Cass. n. 12903/2020; Cass. n. 13126/2024).
Non può, infine, sottacersi che la giurisprudenza civile di legittimità è affatto coesa nell'affermare che, in tema di azione di risarcimento dei danni da diffamazione a mezzo della stampa, la ricostruzione storica dei fatti, la valutazione del contenuto degli scritti, l'apprezzamento in concreto delle espressioni usate come lesive dell'altrui reputazione, la valutazione dell'esistenza, o meno, dell'esimente dell'esercizio del diritto di cronaca e di critica costituiscono oggetto di accertamenti di fatto, riservati al giudice di merito ed insindacabili in sede di legittimità se sorretti da motivazione rispettosa del c.d. "minimo costituzionale" (tra le molte: Cass. n. 13520 del 2017; Cass. n. 6133 del 2018; Cass. n. 12903 del 2020; Cass. n. 30483 del 2022; Cass. n. 2605 del 2023; Cass. n. 28331 del 2023).
6.4. Emerge, dunque, come orientamento consolidato quello per cui le inesattezze secondarie, che non alterano o manipolano il contenuto diffamatorio della notizia, non si frappongono all'operatività della scriminante, proprio in ragione del fatto che una soglia di tolleranza delle infedeltà narrative debba trovare spazio inevitabilmente anche nell'ambito della cronaca giudiziaria.
Ciò è naturale conseguenza del fatto che l'imputazione della condotta diffamatoria non possa prescindere da un vaglio di offensività da condurre con riferimento al bene protetto dalla fattispecie incriminatrice.
Quando, nonostante l'inesattezza, la notizia risulti autenticamente vera sotto il profilo strutturale e fattuale, non vi è ragione per addebitare la responsabilità civile per diffamazione all'autore della pubblicazione, che abbia errato nella rappresentazione di alcuni elementi.
Tanto vale anche nell'ipotesi in cui i suddetti elementi avrebbero certamente consentito una più completa esposizione della vicenda narrata, ma senza incidere sul contenuto essenziale del dato informativo, essendo a tal fine neutri.
Del resto, si concorda sul fatto che il dovere di accertamento diligente della veridicità di elementi secondari, inidonei a condizionare la carica diffamatoria della notizia, non sia esigibile nei confronti del giornalista, sul presupposto che la presenza di imprecisioni, che non influenzino la percezione complessiva del fatto narrato, non dovrebbe ostacolare l'esercizio del diritto di cronaca.
6.4.1. Ai fini della individuazione in concreto della marginalità delle inesattezze non è irrilevante, poi, stabilire un parametro di riferimento, che permetta di misurare la portata di esse in relazione ai destinatari dell'informazione.
Questo implica l'identificazione di un paradigma di lettore, la cui opinione possa essere conformata dalle notizie che lo raggiungono.
La prevalente giurisprudenza delle Sezioni civili di questa Corte (Cass. n. 20608/2011; Cass. n. 25739/2014; Cass. n. 12012/2017; Cass. n. 29640/2017; Cass. n. 16311/2018; Cass. n. 32780/2019; Cass. n. 19250/2023; Cass. n. 23978/2023; Cass. n. 13156/2024) ha assunto quale modello di lettore suscettibile di essere raggiunto e influenzato dalle notizie che gli vengono propalate il c.d. "lettore frettoloso", quello sprovvisto di tendenza all'approfondimento.
Analogo indirizzo si registra nella giurisprudenza delle Sezioni penali meno recente (Cass. pen. n. 8035/1998; Cass. pen. n. 26531/2009; Cass. pen. n. 4558/2010; Cass. pen. n. 20608/2011; Cass. pen. n. 6110/2018; Cass. pen. n. 12800/2019).
Secondo la definizione che l'interpretazione giurisprudenziale ha fornito, il lettore frettoloso, ritenuto statisticamente prevalente, è colui che si sofferma sulle parti che graficamente sono in grado di catalizzare maggiormente la sua attenzione, come ad esempio il titolo che rechi un'affermazione chiara, compiuta, univoca, che di per sé sarebbe sufficiente ad esaurire il contenuto della notizia senza richiedere un approfondimento nella lettura del testo.
Tali considerazioni assumono rilievo a fortiori alla luce del rinnovato contesto in cui la divulgazione avviene.
Preso atto dello sviluppo tecnologico e digitale, che ha investito anche il settore della stampa, si è imposta un'interpretazione di tipo estensivo ed evolutivo dei connotati tipologici della nozione di stampa, desumibili dall'art. 1 della l. n. 47/1998 [recte: 1948 - n.d.r.]: quello oggettivo e strutturale, che configura la stampa come riproduzione meccanica, e quello di tipo funzionale, rappresentato dalla destinazione al pubblico del prodotto editoriale.
In tal senso, dapprima le Sezioni unite penali (n. 31022/2015) e, poi, quelle civili (n. 23469/2016) si sono pronunciate sulla equiparazione tra stampa tradizionale cartacea e stampa telematica online ove sia dedotto il contenuto diffamatorio di notizie pubblicate, solo o anche, con mezzo telematico, affermando il principio secondo cui la tutela costituzionale assicurata dall'art. 21, comma terzo, Cost. alla libertà di stampa si applica al giornale o al periodico pubblicato, in via esclusiva o meno, con mezzo telematico, quando possieda i medesimi tratti caratterizzanti del giornale o periodico tradizionale su supporto cartaceo (così anche Cass. n. 23978/2023).
Il contesto dell'informazione digitale e telematica ha alimentato la tendenza dei lettori alla ricerca di un'informazione sintetica, poiché molto spesso il lettore, utente di un social network, accede alla notizia tramite la propria homepage, nella quale vengono raggruppati numerosi contenuti, messi a disposizione del fruitore del servizio offerto dalla piattaforma ed essendo rimessa alla volontà di approfondimento dell'utente la visualizzazione della versione integrale del singolo contenuto digitale, cliccando su un apposito link.
Preso atto delle peculiarità del contesto informativo in questione, la giurisprudenza (Cass. n. 12012/2017) ha ritenuto che la valutazione del carattere diffamatorio del dato informativo non si debba necessariamente estendere alla sua integralità, ma si possa arrestare all'analisi di titoli, sottotitoli e/o sommari, senza la pretesa che il lettore si dedichi alla lettura integrale e accurata del contenuto informativo.
Tuttavia, nella più recente giurisprudenza penale di questa Corte si registra la propensione ad affidarsi ad un diverso modello valutativo della natura diffamatoria del prodotto editoriale, basato sulla capacità di discernimento del c.d. "lettore medio", la cui attenzione si estenda ad una lettura, pur non approfondita, del contenuto integrale, sebbene senza particolare sforzo o arguzia (Cass. pen. n. 10967/2019; Cass. pen. n. 503/2023; Cass. pen. n. 11669/2023; Cass. pen. n. 13017/2024).
Ne consegue, secondo questo indirizzo, che per ponderare la natura diffamatoria di una pubblicazione occorre valutare globalmente gli elementi di cui essa si compone e non già arrestarsi a considerarne, atomisticamente, singole parti (Cass. pen. n. 9035/1998).
La distanza tra i due anzidetti orientamenti è, tuttavia, più apparente che reale, giacché la diversità di paradigma impiegato per ponderare il significato diffamatorio di un articolo si correla piuttosto al diverso contesto comunicativo in cui l'informazione viene veicolata.
Va, infatti, considerato che, diversamente dalla dimensione dell'informazione cartacea, nella dimensione dell'informazione digitale le dinamiche dell'informazione sono trasformate e la presentazione del dato informativo si ispira alla ricerca di essenzialità e speditezza, nell'obiettivo di abbinare sintesi e profondità comunicativa. E non si può, dunque, trascurare il fatto che un tale fenomeno investa entrambi i terminali del rapporto informativo: sia quello attivo, dal quale l'informazione promana, sia quello passivo, che viene dall'informazione raggiunto.
6.5. In siffatto più ampio contesto si colloca, e rinviene il necessario humus per un adeguato scrutinio, lo specifico thema decidendum che l'ordinanza interlocutoria della Prima Sezione civile ha inteso rimettere a queste Sezioni unite.
6.5.1. È orientamento affatto prevalente della giurisprudenza di questa Corte (Cass. pen. n. 34544/2001; Cass. pen. n. 13702/2010; Cass. n. 18264/2014; Cass. pen. n. 51619/2017; Cass. n. 12370/2018; Cass. n. 11679/2022) che la rappresentazione dello status giuridico di imputato ascritto ad una persona sottoposta alle indagini sortisce degli effetti pregiudizievoli sulla reputazione del soggetto protagonista della notizia propalata.
Si sottolinea, in particolare, il carattere evidente della differenza giuridica tra avviso di conclusione delle indagini preliminari, inoltrato dal pubblico ministero, ai sensi dell'art. 415-bis c.p.p., e il rinvio a giudizio da parte del Giudice per le indagini preliminari.
Tale discrasia si riverbera inevitabilmente anche sulla percezione che l'opinione pubblica matura circa lo stato di avanzamento della vicenda giudiziaria, che riguarda un determinato soggetto, la cui progressione tende ad alimentare il convincimento di un effettivo coinvolgimento della persona sottoposta alle indagini nei reati che hanno giustificato la pendenza della vicenda giudiziaria nei suoi confronti.
Evocativa in tal senso è Cass. n. 12370/2018, là dove segnatamente afferma che "(a)nche secondo il comune modo di pensare, un conto, infatti, è riferire che il Pubblico Ministero, dopo aver indagato su di un personaggio politico, ha ritenuto di aver completato le attività investigative, altro è che il Pubblico Ministero abbia richiesto il rinvio a giudizio, esercitando l'azione penale, e soprattutto che il Giudice, organo terzo e imparziale, abbia esaminato il risultato di tali attività investigative e abbia ritenuto che sussistessero sufficienti elementi di prova per la celebrazione del giudizio penale a carico dell'indagato".
Ed è in questo ambito che si affronta anche la differenza giuridica esistente tra avviso di conclusione delle indagini preliminari e la richiesta di rinvio a giudizio, provvedimento attraverso il quale il pubblico ministero esercita l'azione penale.
Snodo essenziale tra procedimento e processo penale è proprio la presentazione della suddetta richiesta, che determina un mutamento di status, in conseguenza del quale la persona sottoposta alle indagini acquista la qualifica di imputato.
Un tale consolidato indirizzo è contrastato dalla sentenza delle Sezioni penali (Cass. pen. n. 15093/2020) richiamata dalla stessa ordinanza interlocutoria n. 12239 del 2024, incline a svalutare il contenuto offensivo della discrepanza tra lo stato di avanzamento della vicenda giudiziaria sul piano storico e quello riportato nella narrazione.
Mentre vi è concordia nel ritenere macroscopico il carattere dell'errore e la natura diffamatoria della notizia nel caso in cui venga riportato il riferimento al decreto di rinvio a giudizio, atto promanante dal giudice per le indagini preliminari - e, quindi, frutto di vaglio da parte di un giudice terzo e imparziale sulla prospettazione accusatoria -, anziché quello relativo all'avviso ex art. 415-bis c.p.p., atto promanante dal pubblico ministero, una divergente prospettiva si intercetta con riferimento alla propalazione di una notizia che riguardi la richiesta di rinvio a giudizio, piuttosto che l'avviso di conclusione delle indagini preliminari.
In quest'ultimo caso, la citata Cass. pen. n. 15093/2020, come già evidenziato, ha ritenuto che l'insussistenza di un'ipotesi di diffamazione a mezzo della stampa si giustifichi in quanto "la divergenza tra quanto propalato e l'effettivo stato del procedimento costituisce una mera inesattezza su un elemento secondario del fatto storico, che non intacca la verità della notizia principale, secondo cui il procedimento, nella prospettiva della pubblica accusa, è approdato ad una cristallizzazione delle risultanze d'indagine funzionale alla sua progressione".
A sostegno di tale arresto si adduce l'attiguità sul piano procedimentale tra l'avviso di conclusione delle indagini preliminari e la richiesta di rinvio a giudizio, essendo il primo prodromico al secondo, giacché, in base al disposto dell'art. 415-bis c.p.p., l'inoltro di tale avviso è subordinato all'intenzione del pubblico ministero di coltivare l'ipotesi accusatoria e precede l'avvio del processo penale a carico della persona sottoposta alle indagini.
I due atti avrebbero, dunque, la comune derivazione dalla sfera dell'accusa, pur essendo gli stessi autonomi e preordinati all'assolvimento di funzioni diverse. In definitiva, uno scostamento di tale portata tra la realtà giudiziaria storica e quella narrata rivelerebbe una sostanziale inoffensività, non essendo l'inesattezza in grado di trasmodare in una falsità della notizia di natura diffamatoria.
6.5.2. È, poi, affatto prevalente l'indirizzo della giurisprudenza, sia civile, che penale, di questa Corte, nell'escludere l'operatività della scriminate del diritto di cronaca giudiziaria allorquando, anche solo nel titolo dell'articolo, venga impropriamente ascritto alla persona sottoposta alle indagini un addebito per un fatto-reato diverso rispetto al reato in relazione al quale si sta effettivamente svolgendo l'attività inquirente o venga ascritta, del pari impropriamente, una condotta sostanzialmente diversa e più grave rispetto a quella descritta negli atti giudiziari o nell'oggetto dell'imputazione (Cass. pen. n. 8036/1998; Cass. pen. n. 42155/2011; Cass. pen. n. 5760/2012; Cass. pen. n. 39503/2012; Cass. pen. n. 13782/2020; Cass. 26789/2024).
Non mancano, tuttavia, affermazioni più rigorose, in forza delle quali si reputa che sia insufficiente, al fine di escludere la natura diffamatoria della propalazione, la circostanza che il reato attribuito risulti, sulla base del raffronto tra cornici edittali, astrattamente meno grave di quello per il quale il soggetto sia effettivamente perseguito.
La minusvalenza offensiva del reato addebitato dalla narrazione rispetto a quello addebitato dagli inquirenti non varrebbe ad erodere la natura diffamatoria della notizia non veritiera, riportata dal giornalista.
La minore gravità del titolo di reato ascritto dalla pubblicazione non rileva che sia nota agli "addetti ai lavori", bensì alla sfera di utenza alla quale il contenuto è destinato, vale a dire quella del comune lettore (Cass. n. 3340/2009). In questi termini l'oggettiva non veridicità della notizia sarebbe per ciò solo sufficiente a qualificare in termini di diffamazione la condotta divulgativa del dato non veritiero (Cass. pen. n. 3073/2016).
Una valutazione, dunque, a maglie più strette che, però, trova convincente attenuazione in quell'orientamento che dà risalto alla minusvalenza offensiva tra il contenuto della narrazione e l'addebito effettivo, quale circostanza idonea a riverberarsi nella minore lesività della condotta divulgativa rispetto al bene della reputazione, che non può essere vulnerato dal mero fatto dell'infedeltà narrativa.
L'affermazione di una condotta diffamatoria non può, quindi, essere affatto avulsa dal giudizio di offensività che ha come referente il bene giuridico che si assume leso; sicché, la discrepanza tra il titolo di reato riportato nella notizia e quello in relazione al quale si sta svolgendo l'attività inquirente non può comportare, in forza di un automatismo, la natura diffamatoria della divulgazione (Cass. pen. n. 6410/2010; Cass. n. 12903/2020).
In siffatto contesto va, peraltro, appena rammentato che non si nutrono dubbi sulla qualificazione giuridica del tentativo come fattispecie autonoma di reato, quale delitto strutturalmente perfetto, ma meno grave rispetto alla corrispondente figura criminosa nella forma consumata. Esso, infatti, esprime, rispetto a quest'ultima, un disvalore più tenue e viene sanzionato con una pena autonoma e meno afflittiva.
7. Queste Sezioni unite ritengono di dover [dare] seguito all'orientamento giurisprudenziale maggioritario, ma con le puntualizzazioni che trovano già evidenza nel principio di diritto che si viene ad enunciare:
«in tema di diffamazione a mezzo stampa, l'esimente del diritto di cronaca giudiziaria, qualora la notizia sia mutuata da un provvedimento giudiziario, non è configurabile ove si attribuisca ad un soggetto, direttamente o indirettamente, la falsa posizione di imputato, anziché di indagato (anche per essere riferita un'avvenuta richiesta di rinvio a giudizio, in luogo della reale circostanza della notificazione dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari di cui all'art. 415-bis c.p.p.) e/o un fatto diverso nella sua struttura essenziale rispetto a quello per cui si indaga, idoneo a cagionare una lesione della reputazione (come anche nel caso di un reato consumato in luogo di quello tentato), salvo che il giudice del merito accerti che il contesto della pubblicazione sia tale da mutare, in modo affatto chiaro ed inequivoco, il significato di quegli addebiti altrimenti diffamatori».
Queste le ragioni.
Il profilo critico, ai fini della risoluzione del contrasto di giurisprudenza rimesso dalla Prima Sezione civile, investe non tanto l'attribuzione di un reato diverso e più grave rispetto a quello oggetto di indagine - che, come in precedenza illustrato, si risolve nei termini dell'orientamento prevalente e meno rigoroso (cfr. § 6.5.2) -, bensì, piuttosto, l'erronea rappresentazione della falsa posizione di imputato anziché di indagato, attraverso l'evocazione della richiesta di rinvio a giudizio piuttosto che dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari, da cui traspare la carica diffamatoria della notizia, che risulta distorta nel suo contenuto informativo essenziale.
La differenza, in termini giuridici, che sussiste tra i due status è significativa, riverberandosi sulla percezione sociale del grado di probabilità del coinvolgimento del soggetto che ne è titolare nel reato che gli viene addebitato.
Nell'ambito delle indagini preliminari, l'addebito contestato dagli inquirenti nei confronti della persona sottoposta alle indagini è solo provvisorio, diversamente da ciò che accade nell'ambito del processo, che prende le mosse dall'esercizio dell'azione penale da parte del pubblico ministero, in cui tale addebito si stabilizza, assurgendo a imputazione, e sulla sua fondatezza dovrà pronunciarsi un giudice terzo ed imparziale.
Questa evidente diversità di posizione è assunta come postulato della scelta, compiuta dal legislatore nell'art. 61 c.p.p., di equiparare espressamente l'indagato all'imputato, al fine di consentirgli di accedere, nella sede procedimentale, ai medesimi diritti e alle medesime garanzie riservate a quest'ultimo nella sede processuale, salvo che sia diversamente stabilito.
Essenziale, ai fini che qui specificamente interessano, è anche il momento in cui avviene il mutamento di status che determina la transizione dalla fase procedimentale delle indagini a quella propriamente processuale. Tale snodo si identifica con l'elevazione di una formale imputazione ad opera del pubblico ministero, come risulta dall'art. 60 c.p.p.
Dunque, è la richiesta di rinvio a giudizio, atto con cui il pubblico ministero esercita l'azione penale, a determinare il cambiamento della posizione del prevenuto da indagato a imputato.
In tal guisa, si comprende la rilevanza di sistema della richiesta di rinvio a giudizio nella vicenda giudiziaria, con le fondamentali implicazioni che essa porta con sé, emergendo con chiarezza la profonda differenza tra questo atto e l'avviso di conclusione delle indagini preliminari ad esso prodromico.
Nonostante la comune derivazione soggettiva dei due atti, entrambi provenienti dalla sfera accusatoria, l'impropria omologazione degli stessi dà luogo ad una infedele riproduzione della vicenda giudiziaria dal punto di vista strutturale e fattuale.
L'avviso di conclusione delle indagini preliminari, pur sottendendo l'intenzione del pubblico ministero di far evolvere la propria prospettazione accusatoria in una formale imputazione, non necessariamente viene seguita da una richiesta di rinvio a giudizio, in cui tale proposito effettivamente si materializza.
Se è vero che l'esercizio dell'azione penale è preceduto sempre dall'avviso ex art. 415-bis c.p.p., non è parimenti vero che a tale avviso faccia sempre necessariamente seguito l'esercizio dell'azione penale.
La norma, infatti, nello stabilire l'obbligo per il pubblico ministero di comunicare la conclusione delle indagini preliminari, palesando alla persona sottoposta alle indagini un proposito, ancora solo potenziale, di elevare un addebito formale di responsabilità che determini l'instaurazione nei suoi confronti di un processo penale, non contempla una mera formalità ritualistica, scevra da qualsivoglia pregnanza assiologica.
L'obbligo in esame presenta, invece, una ratio sua propria, che risiede nella garanzia del diritto di difesa della persona attinta dalla vicenda giudiziaria, alla quale è riconosciuta la facoltà di presentare memorie, produrre documenti, depositare la documentazione relativa alle investigazioni difensive, chiedere al pubblico ministero l'espletamento di ulteriori atti di indagine, nonché di presentarsi per rilasciare dichiarazioni ovvero di essere sottoposto ad interrogatorio.
Attraverso l'esercizio di queste fondamentali prerogative, il proposito accusatorio potrebbe infrangersi piuttosto che essere perseguito attraverso l'esercizio dell'azione penale. Sicché, fino al momento della richiesta di rinvio a giudizio, l'addebito provvisoriamente contestato all'indagato non ha assunto ancora una consistenza tale da accreditare l'ipotesi accusatoria.
La diversa natura giuridica degli atti, in definitiva, evoca la diversa posizione giuridica del protagonista della vicenda giudiziaria, che non può essere trascurata al fine di valutare la carica diffamatoria del contenuto informativo inesatto.
Non si può, quindi, relegare, di per sé e in astratto, una infedeltà narrativa di tale portata all'ambito della mera marginalità, attribuendole impropriamente neutralità ai fini del riconoscimento del carattere diffamatorio della notizia propalata.
Ne deriva che i due atti non sono confondibili e non possono essere impropriamente sovrapposti.
Simili inesattezze rendono inevitabilmente la narrazione non aderente al vero, inficiando l'autenticità del dato informativo e distorcendo l'opinione pubblica circa il grado di probabilità del coinvolgimento del soggetto, al quale la notizia si riferisce, nel reato contestatogli. In tal guisa, viene gettato su di lui un immotivato discredito, compromettendone la reputazione e l'immagine sociale.
La propalazione della notizia trascende la funzione informativa, che dovrebbe giustificarla, pregiudicando anche il diritto della collettività ad un'informazione vera e corretta, in grado di soddisfare il diritto all'informazione nella sua declinazione passiva, inteso come diritto di essere informati.
È una prospettiva, questa, che, a fortiori, non consente di condividere neppure quell'orientamento (Cass. n. 11769/2022) che, pur adesivo rispetto alla valenza diffamatoria che assume la qualificazione di imputato in danno di chi risulti solo indagato, assume, però, essere ipotesi differente, e priva di carica lesiva, quella del soggetto che venga indicato come indagato pur essendo soltanto "stato sentito come persona informata dei fatti".
È di tutta evidenza come quest'ultima figura, pur afferente alla fase delle indagini preliminari, ove non coincidente con l'indagato (art. 350 c.p.p.), si palesa come del tutto estranea rispetto al fatto-reato che quelle indagini sono volte a saggiarne la consistenza, potendo addirittura coincidere con la persona offesa dal reato stesso.
7.1. Ciò detto, la natura diffamatoria dell'anzidetta inesattezza (imputato in luogo di indagato, anche nei termini indiretti innanzi esaminati), così come di quella relativa all'addebito di un fatto diverso rispetto a quello oggetto delle indagini e idoneo a cagionare una lesione della reputazione (reato consumato in luogo di quello tentato), certamente predicabile in astratto, può sfumare nella fattispecie concreta, qualora, all'esito di un giudizio di merito - nei termini assunti dalla giurisprudenza affatto coesa richiamata al § 6.3, che precede -, si riscontri che, dal contesto complessivo della narrazione, emerga in maniera affatto chiara ed inequivocabile la verità sostanziale della notizia, non contraddetta, quindi, né opacizzata da elementi di composizione dell'articolo assumenti un rilievo lesivo di per sé dirimente.
Tale soluzione è il naturale corollario del principio, consolidatosi nella giurisprudenza di questa Corte, in base al quale la valutazione del significato diffamatorio di un'affermazione va condotta valorizzando il contesto in cui si colloca (tra le tante citate: Cass. n. 12903/2020; Cass. n. 7757/2020).
In questa prospettiva, la valenza semantica di un elemento atomisticamente considerato può trascolorare ove quest'ultimo venga inserito in un contesto narrativo più ampio.
In tal guisa, nel contesto della narrazione, l'elemento astrattamente diffamatorio può assumere un peso specifico inconsistente rispetto al risultato comunicativo effettivamente raggiunto ove esso corrisponda alla verità sostanziale della notizia.
Ed è in questi termini che, come in precedenza ricordato, la giurisprudenza di questa Corte ha inteso orientare il giudice di merito nella delibazione, di sua spettanza, in ordine alla sussistenza dell'esimente del diritto di cronaca affermando che sono da considerare marginali le imprecisioni che non mutano in peggio l'offensività della narrazione e, per contro, sono rilevanti quelle che stravolgono il fatto "vero" in maniera da renderne offensiva l'attribuzione a taluno, all'esito di una valutazione del loro peso sull'intero fatto narrato al fine di stabilire se siano idonee a renderlo "falso" e, oltre che tale, diffamatorio.
Valutazione che deve maturare nel rispetto della regola di giudizio - come tale suscettibile di sindacato di legittimità in guisa di error iuris se mal governata - per cui l'inesattezza di per sé non può comportare la diffamazione, ma ha quell'effetto solo se trasforma il fatto da "vero" a "falso" e in guisa tale che quest'ultimo sia diffamatorio.
Peraltro, nella delibazione in concreto alla quale deve attendere il giudice di merito non è dato trascurare, come in precedenza evidenziato, che il contesto narrativo, sotto lo spettro del quale scrutinare la portata diffamatoria dell'affermazione, può assumere anche una fisionomia diversa a seconda che si tratti di pubblicazioni on line o di stampa cartacea, nei termini dianzi delineati.
8. Alla luce delle considerazioni che precedono, il motivo di ricorso in esame è infondato.
È, anzitutto, privo di consistenza il primo profilo di censura.
L'articolo riportato sull'edizione online del settimanale "L'Espresso", intitolato "Truffa del superfinanziere", e datato il 24 giugno 2013, riportava (come nello stesso ricorso si dà atto: p. 10) quanto segue: "D. Alessandro, numero uno della banca d'affari Rothschild Italia, rischia di essere processato per il caso telecom Argentina. La Procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio per lui e per (...), proprietario dell'agenzia di stampa (...)", nonché "a breve il giudice deciderà sia su questa questione che sulla richiesta di rinvio a giudizio avanzata dai pubblici ministeri".
La Corte territoriale ha accertato che tale notizia era destituita di ogni fondamento, non trovando alcun riscontro provvedimentale, essendo la richiesta di rinvio a giudizio sopraggiunta il successivo 12 luglio.
È, dunque, in armonia con i principi sopra rammentati la decisione del giudice di appello che ha ravvisato il contenuto diffamatorio della narrazione, propalata tradendo la funzione informativa che avrebbe dovuto assolvere. Il giudice di appello ha, infatti, escluso che l'errore (ossia, aver dato per certa la richiesta di rinvio a giudizio, allorquando era stato depositato soltanto l'avviso di conclusione delle indagini), reputato evidente e inescusabile per essere stato commesso proprio da un giornalista di "cronaca giudiziaria" (e, dunque, da ritenersi culturalmente attrezzato sugli anzidetti concetti giuridici), potesse giustificare l'operatività dell'esimente del diritto di cronaca, collocandosi la pubblicazione oltre il limite della verità, anche ragionevolmente putativa.
È infondato, altresì, il secondo profilo di censura, inerente all'addebito della fattispecie di truffa nella forma consumata anziché in quella tentata.
Anche con riferimento a questa inesattezza, la Corte territoriale ha fatto buon governo dell'orientamento consolidato di questa Corte, in base al quale la notizia che ascriva ad un soggetto, nei cui confronti pende un procedimento penale per un determinato reato, un addebito strutturalmente diverso e meno grave ha natura diffamatoria e non è coperta dall'esimente del diritto di cronaca.
Nella specie, come riscontrato dal giudice di appello, già nel titolo ("Truffa del superfinanziere") dell'articolo di cronaca giudiziaria pubblicato su edizione online del settimanale, si è indebitamente uniformato il reato per il quale pendeva un procedimento penale nei confronti di un terzo soggetto, indagato per truffa, e quello contestato al D. Alessandro, indagato invece per truffa tentata, ignorando che dagli atti risultassero addebiti diversi e per fatti diversi, non risultando la benché minima complicità del D. Alessandro nella truffa contestata provvisoriamente al terzo, né l'aver lo stesso D. Alessandro ricevuto l'ingente somma di denaro (cinque milioni di dollari) erogata al terzo dalla persona offesa.
Inesattezze, queste, che il giudice di appello ha ritenuto non essere "irrilevanti", ma, nella loro falsità, idonee a ledere la reputazione del D. Alessandro in quanto dalla "intuibile pregnanza in termini di attacco alla carriera e alla solidità della posizione ricoperta".
L'apprezzamento della Corte territoriale collima, dunque, con il tipo di giudizio che, come innanzi precisato, è richiesto al giudice del merito in funzione del peso dell'inesattezza nel contesto della pubblicazione giornalistica, essendo, poi, insindacabile in questa sede (se non negli stretti limiti del vizio deducibile - ma non dedotto dai ricorrenti - di cui all'art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c.), la valutazione delle prove e dei fatti che danno corpo e sostanza a detto giudizio.
9. Il secondo motivo è inammissibile.
Giova rammentare che, in tema di responsabilità civile per diffamazione, il pregiudizio all'onore ed alla reputazione, di cui si invoca il risarcimento, non è in re ipsa, identificandosi il danno risarcibile non con la lesione dell'interesse tutelato dall'ordinamento, ma con le conseguenze di tale lesione, per cui la sussistenza di siffatto danno non patrimoniale deve essere oggetto di allegazione e prova, anche attraverso presunzioni, assumendo a tal fine rilevanza, quali parametri di riferimento, la diffusione dello scritto, la rilevanza dell'offesa e la posizione sociale della vittima (tra le altre: Cass. n. 25420/2017; Cass. n. 4005/2020; Cass. n. 8861/2021).
Nella specie, la Corte territoriale si è attenuta al principio anzidetto, reputando provato il danno risarcibile (danno-conseguenza) all'onore e alla reputazione del D. Alessandro in forza delle allegazioni dal medesimo veicolate in giudizio, ponendo in risalto "i fatti e le ricadute negative conseguenti alla diffamazione e connesse al prestigio della sua posizione, evidenziando la complessità e corposità del curriculum professionale", così da fornire anche "elementi idonei per procedere alla quantificazione", che lo stesso giudice di appello ha, poi, valorizzato in riferimento alla "diffusione nazionale del settimanale", alla "gravità dei fatti attribuiti al diffamato", all'"esistenza comunque di un'indagine a suo carico per tentata truffa", alla "notorietà del D. Alessandro che, seppur rilevante nel settore della finanza e bancario, non è di portata generale nell'ambito nazionale" (p. 5 della sentenza di appello).
La doglianza, nel contrapporsi genericamente alla ratio decidendi della sentenza impugnata, si risolve non già nella denuncia di un error in iudicando, bensì in una critica circa l'apprezzamento del giudice del merito sulla quaestio facti attinente all'accertamento dell'esistenza di un danno non patrimoniale; valutazione come tale non sindacabile in questa sede di legittimità, se non per il vizio di cui al vigente n. 5 dell'art. 360 c.p.c., non dedotto dai ricorrenti.
10. Il terzo motivo è infondato.
Nel caso di diffamazione commessa col mezzo della stampa, la persona offesa può chiedere, oltre il risarcimento dei danni ai sensi dell'art. 185 del codice penale, una somma a titolo di riparazione. La somma è determinata in relazione alla gravità dell'offesa ed alla diffusione dello stampato.
La sanzione pecuniaria prevista dall'art. 12 della l. n. 47 del 1948 si aggiunge e non si sostituisce al risarcimento del danno causato dall'illecito diffamatorio. Essa, dunque, presuppone la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi del delitto di diffamazione (Cass. n. 17395/2007; Cass. n. 16054/2015; Cass. n. 29640/2017).
Tra questi, certamente, vi è il dolo; tuttavia, per l'integrazione del delitto di diffamazione (art. 595 c.p.), non si richiede che sussista l'animus diffamandi, essendo sufficiente il dolo generico, che può anche assumere la forma del dolo eventuale, in quanto è sufficiente che l'agente, consapevolmente, faccia uso di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive, ossia adoperate in base al significato che esse vengono oggettivamente ad assumere, senza un diretto riferimento alle intenzioni dell'agente (tra le molte: Cass. pen. n. 4364/2013).
La Corte territoriale ha affermato che sussistevano "i presupposti" per l'applicazione di detta sanzione pecuniaria nei confronti del giornalista autore dell'articolo e, dunque, anche l'elemento soggettivo del dolo del reato ex art. 595 c.p. e ciò ha ritenuto all'esito di un percorso motivazionale di cui ha dato conto dell'esistenza della diffamazione in danno del D. Alessandro tratteggiandone tutti i contorni fattuali, in uno con la ritenuta insussistenza della scriminante del diritto di cronaca (cfr. § 2.1 dei "Fatti di causa"; pp. 3 e 4 della sentenza di appello), evidenziando la carica di offensività degli addebiti presenti nell'articolo a firma del L. Domenico.
11. Il quarto motivo è infondato.
La doglianza, concernente la disposta pubblicazione, per estratto, della sentenza di appello, ai sensi dell'art. 120 c.p.c., è proposta "quale diretta conseguenza dell'accoglimento dei precedenti motivi di ricorso", sicché il rigetto di tali motivi svuota di ogni consistenza anche il motivo in esame.
12. Il ricorso va, dunque, rigettato, con compensazione integrale delle spese del giudizio di legittimità per la rilevanza nomofilattica della questione di contrasto rimessa all'esame di queste Sezioni unite.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e compensa integralmente tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall'art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.