Corte dei conti
Sezione III centrale d'appello
Sentenza 8 maggio 2025, n. 66

Presidente ed Estensore: Maio

FATTO

1. Con la sentenza n. 23/2022, pubblicata il 18 gennaio 2022, la Corte dei conti - Sezione giurisdizionale regionale per il Lazio, in parziale accoglimento della domanda attorea, condannava Fabrizio Paolo T. al pagamento in favore del Ministero dell'interno - Polizia di Stato - della somma di euro 35.650,00, comprensiva di rivalutazione monetaria, oltre interessi legali e spese di giudizio, per il risarcimento del danno arrecato all'Amministrazione di appartenenza, derivante dallo svolgimento di attività di impresa, assolutamente incompatibile, in violazione dell'art. 60 del d.P.R. n. 3/1957 e dell'art. 50 del d.P.R. n. 335/1982 (ordinamento del personale della Polizia di Stato).

Con l'impugnata sentenza, il giudice territoriale, affermata la giurisdizione della Corte dei conti, preliminarmente, rigettava l'eccezione di prescrizione ritenendo sussistente l'occultamento doloso quale omissione di un comportamento dovuto. Nel merito riteneva che, poiché la fattispecie azionata concerneva attività commerciale vietata dall'art. 60 del d.P.R. n. 3/1957, versandosi in ipotesi di incompatibilità assoluta, non vi sarebbe stata la possibilità di ricorrere alla tipizzazione ex lege del danno prevista dall'art. 53, commi 7 e 7-bis, del d.lgs. n. 165/2001, che, al contrario, riguarderebbe fattispecie diverse da quella contestata, vale a dire attività relativamente incompatibili e autorizzabili dalla P.A. Inquadrata, pertanto, la fattispecie in quella di indebita percezione di emolumenti ricevuti dalla P.A. in violazione degli obblighi di servizio e ritenuta la sussistenza materiale dei comportamenti ascritti al T. che sin dal 2000 aveva svolto attività d'impresa mediante una ditta individuale, accoglieva parzialmente la domanda attrice e lo condannava al risarcimento del danno, determinato in via equitativa nel 5% delle retribuzioni percepite (5% di 713.000,00).

2. Avverso la predetta sentenza, proponeva appello Fabrizio Paolo T., con atto notificato in data 24 marzo 2022 e depositato il 14 aprile 2022, lamentando l'erroneità della decisione di primo grado ed affidando l'impugnazione ad alcuni articolati motivi.

2.1. Erroneità della sentenza nell'aver rigettato l'eccezione di difetto di giurisdizione rispetto alle allegazioni di parte attrice.

L'appellante eccepiva l'erroneità della sentenza sostenendo che la sussistenza del rapporto di servizio e la condotta illecita non sono sufficienti per ritenere sussistente la giurisdizione della Corte dei conti, ma occorre che siano allegati fatti idonei a dimostrare la sussistenza di un danno erariale.

2.2. Erroneità della sentenza nell'aver rigettato l'eccezione di prescrizione; violazione dell'art. 1, comma 2, l. 20/1994 e degli artt. 2935 e 2941, n. 8, c.c.

Sosteneva l'appellante che solo nel caso di incompatibilità relativa autorizzabile, sussisterebbe l'obbligo di comunicazione al datore di lavoro pubblico per chiedere l'autorizzazione allo svolgimento di attività lavorative extraistituzionali, e non nel caso di incompatibilità assoluta, come nella fattispecie. Pertanto in questa ultima ipotesi l'occultamento doloso non può sostanziarsi nell'omissione di un comportamento dovuto.

Inoltre l'Amministrazione sarebbe stata a conoscenza dell'attività espletata in sede privatistica, come risulterebbe dall'apertura della partita IVA; dalla verifica fiscale su detta partita IVA; dalle denunce presentate per il furto dei libri contabili o per condotte di reato in danno della sua ditta individuale; dalla diffusione dell'attività svolta in tutti i social media.

2.3. Nel merito, erroneità, illogicità e contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata; insussistenza dei presupposti per l'esercizio dell'azione erariale; mancanza della condotta illecita; genericità e indeterminatezza; assenza di specifiche condotte riferibili a specifici danni; assenza di danno; assenza del nesso eziologico tra le condotte e il danno; assenza di elemento soggettivo; mancato assolvimento dell'onere probatorio; insussistenza del danno imputabile.

2.3.1. Carenza dell'elemento oggettivo.

Secondo l'appellante, l'attività da lui svolta sarebbe sportiva di tipo motoristico ed il fatto di avere aperto una partita IVA e di aver fatto dichiarazioni dei redditi relative alla tipologia dei redditi di impresa secondo la disciplina fiscale non implicherebbe, necessariamente, lo svolgimento di un'attività imprenditoriale diretta rientrante tra i casi di incompatibilità assoluta.

Ancora, sempre secondo l'appellante, non sussisterebbe alcuna prova circa una presunta dispersione delle energie lavorative in danno dell'Amministrazione, tenuto conto dell'ottimo svolgimento della prestazione lavorativa da lui effettuata.

2.3.2. Carenza dell'elemento soggettivo.

2.3.3. Carenza del nesso causale.

L'appellante contestava la sussistenza sia del dolo che della colpa grave e rilevava che l'onere della prova del nesso di causalità tra la condotta ed il danno erariale avrebbe dovuto gravare sulla Procura.

2.3.4. Errata applicazione della liquidazione del danno in via equitativa e errata quantificazione del danno stesso, di cui chiedeva una rimodulazione, prendendo a base di calcolo le retribuzioni maturate dal 2016 (anno di acquisizione delle partecipazioni nella società di capitali) in poi (anziché dal 2000) e riducendone la percentuale (all'1% anziché al 5%).

2.4. Erroneità della sentenza per mancata integrazione dell'istruttoria nei confronti degli altri compartecipi al fine di avere un'integrazione del contraddittorio da parte della procura e comunque per escludere la responsabilità per danno erariale nei confronti di Fabrizio Paolo T., o anche mancata integrazione del contraddittorio ad opera dello stesso giudice in applicazione dei giusti principi costituzionali; omessa pronuncia.

L'appellante lamentava che non è stata vagliata in sentenza la domanda tesa all'integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti i suoi superiori e di coloro i quali, pur sapendo dell'attività esercitata a mezzo della ditta individuale, non lo avevano precedentemente sanzionato. Aggiungeva che nel caso in cui si ritenga di non disporre in questa sede l'integrazione, andrebbe sollevata una questione di legittimità costituzionale dell'art. 83 c.g.c. A tal fine si riportava alle argomentazioni svolte nell''ordinanza della Sezione regionale di controllo per la Campania, n. 37/2021.

2.5. Erroneità della sentenza per violazione dell'art. 91 c.p.c. L'appellante impugnava anche il capo della sentenza che lo condannava al pagamento delle spese di lite.

In conclusione chiedeva:

«1. In via pregiudiziale, accogliere l'eccezione di giurisdizione;

2. In via preliminare accogliere l'eccezione di prescrizione totale o parziale;

3. Nel merito: annullare e riformare per i motivi suesposti la Sentenza della Corte dei Conti Sez. Giurisdizionale per la Regione Lazio n. 23/20211, pubblicata il 18/01/2022, emessa nel giudizio di responsabilità, iscritto al n. 79000 del registro di segreteria, notificata ad istanza della Procura regionale - Dott.ssa MONFELI LAURA, in data 25/01/2022, con cui la Corte dei Conti - Sezione Giurisdizionale per il Lazio ha statuito la condanna del Sig. T. Fabrizio Paolo al pagamento del risarcimento del danno da disservizio nella somma complessiva pari ad euro 35.650,00 (trentacinquemilaseicentocinquanta/00), comprensiva di rivalutazione monetaria, oltre interessi dal deposito della sentenza sino al soddisfo ed alle spese di giudizio liquidate in complessivi euro 282,47 (duecentottandue/47) e, per l'effetto, rigettare la domanda attorea di risarcimento dei danni erariali per tutti motivi dedotti nel presente appello e assolvere il Sig. T. Fabrizio Paolo da ogni addebito per la responsabilità per danno erariale in relazione alla fattispecie di cui all'atto di citazione;

4. In via subordinata di merito, disporre l'integrazione del contraddittorio nei confronti dei soggetti indicati nel paragrafo sub 4 del presente atto di appello, anche previo rinvio alla Corte costituzionale della questione di legittimità afferente l'art. 88 c.g.c. e per l'effetto riformare la sentenza impugnata assolvendo il Sig. T. Fabrizio Paolo da ogni addebito per la responsabilità per danno erariale in relazione alla fattispecie di cui all'atto di citazione.

5. In ulteriormente via gradata, disporre la riduzione della condanna al risarcimento del danno erariale nei confronti di T. Fabrizio Paolo, per quanto argomentato e dedotto nel presente appello, nella misura minima ritenuta di giustizia, riparametrando la base di calcolo per la valutazione equitativa del danno nelle retribuzioni percepite da Fabrizio Paolo T. dall'anno 2016 all'anno 2019 e applicando una misura percentuale di calcolo massima dell'1%, e/o riducendo la condanna al risarcimento del danno rimodulandola in proporzione della responsabilità attribuita ai soggetti nei confronti dei quali è stata indicata la carenza di contraddittorio.

6. In estremo subordine, si chiede al Giudice d'Appello adito di applicare il potere riduttivo nella massima misura ritenuta di giustizia.

7. Con vittoria di spese, competenze e onorari di lite dei due gradi di giudizio».

3. La Procura generale rassegnava le proprie conclusioni, contestava la lettura del compendio probatorio prospettata dall'appellante e concordava con il giudice territoriale nel ritenere che una dispersione massiccia delle energie lavorative si pone in netto contrasto con un ottimo svolgimento della prestazione lavorativa effettuata presso la P.A. indipendentemente dalle valutazioni dei superiori.

Concludeva per il rigetto dell'appello e la conferma della decisione impugnata, con condanna dell'appellante al pagamento delle spese del presente grado di giudizio.

4. Con memoria dell'11 febbraio 2025, l'appellante reiterava le argomentazioni di cui all'atto introduttivo concludendo per l'accoglimento dell'appello.

5. All'odierna pubblica udienza, le parti ribadivano le argomentazioni e le conclusioni rassegnate in atti e la causa veniva trattenuta in decisione.

DIRITTO

1. La progressione logica delle questioni da trattare segue il sistema delineato dall'art. 101, n. 2, c.g.c., con conseguente disamina prioritaria delle questioni pregiudiziali di rito, delle preliminari di merito e, infine, del merito in senso stretto.

Con il primo motivo di impugnazione l'appellante deduce l'erroneità della sentenza di prime cure nel capo in cui è affermata la giurisdizione della Corte dei conti.

Secondo la prospettazione difensiva esulerebbero dall'area di cognizione del giudice contabile le azioni connesse a ipotesi di incompatibilità assoluta tra l'impiego pubblico e l'attività esterna. In simili casi, difettando l'ipotetica autorizzabilità dell'incarico esterno, non trovando applicazione l'art. 53 del d.lgs. 165/2001, sarebbe preclusa l'azionabilità di iniziative innanzi alla Corte dei conti, soprattutto perché la sussistenza del rapporto di servizio e la condotta illecita non sarebbero sufficienti a radicare la giurisdizione della Corte dei conti, ma occorrerebbe che fossero allegati fatti idonei a dimostrare la sussistenza di un danno erariale.

La questione è infondata.

Questa Corte ha già avuto modo di esaminare, in relazione a vicende sovrapponibili nella sostanza a quella in esame, che rientrano nel perimetro della giurisdizione della Corte dei conti tutti i casi in cui il dipendente pubblico, ignorando i divieti di esercizio di attività esterne, si trovi a svolgere attività non autorizzate, irrilevante essendo il grado di incompatibilità, assoluto o relativo, dell'attività esterna.

Inoltre, nel caso di specie la materia del contendere è costituita dalla responsabilità conseguente all'indebito sviamento delle energie lavorative, da utilizzare esclusivamente a favore della P.A., per il conseguimento di interessi privatistici.

La lesione patrimoniale contestata è quindi connessa, sul piano eziologico e soggettivo, alla condotta del funzionario, dipendente pubblico che con il suo comportamento ha determinato le conseguenze dannose patite dall'amministrazione.

In conclusione, il Collegio reputa la sentenza di primo grado meritevole di conferma nell'affermazione della giurisdizione contabile.

2. In punto di merito, la valorizzazione dell'esigenza di sinteticità di cui all'art. 5, comma 2, c.g.c. rende cogente l'applicazione del principio della "ragione più liquida", secondo cui deve procedersi all'esame del motivo suscettibile di assicurare la definizione del giudizio, anche in presenza di questioni che, in base all'ordinaria sequenza logico-giuridica, avrebbero prioritario esame (Cass. n. 3269/2024).

Tale principio, desumibile dagli artt. 24 e 111 Cost., è volto ad assicurare effettività e celerità alla tutela giurisdizionale, alla stregua del principio di economia processuale. Con specifico riguardo alla giustizia contabile, plesso giudiziario nel quale detto principio è di pacifica applicabilità, esso consente di modificare l'ordine con cui, secondo il disposto dell'art. 101 c.g.c., le questioni andrebbero decise.

Ebbene, nella vicenda in esame, l'opzione di ricorrere al principio della ragione più liquida consente di procedere direttamente alla valutazione di dirimenti profili che manifestano criticità di più immediata percepibilità e in grado di condurre ad una celere definizione del giudizio.

Giova ricordare che, affinché possa parlarsi di responsabilità amministrativa, è necessario che ricorrano gli elementi tipici della stessa, e cioè che vi sia un danno patrimoniale certo, economicamente valutabile, attuale e concreto, sofferto dall'amministrazione pubblica, il nesso di causalità fra la condotta del convenuto e l'evento dannoso, che il comportamento omissivo o commissivo del soggetto a cui il danno è ricollegabile sia connotato dall'elemento psicologico del dolo o della colpa grave, e che sussista un rapporto di servizio fra l'agente che ha cagionato il danno e l'ente pubblico che lo ha sofferto.

Ciò premesso, nel procedere all'accertamento della sussistenza, nel caso specifico, dei predetti elementi, e cominciando dall'accertamento dell'elemento oggettivo del danno patrimoniale per le finanze pubbliche, da ritenere presupposto prioritario, indispensabile ed indefettibile ai fini della sussistenza della responsabilità amministrativa, si rileva che, secondo la prospettazione accusatoria, il danno era originariamente individuato nell'omesso versamento, nel conto dell'entrata del bilancio dell'amministrazione di appartenenza, dei compensi derivanti dallo svolgimento di attività di impresa, assolutamente incompatibile, in violazione dell'art. 60 del d.P.R. n. 3/1957 e dell'art. 50 del d.P.R. n. 335/1982, ipotesi che «... integra una fattispecie di responsabilità erariale ai sensi dell'art. 53, commi 7 e 7-bis, del d.lgs. n. 165/2001, intesa quale norma da applicarsi analogicamente al caso di specie». Il Procuratore contabile sottolineava, altresì, che «A prescindere, del resto, dalla condivisione di quanto finora esposto, appare indubitabile che la condotta del T. abbia determinato un danno al Ministero dell'interno - Polizia di Stato. Infatti, le energie lavorative da destinare in via esclusiva al lavoro pubblico sono state dirottate all'espletamento di un'attività di impresa vietata al dipendente pubblico».

Il giudice di primo grado, accertato lo svolgimento di un'attività vietata dalla legge e neanche autorizzabile da parte dell'amministrazione di appartenenza, in quanto classificabile come attività d'impresa, riteneva non applicabile al caso in esame, caratterizzato da una incompatibilità assoluta, il regime di cui all'art. 53, commi 7 e 7-bis, del d.lgs. n. 165/2001, riguardante le c.d. incompatibilità relative.

Reputa il Collegio che l'organo giudicante abbia effettuato una esatta qualificazione giuridica dei fatti sulla base della disciplina dettata in tema di attività d'impresa, nonché di concreta realizzabilità di una fattispecie di incompatibilità assoluta.

La circostanza che l'attività delle corse automobilistiche fosse un'attività ludico-sportiva svolta senza fini di lucro, ma per il conseguimento dei mezzi per finanziare l'attività stessa, come eccepito dalla difesa, è disattesa dalle risultanze di causa e, in particolare, dalla documentazione allegata all'informativa della Guardia di finanza (contenente una elencazione di fatture relative a prestazioni quali: contratto di prestazioni pubblicitarie, noleggi auto e corso di guida) e dalle dichiarazioni dei testi.

Ciò posto, questo Collegio condivide la premessa da cui muove il giudice di primo grado, secondo cui, poiché la fattispecie azionata concerne attività commerciale vietata dall'art. 60 del d.P.R. n. 3/1957, versandosi in ipotesi di incompatibilità assoluta, non vi sarebbe la possibilità di ricorrere alla tipizzazione e quantificazione ex lege del danno prevista dall'art. 53, commi 7 e 7-bis, del d.lgs. n. 165/2001, che, al contrario, riguarda fattispecie diverse da quella contestata, vale a dire attività relativamente incompatibili e autorizzabili dalla P.A.

Tanto, anche in linea con quanto statuito dalle Sezioni riunite di questa Corte, che, nella sentenza n. 1/QM/2025, hanno affermato che «Lo svolgimento di attività assolutamente incompatibili con lo status di dipendente pubblico comporta, viceversa, la violazione di uno specifico "dovere" di esclusività.

Qui la valutazione sul potenziale conflitto di interesse o sulla lesività del comportamento delle attività assolutamente vietate è effettuata ancora prima dall'ordinamento; viene fatta risalire a monte, al momento stesso in cui tali attività sono declinate dal legislatore tra quelle assolutamente incompatibili con lo status di dipendente pubblico.

Tale è la previsione, più volte richiamata, dell'art. 60 del d.P.R. n. 3/1957, che pone il divieto dell'esercizio del commercio e dell'industria a carico di tutti i dipendenti pubblici, tanto dei ricercatori e dei docenti a tempo pieno, quanto (ed è bene evidenziarlo) dei ricercatori e dei docenti a tempo definito.

E, tuttavia, le recenti aperture che il legislatore ha inteso introdurre, con l'inserimento, a regime, nel comma 10 dell'art. 6 della l. n. 240/2010 (ad opera dell'art. 9, comma 2-bis, del d.l. n. 44/2023) della possibilità per i ricercatori e i docenti a tempo pieno di assumere incarichi presso "enti privati anche a scopo di lucro", fino a questo momento vietati dal legislatore come attività assolutamente incompatibili, stante il divieto posto dall'art. 60 del d.P.R. n. 3/1957, deve indurre il Collegio a una riflessione sull'effettiva portata da attribuire all'art. 53 del d.lgs. n. 165/2001.

Alla luce di tali sopravvenute disposizioni, è indubbio che il concetto di attività assolutamente incompatibili, fino a questo momento parametrato all'art. 60 del d.P.R. n. 3/1957, va rivalutato alla luce delle nuove esigenze ordinamentali e di sistema.

Le disposizioni di settore, cui si è fatto riferimento, valevoli per il mondo universitario, possono offrire un utile spunto di riflessione, ai fini della soluzione del quesito posto con l'atto di deferimento qui in esame.

Si tratta, in effetti, di disposizioni che, seppure limitate al mondo accademico, inducono queste Sezioni riunite a una lettura evolutiva del divieto posto dall'art. 60 del d.P.R. n. 3/1957.

Valgono, a tal proposito, le prescrizioni poste dallo stesso legislatore in materia, volte a garantire l'assolvimento dei propri compiti istituzionali e che l'attività svolta all'esterno non arrechi all'amministrazione di appartenenza un nocumento ovvero un detrimento delle attività (ora gestionali, ora didattiche o di ricerca, a seconda dell'ordinamento di riferimento) poste a carico del singolo dipendente.

Ne consegue che la valutazione in concreto dell'eventuale danno arrecato deve essere affidata, di volta in volta, al singolo Collegio giudicante, il quale dovrà tenere conto di tutte le circostanze del caso, accertare la sussistenza e la compresenza di tutti gli elementi costitutivi della responsabilità amministrativa e verificare se effettivamente vi sia stato un danno all'amministrazione di appartenenza del dipendente impegnato in attività esterna derivante dal mancato adempimento dei propri compiti istituzionali e dall'inutile dispersione delle energie lavorative.

L'entità del danno, così accertato, dipende dalla lesione prodotta.

Il danno arrecato all'amministrazione di appartenenza del pubblico dipendente deve, in ogni caso, essere provato, in base alle ordinarie regole che disciplinano i mezzi e le fonti di prova, e non può in alcun modo essere considerato in re ipsa.

In questi termini, il danno può coincidere con l'intero compenso percepito, in caso di mancato assolvimento dei basilari compiti di istituto ovvero essere parametrato all'inutile esborso sopportato dall'amministrazione a fronte di una prestazione lavorativa parziale ovvero all'indennità di esclusiva, laddove prevista, o, nel caso dei docenti universitari, al differenziale retributivo tra la retribuzione spettante ai docenti in regime a tempo pieno e quella spettante ai docenti a tempo definito.

Nei casi di incompatibilità assoluta (incarichi vietati e non autorizzabili), per i quali il legislatore pone un divieto assoluto e prevede altre e ben più gravi sanzioni, il compenso non è in radice dovuto e la prova del danno, riferibile alla violazione del dovere di esclusività e alla indebita percezione di emolumenti, può essere raggiunta anche avvalendosi di indici presuntivi gravi, precisi e concordanti desumibili dalle risultanze in atti».

Non è condivisibile, viceversa, l'ulteriore argomentazione motiva del primo giudice secondo cui un'attività di tal fatta, assolutamente incompatibile e, dunque, non autorizzabile, pur se esclusa dalla disciplina applicativa dell'art. 53, commi 7 e 7-bis, del t.u.p.i., per rientrare nel paradigma generale della responsabilità amministrativa conseguente all'indebita percezione di emolumenti per violazione del sinallagma contrattuale, possa far "ragionevolmente" presumere che una parte delle energie lavorative sia stata distratta dalle attività istituzionali.

Ritiene il Collegio che la mera situazione di incompatibilità assoluta non possa determinare in automatico il sorgere della responsabilità amministrativa a carico del pubblico dipendente, dovendo il pubblico ministero provare che questi abbia sottratto energie lavorative all'amministrazione datrice di lavoro, non svolgendo proficuamente e puntualmente la propria prestazione lavorativa. Non è l'attività assolutamente incompatibile (per il cui svolgimento è previsto un preciso regime sanzionatorio) a determinare in via automatica la lesione del sinallagma contrattuale e quindi un danno da risarcire.

Nel caso di specie, pure risultando comprovata la condotta consistente nell'avere svolto attività assolutamente vietata, il pubblico ministero non ha dedotto, né ipotizzato, nell'originario atto di citazione alcun specifico profilo di disservizio all'amministrazione, apprezzabile in termini di alterazione del rapporto sinallagmatico.

Difetta, pertanto, la dimostrazione della minore resa del servizio e dell'abbassamento quantitativo e qualitativo delle prestazioni, tale da rendere sine causa le somme percepite quale corrispettivo di un'attività non svolta.

In conclusione, in assenza di sufficiente prova della sussistenza e consistenza del danno, l'appello deve essere accolto e, per l'effetto, respinta, nei termini innanzi esposti, la domanda di risarcimento proposta nei confronti di Fabrizio Paolo T.

Resta assorbita ogni ulteriore questione.

Ricorrono i presupposti per la compensazione delle spese, ai sensi dell'art. 31, comma 3, c.g.c., in ragione delle novità giurisprudenziali intervenute nella materia del contendere.

P.Q.M.

La Corte dei conti, Sezione terza centrale d'appello, definitivamente pronunciando, accoglie l'appello nei termini di cui in motivazione.

Le spese, ai sensi dell'art. 31, comma 3, c.g.c., sono compensate.

Manda alla Segreteria per gli adempimenti di competenza.