Corte costituzionale
Sentenza 26 giugno 2025, n. 87

Presidente: Amoroso - Redattrice: Navarretta

[...] nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 147 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), come sostituito dall'art. 131 del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell'articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80), promosso dal Tribunale ordinario di Matera, sezione fallimentare, nel procedimento vertente tra il Fallimento della Vera Frutta ssa di R. V. & C. e R. V., V. V. e A. V., con ordinanza del 3 ottobre 2024, iscritta al n. 204 del registro ordinanze 2024 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46, prima serie speciale, dell'anno 2024, la cui trattazione è stata fissata per l'adunanza in camera di consiglio del 5 maggio 2025.

Visto l'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udita nella camera di consiglio del 22 maggio 2025 la Giudice relatrice Emanuela Navarretta;

deliberato nella camera di consiglio del 22 maggio 2025.

RITENUTO IN FATTO

1.- Con ordinanza del 3 ottobre 2024, iscritta al n. 204 del registro ordinanze 2024, il Tribunale ordinario di Matera, sezione fallimentare, ha sollevato, in riferimento agli artt. 24 e 111 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell'art. 147 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), come sostituito dall'art. 131 del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell'articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80), nella parte in cui non prevede che i soci illimitatamente responsabili di una delle società indicate nel primo comma dello stesso art. 147, ove non convocati nel corso del giudizio che ha condotto alla dichiarazione di fallimento della società, possano interloquire, anche dopo il passaggio in giudicato della relativa sentenza, sui requisiti di fallibilità dell'ente nel procedimento prefallimentare promosso nei loro confronti, al fine di sottrarsi al fallimento in estensione.

2.- Il rimettente riferisce che il Tribunale di Matera, sezione fallimentare, con sentenza del 17 marzo 2021, ha dichiarato il fallimento della Vera Frutta ssa di R. V. & C. e che tale pronuncia è divenuta irrevocabile a seguito del rigetto, da parte della Corte d'appello di Potenza, del reclamo proposto dalla stessa società.

Successivamente, il curatore fallimentare ha chiesto, ai sensi dell'art. 147 della legge fallimentare, l'estensione del fallimento ai soci illimitatamente responsabili R., V. e A. V.

2.1.- I tre soci si sono costituiti nel giudizio concernente il fallimento in estensione e hanno eccepito la violazione del contraddittorio per non essere stati sentiti nella fase prefallimentare e in quella successiva alla declaratoria di fallimento della società, sostenendo di essere in tale giudizio litisconsorti necessari. A riguardo hanno evocato le sentenze n. 110 del 1972 e n. 142 del 1970 di questa Corte, che avrebbero riconosciuto il litisconsorzio necessario dei soci illimitatamente responsabili nel procedimento concernente il fallimento della società. La violazione del loro diritto di difesa impedirebbe di dimostrare, in particolare, che non sussistevano i presupposti per la fallibilità della società, essendo quest'ultima dedita all'attività agricola.

In via subordinata, i soci hanno chiesto di sollevare questioni di legittimità costituzionale dell'art. 147 della legge fallimentare, in riferimento agli artt. 24 e 111 Cost., poiché, consentendo ai soci di contestare solo tale qualifica o il superamento del termine annuale dallo scioglimento del rapporto sociale, pregiudicherebbe il loro diritto di difesa e determinerebbe una estensione automatica del fallimento della società ai soci che non avrebbe eguali nel panorama comparatistico. I soci hanno altresì eccepito l'illegittimità costituzionale della citata norma per violazione dell'art. 3 Cost. poiché, nel caso in cui il fallimento dei soci sia chiesto dopo il fallimento della società, gli stessi, diversamente da quanto accade nel giudizio unitario, non potrebbero interloquire sulla fallibilità dell'ente.

2.2.- Il giudice a quo ha rigettato - sulla base del diritto vivente - l'eccezione secondo cui nel giudizio sul fallimento della società sussisterebbe tra quest'ultima e i soci illimitatamente responsabili un litisconsorzio necessario. Pertanto, ha specificato che non si dovesse integrare il contraddittorio nei confronti dei soci della Vera Frutta ssa nel giudizio di accertamento dei presupposti di fallibilità dell'ente, sfociato nella dichiarazione di fallimento della società. In quel giudizio, infatti, non era stato chiesto anche il fallimento in estensione dei soci illimitatamente responsabili, né lo avrebbe potuto dichiarare d'ufficio il tribunale, essendo la procedura nei confronti della società iniziata dopo la riforma della legge fallimentare introdotta con il d.lgs. n. 5 del 2006, che non prevede più tale potere officioso.

2.3.- Parimenti, il giudice a quo ha disatteso l'eccezione di parte resistente, secondo cui le norme sul fallimento in estensione non sarebbero applicabili ai soci illimitatamente responsabili di società semplice, in quanto detta tipologia di società non sarebbe richiamata nella norma in questione. Ha rilevato, infatti, che, allorché la società semplice svolga di fatto una prevalente attività commerciale, alla stessa si debba applicare la disciplina della società in nome collettivo, anche ai fini della sua assoggettabilità al fallimento.

2.4.- Di seguito, il rimettente ha evidenziato come l'art. 147, terzo comma, della legge fallimentare imponga al tribunale, prima di dichiarare il fallimento dei soci illimitatamente responsabili, di disporne la convocazione a norma dell'art. 15 della medesima legge, essendo questa l'unica condizione di garanzia processuale in relazione al fallimento in estensione.

Se è vero, infatti, che il fallimento personale del socio presenta una relativa autonomia rispetto a quello della società, nondimeno - precisa il giudice a quo - esso «costituisce un effetto dipendente ed accessorio rispetto all'apertura del fallimento sociale».

3.- Svolte tali premesse, il giudice a quo ha sollevato, in riferimento agli artt. 24 e 111 Cost., questioni di legittimità costituzionale dell'art. 147 della legge fallimentare, ritenendo che esso vìoli in maniera irragionevole e sproporzionata il diritto di difesa dei soci illimitatamente responsabili.

3.1.- Sotto il profilo della rilevanza delle questioni, il rimettente osserva che - in mancanza di un intervento di questa Corte - sarebbe tenuto a dichiarare il fallimento in estensione dei soci illimitatamente responsabili R., V. e A. V. Risulterebbe, infatti, pacifica la loro partecipazione alla compagine sociale della Vera Frutta ssa, nonché la loro qualità di soci illimitatamente responsabili senza soluzione di continuità sino alla sentenza dichiarativa del fallimento della società e non sarebbe consentito loro dimostrare la natura eminentemente agricola della citata società, la cui dichiarazione di fallimento sarebbe opponibile erga omnes.

3.2.- Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo rileva che l'art. 147 della legge fallimentare, per come interpretato dalla giurisprudenza, impedirebbe al socio illimitatamente responsabile di interloquire sui requisiti di fallibilità della società, se non nel caso in cui sia chiesto anche il suo fallimento.

In tal modo, il socio subirebbe «una sostanziale capitis deminutio, date le gravissime conseguenze giuridiche e personali che discendono dalla dichiarazione di fallimento, a fronte dell[e] qual[i] la possibilità di dimostrare di non essere stato socio o socio illimitatamente responsabile, oltre all'ipotesi di decadenza dall'azione per il superamento dell'anno dall'interruzione del rapporto sociale, [sarebbe] sostanzialmente poco significativa e statisticamente irrilevante, dato il numero esiguo di casi, quasi di scuola».

Di conseguenza, il giudice a quo, adducendo una sproporzionata compressione del diritto di difesa, invoca l'inopponibilità ai soci, nel giudizio sul fallimento in estensione, dell'accertamento relativo all'esistenza dei requisiti di fallibilità dell'ente, effettuato nel corso di un precedente giudizio sul fallimento della società, nel quale i soci non sono stati convocati.

Simile tutela - secondo il rimettente - non si potrebbe desumere in via meramente interpretativa, sia in considerazione del diverso diritto vivente formatosi in merito all'art. 147 della legge fallimentare, sia perché non potrebbero farsi valere le sentenze di questa Corte n. 110 del 1972 e n. 142 del 1970, decise in un diverso contesto normativo, antecedente alla riforma di cui al d.lgs. n. 5 del 2006.

4.- È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo di dichiarare inammissibili e comunque non fondate le questioni prospettate.

4.1.- Ad avviso della difesa statale, le questioni sarebbero, anzitutto, inammissibili per difetto di rilevanza, avendo esse carattere meramente virtuale.

La rilevanza delle questioni sarebbe, infatti, «solo apoditticamente affermata, in carenza di alcun, pur necessario, previo accertamento in ordine alla sussistenza in concreto dei presupposti suscettibili di condurre alla declaratoria di fallimento prevista dalla normativa censurata».

Inoltre, secondo l'Avvocatura generale, l'eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 147 della legge fallimentare non potrebbe mai mettere in discussione l'accertamento della natura commerciale della società fallita, essendo la questione coperta da un giudicato sostanziale. La sentenza che ha dichiarato il fallimento della società sarebbe, infatti, irrevocabile, per ammissione dello stesso rimettente, «sicché la norma censurata, anche seguendo la prospettazione del Giudice rimettente, non consentirebbe comunque di rimettere in discussione un simile accertamento».

4.2.- Nel merito, il Presidente del Consiglio dei ministri reputa le questioni non fondate, poiché «[a]l socio illimitatamente responsabile, contrariamente a quanto sembrerebbe asserire l'ordinanza di rimessione, non [sarebbe] affatto preclusa la possibilità di contestare la fallibilità della società, di interloquire sui presupposti di fallibilità e, segnatamente, di dimostrare che l'attività dalla stessa svolta sia prevalentemente agricola».

Questi, infatti, sarebbe potuto intervenire volontariamente nel giudizio sul fallimento della società o avrebbe potuto impugnare la sentenza che lo ha concluso, alla luce del disposto dell'art. 18, primo comma, della legge fallimentare, che legittima al reclamo avverso la sentenza dichiarativa del fallimento «qualunque interessato», fra i quali - per giurisprudenza costante - si devono ascrivere i soci illimitatamente responsabili.

Nessun vuoto di tutela sarebbe dunque riscontrabile, né alcuna compressione del diritto di difesa e dei principi del giusto processo.

Quanto all'adeguatezza del rimedio posto a disposizione del socio, l'Avvocatura generale richiama la giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale il legislatore, in materia di conformazione degli istituti processuali, gode di ampia discrezionalità, con la conseguenza che il controllo di legittimità costituzionale deve limitarsi a riscontrare se sia stato o meno superato il limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte compiute.

Nella specie, la difesa statale sostiene che «il bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti risulta equilibrato in quanto, al fine di preservare l'efficiente funzionamento del sistema giudiziario ed assicurare il celere svolgimento delle procedure concorsuali, la tutela del diritto di difesa dei soci illimitatamente responsabili viene assicurata mediante il riconoscimento della possibilità di contestare, sotto ogni profilo, la sentenza dichiarativa del fallimento della società "nel giudizio di impugnazione del fallimento sociale" e perciò con lo strumento del reclamo ex art. 18 L.F.».

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.- Il Tribunale di Matera, sezione fallimentare, ha sollevato, in riferimento agli artt. 24 e 111 Cost., questioni di legittimità costituzionale dell'art. 147 della legge fallimentare, nella parte in cui non prevede che i soci illimitatamente responsabili di una delle società indicate nel primo comma dello stesso art. 147, ove non convocati nel corso del giudizio che ha condotto alla dichiarazione di fallimento della società, possano interloquire, anche dopo il passaggio in giudicato della relativa sentenza, sui requisiti di fallibilità dell'ente nel procedimento prefallimentare promosso nei loro confronti, al fine di sottrarsi al fallimento in estensione.

2.- Il rimettente riferisce che il curatore fallimentare della società agricola Vera Frutta ssa di R. V. & C. ha chiesto, ai sensi dell'art. 147 della legge fallimentare, l'estensione del fallimento della società, già dichiarato con sentenza irrevocabile, ai soci illimitatamente responsabili.

Questi ultimi si sono costituiti nel giudizio a quo e hanno eccepito la violazione del contraddittorio, lamentando di non essere stati convocati nella procedura che aveva portato al fallimento della società e di non aver potuto interloquire sui presupposti di fallibilità della stessa, che, a loro dire, svolgeva attività agricola e, pertanto, non poteva essere dichiarata fallita.

3.- Il giudice a quo ritiene che i soci di una società semplice, di cui sia chiesto il fallimento in estensione dopo il passaggio in giudicato della sentenza dichiarativa del fallimento della società, senza che in tale giudizio essi siano stati convocati, subirebbero una irragionevole e sproporzionata lesione del diritto di difesa di cui agli artt. 24 e 111 Cost.

Pertanto, solleva questioni di legittimità costituzionale dell'art. 147 della legge fallimentare, come interpretato dalla giurisprudenza di legittimità, nella parte in cui non prevede l'inopponibilità ai soci non convocati, ai fini della dichiarazione del fallimento in estensione, dell'accertamento in merito alla fallibilità dell'ente.

Il rimettente reputa non praticabile un'interpretazione conforme a Costituzione, avendo il diritto vivente escluso l'esistenza di un obbligo di convocazione dei soci nella procedura prefallimentare nei confronti della società, non sussistendo tra soci e società un litisconsorzio necessario.

4.- In rito, il Presidente del Consiglio dei ministri eccepisce il difetto di rilevanza delle questioni.

Secondo la difesa statale, il rimettente non avrebbe effettuato il «necessario, previo accertamento in ordine alla sussistenza in concreto dei presupposti suscettibili di condurre alla declaratoria di fallimento prevista dalla normativa censurata». Inoltre, l'eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 147 della legge fallimentare non potrebbe mettere in discussione l'accertamento della natura commerciale della società fallita, essendo la questione oramai coperta da un giudicato sostanziale.

4.1.- L'eccezione non è fondata.

Il giudice a quo, diversamente da quanto sostenuto dalla difesa erariale, ha fornito un'adeguata motivazione in ordine all'incidenza della norma censurata sul proprio percorso decisionale e dunque sulla rilevanza delle questioni, avendo espressamente affermato che, ove le censure non venissero accolte, sarebbe tenuto a dichiarare il fallimento in estensione dei soci della società fallita.

Quanto all'ulteriore rilievo, secondo cui il passaggio in giudicato della sentenza dichiarativa del fallimento della società renderebbe incontrovertibile e irretrattabile l'accertamento della sua natura commerciale, il rimettente è ben consapevole che la sentenza dichiarativa del fallimento della società sia divenuta irrevocabile. Nondimeno, attraverso la declaratoria di illegittimità costituzionale mira a ottenere proprio la possibilità di rendere tale sentenza inopponibile ai soci nel procedimento disciplinato dall'art. 147 della legge fallimentare, sì da consentire una nuova verifica dei presupposti di fallibilità della società, al solo fine della dichiarazione del fallimento in estensione.

Si tratta, dunque, di un aspetto che attiene al merito delle questioni sollevate e non al rito.

5.- Occorre ora ricostruire, in via preliminare, il quadro normativo di riferimento, anche al fine di precisare il thema decidendum del presente giudizio.

5.1.- Il censurato art. 147 della legge fallimentare regola il cosiddetto fallimento in estensione.

I primi tre commi della citata disposizione stabiliscono quanto segue: «[l]a sentenza che dichiara il fallimento di una società appartenente ad uno dei tipi regolati nei capi III, IV e VI del titolo V del libro quinto del codice civile, comporta anche il fallimento dei soci, pur se non persone fisiche, illimitatamente responsabili. Il fallimento dei soci di cui al comma primo non può essere dichiarato decorso un anno dallo scioglimento del rapporto sociale o dalla cessazione della responsabilità illimitata anche in caso di trasformazione, fusione o scissione, se sono state osservate le formalità per rendere noti ai terzi i fatti indicati. La dichiarazione di fallimento è possibile solo se l'insolvenza della società attenga, in tutto o in parte, a debiti esistenti alla data della cessazione della responsabilità illimitata. Il tribunale, prima di dichiarare il fallimento dei soci illimitatamente responsabili, deve disporne la convocazione a norma dell'articolo 15».

Il fallimento in estensione riguarda, dunque, i soci illimitatamente responsabili di società in nome collettivo, in accomandita semplice e in accomandita per azioni. L'istituto non si fonda sull'insolvenza dei singoli membri della compagine sociale, bensì presuppone: la dichiarazione di fallimento di una società rientrante in una delle tipologie sopra richiamate; la sussistenza del vincolo sociale e la responsabilità illimitata del socio; la mancata cessazione da più di un anno del vincolo sociale o della responsabilità illimitata; la correlazione fra l'insolvenza della società e le obbligazioni assunte nel periodo in cui sussistevano il rapporto sociale e la responsabilità illimitata (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 25 giugno 2024, n. 17546).

La ratio dell'istituto si rinviene, da un lato, nella tutela dei creditori e, dunque, nel rafforzamento della «garanzia generale delle obbligazioni contratte dalla società, attraverso il patrimonio individuale dei soci» (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 12 novembre 2008, n. 27013), funzione invero già assolta dalla responsabilità solidale illimitata. Da un altro lato, essa si ravvisa, soprattutto, nel creare un deterrente nei confronti dei soci che, al fine di evitare il proprio fallimento, sono indotti a adempiere subito alle obbligazioni sociali, così prevenendo il rischio del fallimento della società.

5.2.- Nel regolare il fallimento in estensione, l'art. 147 della legge fallimentare dispone, al terzo comma, che il giudice deve convocare i soci illimitatamente responsabili prima di dichiararne il fallimento.

Tale previsione - come meglio si preciserà in seguito (infra, punti 5.4. e 7.2. del Considerato in diritto) - si presta astrattamente a due possibili interpretazioni: quella secondo cui i soci illimitatamente responsabili devono essere convocati solo nel giudizio che conduce alla dichiarazione del loro fallimento in estensione, in quanto debitori fallendi in quel giudizio, ovvero quella secondo cui gli stessi devono essere convocati anche nel giudizio sul fallimento della società, al fine di consentire loro di interloquire sui presupposti del possibile fallimento in estensione.

Il contenuto precettivo dell'art. 147, terzo comma, della legge fallimentare deve tenere conto di quanto statuito dalla giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 110 del 1972 e n. 142 del 1970), sebbene in un contesto ordinamentale in parte diverso da quello in esame, in quanto antecedente al d.lgs. n. 5 del 2006.

In particolare, questa Corte aveva rilevato che «il diritto di difesa [doveva] essere garantito anche nella prima fase della procedura fallimentare, sia pure compatibilmente con le finalità di tutela dell'interesse pubblico a cui essa è preordinata, per dar modo ai soci illimitatamente responsabili di contrastare con l'eventuale ausilio di difensori, in confronto della società e dei creditori istanti (ed a ciascuno dei soci in confronto degli altri), la veridicità dell'asserito stato di insolvenza e l'assoggettabilità all'esecuzione fallimentare» (sentenza n. 110 del 1972). Per questo aveva ravvisato nell'art. 147, primo comma, della legge fallimentare, nella versione antecedente al 2006, un vulnus ai principi costituzionali, nella parte in cui non prevedeva che il tribunale dovesse «ordinare la comparizione in camera di consiglio dei soci illimitatamente responsabili nei cui confronti produce effetto la sentenza che dichiara il fallimento della società con soci a responsabilità illimitata, perché detti soci possano esercitare il diritto di difesa».

5.3.- A seguito della riforma introdotta con l'art. 4 del d.lgs. n. 5 del 2006, che ha sostituito il precedente art. 6 della legge fallimentare, stabilendo che «[i]l fallimento è dichiarato su ricorso del debitore, di uno o più creditori o su richiesta del pubblico ministero», il giudice non può più disporre d'ufficio il fallimento e, dunque, neanche quello in estensione dei soci illimitatamente responsabili nell'ambito del giudizio sul fallimento della società. Di conseguenza, può verificarsi, più di frequente rispetto al passato, che il fallimento in estensione non venga dichiarato insieme a quello della società, bensì in un giudizio successivo alla dichiarazione di fallimento dell'ente.

La scissione fra il giudizio che accerta il fallimento della società e quello relativo al fallimento in estensione può riguardare, dunque, non solo - com'è fisiologico - i soci occulti o la società occulta (art. 147, commi quarto e quinto, della legge fallimentare, nuovo testo), ma anche i soci illimitatamente responsabili che, all'atto dell'introduzione del giudizio sul fallimento della società, risultano palesi.

Nondimeno, la giurisprudenza di legittimità ha escluso che tali soci si possano considerare litisconsorti necessari nel giudizio sul fallimento della società (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenze 8 settembre 2016, n. 17765 e 7 giugno 2007, n. 13357; ordinanza 14 giugno 2021, n. 16777). Parimenti, la Corte di cassazione ha ritenuto che i soci illimitatamente responsabili non si possano qualificare, ai fini della loro convocazione, come debitori fallendi nel giudizio sul fallimento della società, se il loro fallimento in estensione non viene chiesto in quel medesimo giudizio (Cass., n. 16777 del 2021).

5.4.- Da tali decisioni si è inferito che non sussiste un dovere di convocare i soci nel giudizio che dichiara il fallimento della società, se contestualmente non viene dichiarato anche il fallimento in estensione.

Di riflesso, nell'interpretazione dell'art. 147, terzo comma, della legge fallimentare è prevalsa una sua identificazione con il precetto dell'art. 15, terzo comma, della medesima legge, che già prevede, in generale, il dovere di convocare i debitori fallendi nello specifico giudizio. Se, infatti, il dovere di convocazione dei soci illimitatamente responsabili rileva solo nell'ambito delle procedure in cui sia chiesto il loro fallimento in estensione, esso opera rispetto a soggetti autonomamente qualificabili come debitori fallendi. Di qui la sostanziale sovrapposizione dell'art. 147, terzo comma, della legge fallimentare con quanto già statuito dal citato art. 15, terzo comma, cui la prima disposizione fa espresso rinvio.

Secondo l'interpretazione accolta dalla giurisprudenza di legittimità, difettando un dovere di convocazione dei soci illimitatamente responsabili nel giudizio sul fallimento della società, salvo che in quel giudizio non sia stato chiesto anche il loro fallimento in estensione, i soci palesi, non diversamente da quelli occulti, possono interloquire sui presupposti del fallimento della società solo a posteriori attraverso il reclamo (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenze 27 marzo 2017, n. 7769 e 7 dicembre 2012, n. 22263; ordinanze 5 maggio 2022, n. 14179 e n. 16777 del 2021).

In particolare, viene loro riconosciuta una tutela successiva consistente nella facoltà di impugnare la sentenza dichiarativa del fallimento, entro il termine di trenta giorni dalla data di iscrizione di detta sentenza nel registro delle imprese (art. 18, quarto comma, della legge fallimentare).

L'onere di verificare su tale registro le vicende concernenti la società e, nello specifico, il suo eventuale fallimento, grava sui soci, proprio in quanto consapevoli di essere soggetti al fallimento in estensione. Questo - nella ricostruzione giurisprudenziale - basta a preservare il carattere effettivo del diritto di difesa.

5.5.- Il descritto assetto di interessi pare confermato anche rispetto alla liquidazione giudiziale, di cui all'art. 256 del decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14 (Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155), data la sostanziale corrispondenza fra quest'ultima disposizione e l'art. 147 della legge fallimentare.

6.- Tanto premesso, questa Corte è chiamata a pronunciarsi non sulla legittimità in generale di tale sistema, ritraibile dall'interpretazione della norma censurata operata dalla giurisprudenza di legittimità, con riguardo alle società commerciali, bensì soltanto rispetto a un più delimitato perimetro, circoscritto dal peculiare contesto nel quale si colloca la vicenda oggetto del giudizio principale.

Il rimettente lamenta la lesione del diritto al contraddittorio dei soci di una società semplice che, pur essendo ab initio palesi, non sono stati convocati nel giudizio concernente il fallimento dell'ente, nel corso del quale è stata accertata l'assoggettabilità alla procedura concorsuale della società semplice e di riflesso la fallibilità dei soci.

In particolare, il giudice a quo rileva l'impossibilità per questi ultimi di difendersi nel giudizio che, attraverso l'accertamento della natura commerciale della società semplice, ha attribuito loro una qualifica sostanziale diversa da quella formale: da soci di una società semplice non fallibile a soci fallibili soggetti alla disciplina delle società in nome collettivo irregolare.

I dubbi sollevati in riferimento agli artt. 24 e 111 Cost. si concentrano, dunque, sulla ritenuta illegittimità costituzionale dell'art. 147 della legge fallimentare, nella parte in cui non prevede la inopponibilità ai soci illimitatamente responsabili di una società semplice dell'accertamento della loro fallibilità, indirettamente effettuato nel giudizio sul fallimento della società, nel quale i soci, benché palesi, non sono stati convocati.

7.- Così delimitato il thema decidendum, le questioni non sono fondate nei termini di seguito illustrati, essendo possibile un'interpretazione adeguatrice della disposizione censurata orientata alla conformità ai parametri evocati.

7.1.- Ai sensi dell'art. 2249, primo comma, del codice civile, per poter svolgere un'attività commerciale occorre avvalersi di uno dei tipi regolati nei Capi III e seguenti del Titolo V del Libro quinto del codice civile. Pertanto, l'attività commerciale non può essere effettuata da un ente che abbia la forma della società semplice e, ove ciò si verifichi, quest'ultima viene assoggettata alla disciplina prevista per le società in nome collettivo.

Occorre, inoltre, precisare che, nel caso della società semplice agricola, essa può esercitare anche attività dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione dei prodotti agricoli, purché connesse, ai sensi dell'art. 2135, terzo comma, cod. civ., a quelle di coltivazione, di allevamento e di silvicoltura e sempre che non si accerti il carattere prevalente di tali attività rispetto a quelle agricole (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 22 febbraio 2019, n. 5342; ordinanza 7 febbraio 2023, n. 3647).

In tale ultimo caso, l'ente viene assoggettato alla disciplina delle società in nome collettivo. La conseguenza è che l'ente non va più esente dal fallimento e i suoi soci illimitatamente responsabili sono esposti al fallimento in estensione, benché l'art. 147 della legge fallimentare, per ovvie ragioni, non menzioni al primo comma la società semplice (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenze 8 novembre 2019, n. 28984 e 8 agosto 2016, n. 16614; sezione sesta civile, ordinanza 21 gennaio 2021, n. 1049).

7.2.- Ne deriva che, se di norma il presupposto per applicare l'art. 147 della legge fallimentare è che i soci illimitatamente responsabili partecipino a una società rientrante in uno dei tipi societari indicati al primo comma, nel caso della società semplice occorre un accertamento sostanziale circa la prevalente attività commerciale svolta dalla società che può superare ciò che risulta dal dato formale.

Ebbene, poiché tale accertamento viene effettuato nel giudizio sul fallimento della società, non si può far gravare sui soci, non convocati in quel medesimo giudizio, l'onere di verificare sul registro delle imprese l'eventuale fallimento di un ente, che normalmente non fallisce.

Imporre un simile onere avrebbe evidenti riverberi sull'effettività del diritto di difesa.

La possibilità per i soci illimitatamente responsabili di difendersi rispetto alla loro stessa fallibilità sarebbe, infatti, affidata alla facoltà di impugnare la sentenza dichiarativa del fallimento della società entro trenta giorni dalla sua iscrizione nel registro delle imprese, e comunque entro il termine di cui all'art. 327, primo comma, del codice di procedura civile, sul presupposto che essi siano tenuti a verificare l'eventuale fallimento di un ente che, in quanto società semplice, non dovrebbe fallire.

Né può presumersi che tutti i soci di una società semplice siano di fatto informati delle vicende relative all'ente o che debbano necessariamente avere conoscenza della circostanza che la società semplice ha esercitato nel complesso attività commerciali tali da essere valutate, all'esito di un accertamento giudiziale, prevalenti rispetto a quelle consentite per simile tipologia di ente.

Su basi così fragili non può radicarsi l'effettività del diritto di difesa rispetto a un accertamento che condiziona la possibilità di dichiarare il fallimento del socio, con tutti gli effetti che ne derivano anche sul piano personale (artt. 48 e 49 della legge fallimentare).

7.3.- Ove, dunque, sia proprio il giudizio sul fallimento della società ad accertare la fallibilità dell'ente e, quindi, dei soci, si deve ritenere che il giudice debba convocare questi ultimi, ai sensi dell'art. 147, terzo comma, della legge fallimentare, sin dal giudizio che accerta il loro essere esposti al fallimento in estensione.

Né questo mette in discussione il loro diritto a essere convocati anche nel giudizio in cui si domanda il fallimento in estensione, posto che simile diritto si desume comunque già dall'art. 15, terzo comma, della legge fallimentare, che prevede la convocazione di chi ha la qualifica di debitore fallendo; e tale, senza dubbio, è il debitore fallendo in estensione.

Di conseguenza, dove l'art. 147, terzo comma, della legge fallimentare prescrive che «prima di dichiarare il [loro] fallimento» i soci illimitatamente responsabili devono essere convocati, esso deve interpretarsi nel senso che, «prima di dichiarare il [loro] fallimento», gli stessi devono essere stati convocati non solo nel giudizio in cui viene dichiarato il loro fallimento, ma anche in quello che accerta, per ragioni sostanziali, la fallibilità dell'ente, che costituisce presupposto della fallibilità dei soci. In mancanza, non si può far gravare su di loro l'onere di verificare sul registro delle imprese il fallimento di una società che, di norma, non è esposta al fallimento.

Il richiamato dovere di convocazione non è funzionale alla emanazione della sentenza dichiarativa del fallimento della società, ma condiziona la possibilità di opporre ai soci, nell'eventuale giudizio introdotto in via successiva ai sensi dell'art. 147 della legge fallimentare e al solo fine di poter pronunciare il fallimento in estensione, la loro qualifica sostanziale di soggetti fallibili. In difetto di tale convocazione, il relativo accertamento potrà essere effettuato, incidenter tantum, nello stesso giudizio di cui all'art. 147 della legge fallimentare, al mero scopo di decidere il fallimento in estensione dei singoli soci.

7.4.- D'altro canto, poiché il dovere di convocazione dei soci palesi di una società semplice serve a preservare il loro diritto di difesa in merito alla qualifica di soci fallibili, ben si potrà accertare che il soggetto fallendo, pur se non convocato nel precedente giudizio in qualità di socio, ha di fatto pienamente esercitato quel diritto.

Questo può emergere nei casi in cui il socio fallendo sia stato convocato o comunque sia intervenuto nel giudizio sul fallimento della società semplice, anche solo nella qualità di rappresentante legale dell'ente, così come nelle ipotesi in cui il socio abbia proposto reclamo contro la pronuncia dichiarativa del fallimento della società semplice senza opporsi all'accertamento della fallibilità dell'ente o risultando sul punto soccombente.

Fuori dalle citate ipotesi, la fallibilità della società semplice non sarà opponibile al socio nel successivo giudizio concernente il fallimento in estensione e potrà in quel contesto essere valutata al mero fine di decidere il fallimento del socio.

8.- In conclusione, non sono fondate, nei termini innanzi precisati, le questioni di legittimità costituzionale sollevate, in riferimento agli artt. 24 e 111 Cost., dell'art. 147 legge fallimentare, in quanto applicabile alle società semplici.

I soci palesi di una società semplice hanno diritto a essere convocati nel giudizio sul fallimento della società, che indirettamente accerta la loro fallibilità sostanziale, anche se nel medesimo giudizio non è stato chiesto il loro fallimento in estensione. In mancanza, l'accertamento della loro fallibilità non è opponibile nel giudizio di cui all'art. 147 della legge fallimentare, salvo che, di fatto, abbiano già esercitato rispetto a tale accertamento il loro diritto di difesa.

P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 147 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), come sostituito dall'art. 131 del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell'articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80), sollevate, in riferimento agli artt. 24 e 111 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Matera, sezione fallimentare, con l'ordinanza indicata in epigrafe.