Corte costituzionale e ragionevolezza del diritto penale:
alcuni casi recenti

Alessandro Oddi (*)

1. Premessa

È ben noto come il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.) abbia ormai assunto un ruolo primario nel sindacato svolto dalla Corte costituzionale sulle scelte del legislatore penale. Viepiù sollecitata in tal senso dai giudici a quibus, la Corte si richiama a quel principio per vagliare la coerenza intrinseca ed estrinseca, l'adeguatezza e la proporzionalità sia delle diverse fattispecie incriminatrici sia del relativo regime sanzionatorio (1).

È parimenti noto, tuttavia, che gli esiti di tale controllo risultano difficilmente prevedibili, in quanto legati alla mutevole individuazione del discrimen tra quel che rientra nella discrezionalità legislativa e quel che, per converso, è manifestamente irragionevole, irrazionale, illogico, arbitrario o ingiusto.

Ciò spiega come mai, accanto a pronunce caratterizzate da uno spiccato self-restraint, se ne rinvengano altre che propendono per uno scrutinio stretto, spesso congenere a un apprezzamento di merito. Alcuni casi tratti dalla recente giurisprudenza lo dimostrano in maniera emblematica.

2. La sent. n. 99 del 2017

Fra le pronunce riconducibili al primo filone, assai significativa è la sent. 10 maggio 2017, n. 99 (Pres. Grossi, Red. Lattanzi), che dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 31, comma 1, della l. n. 646 del 1982 e 76, comma 7, del d.lgs. n. 159 del 2011, i quali sanzionano, con la reclusione da due a sei anni e con una multa, coloro che, condannati con sentenza definitiva per delitti di criminalità organizzata o per trasferimento fraudolento di valori, ovvero sottoposti con provvedimento definitivo a misura di prevenzione personale, omettano di comunicare alla polizia tributaria variazioni del proprio patrimonio, ancorché queste derivino da operazioni soggette a forme di pubblicità legale.

Pur respingendo le censure del giudice rimettente (incentrate sulla violazione degli artt. 3, 13, primo comma, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost.), la Corte ritiene «auspicabile l'introduzione, resa possibile dall'attuale sviluppo tecnologico, di un sistema automatico di comunicazione alla polizia tributaria degli atti, soggetti a pubblicità legale, che determinano variazioni nel patrimonio delle persone considerate pericolose per le condanne riportate o per l'assoggettamento a misure di prevenzione. In questo modo, per tali atti, potrebbe essere superata l'attuale regolamentazione, fonte, a un tempo, di ritardi nella conoscenza delle variazioni patrimoniali e di gravose responsabilità penali, che [...] danno luogo a "un indubbio profilo di criticità del paradigma punitivo" (2), al quale il legislatore dovrebbe porre rimedio».

3. Le sentt. nn. 143 del 2014, 56 del 2016, 74 del 2016 e 236 del 2016

Appartengono al secondo filone, tra le più importanti:

- la sent. 28 maggio 2014, n. 143 (Pres. Silvestri, Red. Frigo), che dichiara l'incostituzionalità dell'art. 157, comma 6, c.p., nella parte in cui prevede il raddoppio del termine di prescrizione del reato di incendio colposo (art. 449 c.p., in riferimento all'art. 423 c.p.).

Nella parte motiva si sottolinea come, per effetto delle modifiche introdotte dalla l. n. 251 del 2005 (c.d. "ex Cirielli"), il reato di incendio doloso si prescrive in sette anni, mentre quello di incendio colposo si prescrive in dodici anni. Ne deriva una palese «anomalia sistematica», giacché «[s]iffatto regime ribalta la scala di gravità delle due figure criminose: l'ipotesi meno grave - secondo la valutazione legislativa espressa nelle comminatorie di pena, in coerenza con il rapporto sistematico che intercorre tra il dolo e la colpa - resta infatti soggetta ad un trattamento assai più rigoroso, sul versante considerato, rispetto alla corrispondente ipotesi più grave, con inevitabile violazione dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.)». È vero che la fissazione dei termini della prescrizione («istituto di natura sostanziale») attiene alla discrezionalità del legislatore; nondimeno questa «deve essere pur sempre esercitata [...] nel rispetto del principio di ragionevolezza e in modo tale da non determinare ingiustificabili sperequazioni di trattamento tra fattispecie omogenee, come invece è avvenuto nel caso in esame», trattandosi di reati che differiscono soltanto per l'elemento soggettivo. Né può dirsi, d'altronde, che l'incendio colposo susciti un più elevato allarme sociale o richieda un maggior impegno probatorio rispetto all'incendio doloso;

- la sent. 23 marzo 2016, n. 56 (Pres. Criscuolo, Red. Coraggio), che dichiara l'incostituzionalità dell'art. 181, comma 1-bis, del d.lgs. n. 42 del 2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), là dove è comminata una pena più o meno rigorosa, a seconda che la violazione incida su beni sottoposti a vincolo provvedimentale o su beni sottoposti a vincolo legale.

Qui la Consulta evidenzia - inter alia - come la regolamentazione delle due fattispecie abbia subito, nell'arco di pochi anni, modifiche altalenanti, essendo state colpite dapprima più severamente le violazioni incidenti su beni vincolati per legge, poi entrambe allo stesso modo, e da ultimo più severamente le violazioni incidenti su beni vincolati in via provvedimentale: «[s]i è dunque in presenza di una legislazione ondivaga, non giustificata né da sopravvenienze fattuali né dal mutare degli indirizzi culturali di fondo della normativa in materia; e già questo è sintomo di irragionevolezza della disciplina attuale. // Tale irragionevolezza è resa poi manifesta dalla rilevantissima disparità tanto nella configurazione dei reati (nell'un caso delitto, nell'altro contravvenzione), quanto nel trattamento sanzionatorio, in relazione sia alla entità della pena che alla disciplina delle cause di non punibilità ed estinzione del reato»;

- la sent. 7 aprile 2016, n. 74 (Pres. Frigo, Red. Lattanzi), che dichiara l'incostituzionalità dell'art. 69, comma 4, c.p., nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante ad effetto speciale di cui all'art. 73, comma 7, del d.P.R. n. 309 del 1990 (ravvedimento collaborativo post delictum nei reati in materia di sostanze stupefacenti e psicotrope) sulla recidiva reiterata ex art. 99, comma 4, c.p. (3)

Nella sentenza si legge che «la norma censurata impedisce alla disposizione premiale di produrre pienamente i suoi effetti e così ne frustra in modo manifestamente irragionevole la ratio, perché fa venire meno quell'incentivo sul quale lo stesso legislatore aveva fatto affidamento per stimolare l'attività collaborativa. // Va inoltre considerato che tra i criteri da cui in genere può desumersi la capacità a delinquere del reo, e dei quali il giudice deve tener conto, oltre che nella determinazione della pena, anche nella comparazione tra circostanze eterogenee concorrenti, vi è la condotta del reo contemporanea o susseguente al reato (art. 133, secondo comma, numero 2, cod. pen.), la cui rilevanza nel caso in oggetto verrebbe totalmente disconosciuta dalla norma impugnata. È anche sotto questo aspetto che la scelta normativa di escludere, nell'ipotesi prevista dall'art. 99, quarto comma, cod. pen., il potere del giudice di diminuire la pena "per chi [dopo aver commesso un reato in materia di sostanze stupefacenti] si adopera per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori" si pone in manifesto contrasto con il principio di ragionevolezza. // Si attribuisce, infatti, una rilevanza insuperabile alla precedente attività delittuosa del reo - quale sintomo della sua maggiore capacità a delinquere - rispetto alla condotta di collaborazione successiva alla commissione del reato, benché quest'ultima possa essere in concreto ugualmente, o addirittura prevalentemente, indicativa dell'attuale capacità criminale del reo e della sua complessiva personalità. // È vero che l'attenuante di cui all'art. 73, comma 7, del d.P.R. n. 309 del 1990 non richiede la spontaneità della condotta collaborativa e non comporta necessariamente una resipiscenza, perché può essere il frutto di un mero calcolo, ma è altrettanto vero che si tratta in ogni caso di una condotta significativa, anche perché comporta il distacco dell'autore del reato dall'ambiente criminale nel quale la sua attività in materia di stupefacenti era inserita e trovava alimento, e lo espone non di rado a pericolose ritorsioni, determinando così una situazione di fatto tale da indurre in molti casi un cambiamento di vita».

In definitiva, «la rigida presunzione di capacità a delinquere desunta dall'esistenza di una recidiva reiterata "è inadeguata ad assorbire e neutralizzare gli indici contrari, che possono desumersi, a favore del reo, dalla condotta susseguente, con la quale la recidiva reiterata non ha alcun necessario collegamento. Mentre la recidiva rinviene nel fatto di reato il suo termine di riferimento, la condotta susseguente si proietta nel futuro e può segnare una radicale discontinuità negli atteggiamenti della persona e nei suoi rapporti sociali" (4), rendendo privo di ogni razionale giustificazione l'effetto preclusivo riconosciuto alla recidiva reiterata»;

- infine, la sent. 10 novembre 2016, n. 236 (Pres. Grossi, Red. Zanon), che dichiara l'incostituzionalità dell'art. 567, comma 2, c.p., nella parte in cui punisce l'alterazione di stato mediante falso con la pena della reclusione da cinque a quindici anni, anziché con quella - contemplata dal primo comma del medesimo articolo per l'omologo reato di alterazione di stato mediante sostituzione di neonato - della reclusione da tre a dieci anni.

Nel «considerato in diritto», la Corte rileva la «manifesta sproporzione della cornice edittale», tale da incidere sulla stessa finalità rieducativa della pena (art. 27 Cost.). Ed invero, il delitto de quo, «diversamente da altre ipotesi criminose in danno di minori, non reca in sé una presunzione assoluta di pregiudizio per i loro interessi morali e materiali» (5), onde non si può «escludere che il reo sia guidato dal fine, non già di pregiudicare, bensì di favorire, sia pur commettendo un reato, l'interesse del neonato». Nel qual caso, «la sproporzione del trattamento sanzionatorio si rivela con nettezza: giacché, pur indirizzandosi verso il minimo edittale, il giudice è comunque costretto a infliggere pene di entità eccessiva, che non sono in ragionevole rapporto con il disvalore della condotta»; il che «ingenera nel condannato la convinzione di essere vittima di un ingiusto sopruso».

Attesa la «manifesta irragionevolezza intrinseca della risposta sanzionatoria stabilita dalla norma censurata», la Corte ritiene necessario «ricondurre a coerenza» il sistema, senza tuttavia «sovrapporre la propria discrezionalità a quella del Parlamento rappresentativo», ma rivolgendo lo sguardo al secondo comma del medesimo art. 567 c.p. Benché autonomi, infatti, i due reati mirano a tutelare il medesimo bene giuridico (la veridicità dello status filiationis). Quel che cambia sono soltanto le modalità esecutive della condotta criminosa. Ma queste «non esprimono, in sé stesse, connotazioni di disvalore tali da legittimare una divergenza di trattamento sanzionatorio. Ed anzi, tale divergenza, che si traduce in una cornice edittale marcatamente più severa nel caso del secondo comma, appare manifestamente irragionevole».

Dunque ci troviamo dinanzi a «uno scrutinio svolto entro il perimetro conchiuso dal medesimo articolo, che, anche per questa ragione, non conduce a sovrapporre, dall'esterno, una dosimetria sanzionatoria eterogenea rispetto alle scelte legislative, ma giudica "per linee interne" la coerenza e la proporzionalità delle sanzioni rispettivamente attribuite dal legislatore a ciascuna delle due fattispecie di cui si compone il reato di alterazione di stato»; scrutinio il cui esito «consiste nel parificare il trattamento sanzionatorio delle due fattispecie nelle quali si articola l'unitario art. 567 cod. pen., trattandosi, appunto, di utilizzare coerentemente "grandezze già rinvenibili nell'ordinamento"».

4. Bibliografia

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G. DODARO, Uguaglianza e diritto penale. Uno studio sulla giurisprudenza costituzionale, Milano, 2012.

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J. LUTHER, voce Ragionevolezza delle leggi, in Dig. disc. pubbl., XII, Torino, 1997, 341 ss.

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L. PALADIN, voce Ragionevolezza (principio di), in Enc. dir., Agg., I, Milano, 1997, 899 ss.

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A.M. SANDULLI, Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza costituzionale, in Scritti giuridici, I, Napoli, 1990, 678 ss.

G. SCACCIA, Gli "strumenti" della ragionevolezza nel giudizio costituzionale, Milano, 2000.

G. VASSALLI (a cura di), Diritto penale e giurisprudenza costituzionale, Napoli, 2006.

Note

(*) Dottore di ricerca in diritto costituzionale nell'Università degli studi di Ferrara.

(1) Cfr., da ultimo, la sent. 13 luglio 2017, n. 179 (Pres. Grossi, Red. Cartabia), §§ 4 e ss. in diritto.

(2) Sent. 8 aprile 2014, n. 81 (Pres. Silvestri, Red. Frigo), § 5 in diritto.

(3) V. anche le sentt. 17 luglio 2017, n. 205 (Pres. Grossi, Red. Lattanzi), 18 aprile 2014, n. 106 (Pres. Silvestri, Red. Lattanzi), 26 febbraio 2014, n. 105 (Pres. Silvestri, Red. Lattanzi), e 15 novembre 2012, n. 251 (Pres. Quaranta, Red. Lattanzi).

(4) Sent. 10 giugno 2011, n. 183 (Pres. Maddalena, Red. Lattanzi), § 6 in diritto.

(5) Sent. 23 febbraio 2012, n. 31 (Pres. Quaranta, Red. Criscuolo), § 3.1 in diritto.

Data di pubblicazione: 4 settembre 2017.