Consiglio di Stato
Sezione VI
Sentenza 27 aprile 2017, n. 1960

Presidente: Santoro - Estensore: Buricelli

FATTO E DIRITTO

1. Con la sentenza in epigrafe il Tar del Lazio ha accolto il ricorso della s.p.a. Acqua Minerale San Benedetto diretto all'annullamento del provvedimento n. 20559, adottato nell'adunanza del 10 dicembre 2009, e notificato alla società il 13 gennaio 2010, con il quale l'Autorità, a conclusione del procedimento PS4026, ha qualificato come pratica commerciale scorretta quella posta in essere dalla San Benedetto e consistita nella diffusione, attraverso la stampa quotidiana e il proprio sito internet, di messaggi pubblicitari relativi all'acqua minerale naturale San Benedetto con i quali veniva evidenziato lo sforzo che il professionista avrebbe sostenuto nella riduzione delle emissioni dannose connesse alla produzione delle bottiglie in Pet.

In particolare (v. punti da 21 a 27 e da 45 a 62 del provvedimento impugnato in primo grado; sulle conclusioni si vedano, soprattutto, i punti da 60 a 62), l'Antitrust ha accertato, ai sensi degli artt. 20 e 21, comma 1, lett. b), del codice del consumo, la scorrettezza dei messaggi in questione per ciò che riguarda le affermazioni rivolte a enfatizzare la compatibilità ambientale della nuova linea di bottiglie utilizzate per la commercializzazione dell'acqua minerale San Benedetto e, quindi, a caratterizzare in modo netto il prodotto rispetto a quelli concorrenti in relazione a una caratteristica percepita dai consumatori come fondamentale nelle proprie scelte di acquisto, in quanto, nei termini vantati, sfornite di qualsiasi evidenza documentale attendibile idonea a renderle verificabili.

L'Autorità ha vietato la diffusione ulteriore dei messaggi pubblicitari e ha comminato alla società una sanzione amministrativa pecuniaria di 70.000 euro.

2. Esigenze di sintesi nella redazione dei provvedimenti giurisdizionali (arg. ex art. 3, comma 2, del c.p.a.) suggeriscono di non ripercorrere in dettaglio l'intera vicenda, nel suo svolgersi, a partire dalla segnalazione con la quale, nel maggio del 2009, l'Associazione "Avvocati dei consumatori" aveva denunciato all'AGCM la (presunta) scorrettezza, sotto forma di pratica ingannevole, della campagna pubblicitaria con la quale la San Benedetto affermava il contenimento nel consumo di plastica delle bottiglie del 30% e dunque di energia nella produzione pari a 16.000 ettari di nuovo bosco.

L'associazione evidenziava che tali affermazioni apparivano apodittiche e prive di riscontri scientifici.

Il messaggio a mezzo stampa era incentrato sulla valorizzazione delle caratteristiche di ecosostenibilità della bottiglia in plastica utilizzata per la commercializzazione dell'acqua minerale naturale.

Tale bottiglia, denominata "eco friendly", veniva pubblicizzata con la dicitura "- Plastica + Natura".

Nei messaggi si specificava che dette bottiglie erano "prodotte con meno plastica, meno energia e più amore per l'ambiente", risultato reso possibile dai "costanti investimenti in ricerca che dal 1983 hanno permesso di ridurre almeno del 30% la quantità di plastica impiegata e quindi di contenere il consumo di energia".

Inoltre, con un asterisco posto in corrispondenza della vantata riduzione di plastica, si rinviava a un testo a piè di pagina che specificava: "San Benedetto dal 1983 ha ridotto l'impiego di plastica per singola bottiglia in quantità pari al 58% per la 0,5 L, 32% per la 1,5 L e 43% per la 2 L".

Ancora, i messaggi a mezzo stampa specificavano che le ricerche effettuate dal professionista nel corso degli ultimi 25 anni avevano permesso "di risparmiare, nella produzione annua dei tre formati di acqua minerale, una quantità di energia equivalente alla CO2 fissata da 16.000 ettari di nuovo bosco impiantato", ovvero "... tanta energia da poter illuminare un paese di 10.000 abitanti per un anno intero".

L'Autorità avviava il procedimento rilevando il possibile contrasto dei messaggi descritti con gli artt. 20 e 21, lett. b), del codice del consumo, con riferimento, in particolare, alla possibile ingannevolezza dei messaggi rispetto ai risultati ottenuti dal professionista nella riduzione del peso delle bottiglie utilizzate e al conseguente risparmio energetico.

Contestualmente, venivano richieste alla San Benedetto informazioni e documentazione giustificativa idonee a comprovare le affermazioni contenute nei messaggi.

In data 10 dicembre 2009 l'Autorità, dopo avere acquisito il parere dell'Agcom, la quale riteneva che la pratica commerciale in esame non risultasse scorretta ai sensi degli artt. 20, 21 e 23 del codice del consumo, accertava la scorrettezza dei messaggi e ne vietava la diffusione ulteriore, sanzionando pecuniariamente la società.

3. Il Tar ha accolto il primo motivo di ricorso e ha annullato il provvedimento sanzionatorio, a spese compensate, essenzialmente per difetto di istruttoria, carenza di motivazione ed errore nei presupposti di fatto poiché l'Antitrust, nell'escludere che la documentazione prodotta dalla società fosse idonea a comprovare la riduzione progressiva del peso delle bottiglie, avrebbe ignorato in realtà la documentazione tecnica, elaborata dalla società e presentata all'Autorità, sulla diminuzione del 30% della quantità di plastica impiegata per le bottiglie, sol perché proveniente dalla società interessata, essendosi limitata ad affermare che l'elaborazione tecnica aziendale era insufficiente e inattendibile, sicché i vanti "prestazionali" e "ambientali" presenti nei messaggi in esame apparivano, nei termini pubblicizzati, utilizzati in modo scorretto in base a quanto stabilito nel codice del consumo, e ciò a causa della omessa produzione tempestiva di dati, relazioni, studi, approfondimenti e certificazioni anche da parte di un ente terzo, senza però compiere alcun riscontro istruttorio tecnico autonomo, pur fattibile.

Per il Tar, al fine di giustificare la qualificazione della pratica commerciale come scorretta e di irrogare la sanzione, non basta affermare che la documentazione fornita dalla società non è accompagnata da approfondimenti scientifici e/o da certificazioni di enti terzi, posto che la provenienza della documentazione tecnica dalla società è un elemento di per sé neutro, rispetto alla valutazione da compiersi sull'attendibilità dei dati contenuti nella documentazione medesima, evidente essendo che l'inattendibilità di un documento non può desumersi dalla sola circostanza che esso provenga dall'interessato. Né la sanzione correlata alla scorrettezza di una pratica commerciale può essere applicata sol perché il privato non ha soddisfatto in modo compiuto una richiesta dell'Autorità procedente non adempiendo, ad esempio, all'invito di fornire una certificazione tecnica terza, se non al termine della campagna pubblicitaria.

Se è vero che l'accertamento della scorrettezza della pratica commerciale può formarsi anche per effetto di elementi indiziari, purché univoci e concludenti, quel che è errato per il Tar è proprio il metodo seguito dall'Antitrust che ha finito con l'invertire l'onere della prova, posto che l'accertamento sulla pratica commerciale scorretta grava sull'AGCM la quale, pur potendolo fare, non ha compiuto una propria istruttoria tecnica, né mediante una acquisizione in via autonoma di elementi oggettivi, né rivolgendo alla società una richiesta ulteriore di chiarimenti, ma ha desunto il carattere non veridico dell'asserzione sulla diminuzione di peso delle bottiglie dalla mera mancata trasmissione di documentazione e di approfondimenti tecnici ulteriori non provenienti dall'interessato, e dalla non immediata comprensibilità di alcuni dati.

Ad avviso del Collegio di primo grado, l'Autorità ha valorizzato in maniera ingiustificata la circostanza che la società non era stata in grado di fornire i dati, a essa richiesti, volti a comprovare la riduzione del peso delle bottiglie a partire dal 1983.

Inoltre l'Agcom aveva reso un parere - condivisibile - con il quale aveva escluso profili di possibile scorrettezza della pratica commerciale.

4. L'Antitrust ha interposto appello.

Per l'Autorità, i "vanti prestazionali", specifici e quantificati, della società, sulla riduzione dell'impiego della plastica, non sono comprovati, sono privi di riscontro in evidenze documentali giustificative attendibili, idonee a renderli verificabili; il percorso logico-valutativo seguito dall'Autorità è corretto; il professionista non ha adempiuto all'onere informativo minimo imprescindibile; le prestazioni vantate sono oggettivamente non riscontrabili; la società ha richiesto una certificazione a un soggetto terzo in ordine all'impatto ambientale della propria produzione soltanto dopo l'avvio del procedimento; non si fa questione di provenienza interna dei dati, di per sé considerata: è decisiva, a sfavore della società, la circostanza che l'elaborazione interna non è databile, né è accompagnata da relazioni o studi tecnico scientifici approfonditi (conf. §§ 22, 46 e da 51 a 58 e da 60 a 62 della delibera impugnata in primo grado), malgrado la richiesta puntuale fatta in questo senso dall'AGCM in sede di avvio del procedimento, cui la società ha risposto con una tabella in "excel" sfornita di qualsiasi sostegno documentale attendibile, nonostante il carattere specifico e puntuale del vanto pubblicitario sulla riduzione progressiva del peso delle bottiglie; la richiesta d'informazioni è stata puntuale ma è rimasta ineseguita; seguendo l'impostazione del Tar, per sfuggire a sanzioni per pratiche scorrette basterebbe produrre documentazione interna appropriata - che si limiti a ribadire le medesime affermazioni contenute nei "claims" pubblicitari oggetto di istruttoria da parte dell'AGCM -, ancorché non suffragata da elementi tecnici specifici anche in risposta a contestazioni dell'Autorità e ancorché predisposta "ad hoc" dopo l'avvio dell'istruttoria. Inoltre l'AGCM si è motivatamente discostata (v. §§ da 46 a 58 del provvedimento) - cosa che ben può fare - dal parere dell'Agcom.

L'appellata, benché ritualmente e tempestivamente intimata, non si è costituita.

In prossimità dell'udienza di discussione del ricorso l'AGCM ha depositato una memoria confermando la richiesta di accoglimento dell'appello e di riforma della sentenza impugnata e all'udienza del 30 marzo 2017 la causa è passata in decisione.

5. L'appello è fondato e va accolto.

5.1. In via preliminare può essere utile richiamare, con la difesa dell'Autorità, gli Orientamenti del 25 maggio 2016 della Commissione europea per l'attuazione/applicazione della direttiva 2005/29/CE relativa alle pratiche commerciali sleali (in seguito, gli "Orientamenti"), volti a facilitare la corretta applicazione della direttiva 2005/29/CE relativa alle pratiche commerciali sleali delle imprese nei confronti dei consumatori nel mercato interno, direttiva alla quale il d.lgs. n. 206 del 2005 - codice del consumo, come integrato dai decreti legislativi nn. 145 e 146 del 2007, ha dato applicazione in ambito nazionale.

Si tratta di orientamenti che rielaborano e che sostituiscono i precedenti orientamenti nella versione del 2009 e che si applicano anche alle pratiche commerciali poste in essere nell'ambito della pubblicità (v. introduzione).

Essi, al p. 5.1, nel chiarire l'ambito di applicazione della Direttiva con riguardo alle asserzioni ambientali, specificano che i termini "asserzione ambientale" e "dichiarazione ecologica" si riferiscono alla pratica - nell'ambito di una comunicazione commerciale, del marketing o della pubblicità - di suggerire o in altro modo dare l'impressione che un prodotto o un servizio abbia un impatto positivo o sia privo di impatto sull'ambiente o sia meno dannoso per l'ambiente rispetto a prodotti o servizi concorrenti.

Ciò può essere dovuto alla sua composizione, al modo in cui è fabbricato o prodotto, al modo in cui può essere smaltito o alla riduzione del consumo di energia o dell'inquinamento attesa dal suo impiego.

Al p. 5.1 viene specificato che «Quando tali asserzioni non sono veritiere o non possono essere verificate, la pratica è di frequente definita greenwashing, ovvero appropriazione indebita di virtù ambientaliste finalizzata alla creazione di un'immagine "verde"».

A seconda delle circostanze, tale pratica può comprendere tutti i tipi di affermazioni, informazioni, simboli, loghi, elementi grafici e marchi, nonché la loro interazione con i colori, impiegati sull'imballaggio, sull'etichetta, nella pubblicità, su tutti i media (compresi i siti Internet), da qualsiasi organizzazione che si qualifichi come "professionista" e ponga in essere pratiche commerciali nei confronti dei consumatori.

La Direttiva 2005/29/CE non contiene disposizioni specifiche sulle asserzioni ambientali.

Tuttavia, prevede una base giuridica per assicurare che i professionisti non presentino asserzioni ambientali in modo sleale per i consumatori e si può sintetizzare in due principi essenziali: a) i professionisti devono presentare le loro dichiarazioni ecologiche in modo chiaro, specifico, accurato e inequivocabile, al fine di assicurare che i consumatori non siano indotti in errore (ai sensi dell'art. 6 e 7 della Direttiva) e b) i professionisti devono disporre di prove a sostegno delle loro dichiarazioni ed essere pronti a fornirle alle autorità di vigilanza competenti in modo comprensibile qualora la dichiarazione sia contestata (ai sensi dell'art. 12 della Direttiva).

Nei citati orientamenti (v. p. 5.1.5, pag. 120) è specificato, inoltre, che gli Stati membri attribuiscono agli organi giurisdizionali o amministrativi il potere: a) di esigere che il professionista fornisca prove sull'esattezza delle allegazioni fattuali connesse alla pratica commerciale; b) di considerare inesatte le allegazioni fattuali, se le prove richieste non siano state fornite o siano ritenute insufficienti dall'organo giurisdizionale o amministrativo.

L'art. 12 della Direttiva citata puntualizza che ogni dichiarazione (comprese le asserzioni ambientali) deve basarsi su prove che possano essere verificate dalle autorità competenti.

"I professionisti devono essere in grado di dimostrare l'esattezza delle asserzioni ambientali con prove adeguate. Di conseguenza, le dichiarazioni dovrebbero basarsi su prove attendibili, indipendenti, verificabili e generalmente riconosciute, che tengano conto dei metodi e dei risultati scientifici più recenti". Il fatto che l'onere della prova spetti al professionista rispecchia il principio sancito dall'art. 12, lett. a), della direttiva, secondo cui le autorità di vigilanza hanno la facoltà "di esigere che il professionista fornisca prove sull'esattezza delle allegazioni fattuali connesse alla pratica commerciale".

Per assicurare che le asserzioni ambientali siano comprovate - proseguono gli orientamenti -, i professionisti dovrebbero disporre delle prove necessarie a sostegno delle loro dichiarazioni dal momento in cui utilizzano le asserzioni, oppure essere certi di poterle ottenere e presentare su richiesta (pag. 121).

La finalità dell'obbligo di documentazione deve essere quella di assicurare che il professionista sia certo che le dichiarazioni fattuali siano veritiere al momento della commercializzazione al fine di non ingannare i consumatori: "Ciò significa che il professionista, quando pubblica la comunicazione commerciale, deve disporre della documentazione oppure essere certo di poterla presentare su richiesta. In caso contrario, sussiste il rischio sostanziale che il professionista commercializzi il suo prodotto mediante dichiarazioni false".

Per essere certi di poter fornire alle autorità nazionali la documentazione necessaria conformemente all'art. 12 della direttiva, i professionisti dovrebbero assicurare che la "documentazione relativa alle dichiarazioni sia aggiornata per tutto il periodo durante il quale esse sono utilizzate nelle attività di marketing".

"Le prove devono essere chiare e attendibili e le asserzioni devono essere valutate facendo ricorso ai metodi più appropriati. Qualora l'asserzione sia contestata, si dovrebbero mettere a disposizione degli organismi competenti prove effettuate da terzi indipendenti. Se gli studi degli esperti danno risultati contrastanti o sollevano dubbi significativi in merito all'impatto ambientale, il professionista dovrebbe astenersi totalmente dall'usare il messaggio a fini commerciali".

5.2. Ciò premesso, è il caso di rammentare che le verifiche e le valutazioni dell'Autorità hanno riguardato "claims" pubblicitari diffusi dal professionista in cui la compatibilità ambientale delle bottiglie veniva prospettata ai consumatori attraverso "vanti prestazionali specifici e quantificati".

L'Autorità ha pertanto ritenuto, in modo coerente e secondo logica, che tali vanti ambientali dovessero trovare riscontro in una idonea documentazione giustificativa, che attestasse "l'oggettiva riscontrabilità delle prestazioni vantate", posto che, qualora il professionista intenda vantare nei propri "claims" pubblicitari le proprietà o l'efficacia di un prodotto per il tramite dell'espressione di percentuali numeriche, deve indicare con esattezza la documentazione scientifica a sostegno, in maniera tale da consentire ai consumatori di comprendere in modo adeguato l'attendibilità e la portata delle affermazioni contenute nei "claims" stessi.

A tale riguardo, il percorso logico-valutativo seguito dall'Autorità appare tutt'altro che censurabile considerando che, come si legge nel provvedimento, al p. 46, l'Autorità ha ritenuto che, poiché i "claims" diffusi dalla ricorrente "descrivono o evocano una qualità che vale a distinguere il prodotto offerto sotto un profilo che viene valutato positivamente dai consumatori e pertanto, contrariamente a quanto ritenuto dall'AGCom nel proprio parere, in grado di alterare la loro capacità di scelta, costituisce onere informativo minimo imprescindibile a carico dei professionisti che intendono utilizzare tali vanti nelle proprie politiche di marketing quello di presentarli in modo chiaro, veritiero, accurato, non ambiguo né ingannevole. Tale onere comporta, pertanto, l'esigenza che il "claim" ambientale sia attendibile e verificabile e, quindi, non utilizzato in modo generico, indimostrabile, privo cioè di precisi riscontri scientifici e documentali".

Diversamente da quanto si è ritenuto nella sentenza impugnata, l'Antitrust, nella fase sia istruttoria e sia decisionale del procedimento, non ha affatto ignorato la documentazione elaborata dalla società e presentata all'Autorità a sostegno della vantata diminuzione di peso delle bottiglie e della conseguente riduzione energetica.

Non si tratta di "indebolire" la rilevanza della documentazione prodotta a supporto dei vanti prestazionali e ambientali soltanto perché tale documentazione proviene dalla società interessata; di far discendere l'ingannevolezza dei "claims" dalla mera provenienza interna della documentazione fornita dal professionista.

A questo riguardo va precisato come l'Autorità, in sede di avvio del procedimento e di richiesta di informazioni, avesse domandato al professionista copia degli studi condotti dalla società o per conto della stessa, a supporto dei vanti prestazionali indicati nei messaggi pubblicitari, muovendo secondo logica dall'assunto che anche studi di provenienza interna, laddove attendibili e sorretti da idonea documentazione, avrebbero potuto costituire elementi idonei ad appurare il carattere veridico delle asserzioni pubblicitarie.

La questione cruciale è un'altra, ed è quella di vagliare, allo stato, la complessiva verificabilità e attendibilità della documentazione stessa.

A questo proposito, come ampiamente argomentato nel provvedimento impugnato in primo grado (si vedano i punti da 51 a 58 e le conclusioni ai punti da 60 a 62; v. anche i punti dal 21 al 27), nel ripercorrere i passaggi salienti della motivazione del provvedimento del 10 dicembre 2009, specie dal p. 51 al p. 58, premesso che nella valutazione in ordine alla ingannevolezza, o no, di vanti prestazionali specifici e quantificati, gli stessi debbono trovare riscontro in una documentazione giustificativa idonea che attesti, con precedenza rispetto al loro utilizzo pubblicitario, la oggettiva riscontrabilità delle prestazioni vantate; nella specie, per stessa ammissione della parte, la vantata diminuzione della quantità di plastica utilizzata per la produzione delle bottiglie ("almeno il 30% in meno") ha formato oggetto di una richiesta di certificazione terza solo successivamente all'avvio del procedimento istruttorio da parte dell'Autorità, il 13 luglio 2009 [v. punti 35 e 52; cfr. all. "H" al doc. n. 16, sottoscritto dall'ente certificatore in data 28 agosto 2009 e dalla società San Benedetto il 10 settembre 2009 (la medesima data dell'ordine di acquisto delle attività di certificazione, documento parte dell'all. "H" al doc. n. 16)].

La società ha, infatti, richiesto solo il 10 settembre 2009 al proprio ente certificatore lo svolgimento della cd. Valutazione del Ciclo Vita (Life Cycle Assessment) [cfr. all. "H" al doc. n. 16, cit.], vale a dire lo svolgimento "di un metodo di valutazione e quantificazione dei carichi energetici e ambientali e degli impatti potenziali associati a un prodotto/processo/attività lungo l'intero ciclo di vita, dall'acquisizione delle materie prime al fine vita". Tale certificazione riguarda l'intero ciclo di vita del prodotto ("si tratta di un metodo oggettivo di valutazione e quantificazione dei carichi energetici e ambientali e degli impatti potenziali associati a un prodotto/processo/attività lungo l'intero ciclo di vita, dall'acquisizione delle materie prime al fine vita, dalla Culla alla Tomba") e, quindi, prende in considerazione un insieme di variabili, di cui la quantità di materia prima utilizzata è solo uno degli elementi rilevanti.

Quanto poi all'equivalenza tra il risparmio energetico conseguente alla riduzione della quantità di plastica necessaria per la fabbricazione delle nuove bottiglie in Pet e la riduzione di emissioni di anidride carbonica, si rileva che per tale dato non è stata prodotta alcuna evidenza di studi compiuti antecedentemente alla diffusione della campagna pubblicitaria in esame tale da consentire un suo oggettivo riscontro. Peraltro, i dati forniti non confermano, comunque, l'entità della correlazione, chiaramente lasciata intendere dal messaggio a mezzo stampa tra il risparmio energetico conseguito e la riduzione della quantità di plastica utilizzata per le nuove bottiglie: "[...] costanti investimenti [...] dal 1983 hanno permesso di ridurre almeno il 30% la quantità di plastica e quindi di contenere il consumo di energia. Le ricerche degli ultimi 25 anni, infatti, ci permettono di risparmiare nella produzione annua dei tre formati principali di acqua minerale una quantità di energia equivalente alla CO2 fissata da 16.00 ettari di nuovo bosco impiantato" - ma dimostrano che la vantata riduzione energetica è imputabile anche all'efficientamento del sistema produttivo del professionista (v. p. 25 della decisione dell'AGCM).

Nessun fondato elemento giustificativo è stato poi prodotto dal professionista in relazione alle modalità con cui, nel messaggio a mezzo stampa, il dato di risparmio energetico è stato trasformato in termini di minori emissioni di CO2 (equivalente alla "CO2 fissata da 16.000 ettari di nuovo bosco impiantato").

A tale riguardo, infatti, gli stessi studi forniti dal professionista non apportavano alcun supporto scientifico alle affermazioni pubblicitarie contestate, ma dimostravano, se mai, la difficoltà di procedere a un calcolo anche solo approssimativo della CO2 fissata annualmente dagli alberi, in considerazione dell'insieme delle variabili (non tutte peraltro ancora "misurabili") da cui dipende la capacità di un ecosistema forestale di assorbire CO2 (soltanto tra i fattori che agiscono sul rendimento fotosintetico di ogni pianta deve considerarsi: la luce, la superficie del fogliame, la disponibilità idrica e i nutrienti, ecc.).

Inoltre, i dati forniti dallo stesso professionista, sulla base delle proprie elaborazioni interne, sul quantitativo di plastica risparmiato nel corso degli anni per la fabbricazione delle bottiglie, non si riferiscono al periodo temporale indicato nel messaggio, ovvero dal 1983, avendo la parte inviato solo dati relativi a un arco temporale assai successivo ed inferiore (vale a dire dal 1995), e specificamente ammesso di non aver registrato i dati del periodo antecedente.

A fronte, quindi, del carattere assertivo e della precisione quantitativa con cui, nel messaggio stampa, sono espressi i vanti ambientali della bottiglia "eco friendly", con riferimento a tali "claims" non risulta che il professionista abbia proceduto ad effettuare studi e/o relazioni idonee a dimostrare e/o certificare la veridicità e attendibilità delle relative affermazioni.

Parimenti, con riguardo alle informazioni fornite dal professionista e provenienti da elaborazioni interne sulla riduzione del quantitativo di plastica impiegato per fabbricare le bottiglie di diverso formato, dall'analisi della tabella "excel" riprodotta nella tabella n. 1 del provvedimento non trova conferma, con riferimento al formato da 2 e da 0,5 litri, neppure la quantificazione della riduzione di peso pubblicizzata, rispettivamente, del 43% e del 58% dal 1983, vantata nel messaggio a mezzo stampa. Dai dati forniti dalla parte, infatti, la riduzione percentuale del peso di questi due formati di bottiglia registrata nel periodo 1995/2008 è, pari, rispettivamente, a circa il 27,4% e il 28,6%: percentuali, dunque, notevolmente inferiori rispetto a quelle pubblicizzate.

Inoltre anche i dati, forniti sempre dal professionista, di cui alla tabella n. 2 del provvedimento, appaiono ancora una volta contraddittori sia rispetto ai "claims" pubblicizzati, sia rispetto ai dati riportati nella tabella 1 sopra indicata.

In particolare, con riferimento ai formati da 2 e 1,5 litri (23,08% e 16,13%) non risulta confermata l'indicazione riportata in nota nel messaggio a mezzo stampa (del 43% e 32%) né la vantata generale diminuzione di "almeno il 30%" della plastica utilizzata.

Dunque, nessuna censura è ascrivibile all'Autorità per avere posto in dubbio la vantata diminuzione "di almeno il 30%" della plastica utilizzata e per aver ritenuto le affermazioni dirette a enfatizzare la compatibilità ambientale della nuova linea di bottiglie utilizzate per la commercializzazione dell'acqua minerale San Benedetto, caratterizzando il prodotto rispetto a quelli concorrenti con riguardo a una caratteristica percepita dai consumatori come fondamentale nelle proprie scelte di acquisto, sfornite di qualsiasi evidenza documentale attendibile idonea a rendere effettivamente verificabili i termini vantati.

Da una parte, l'Autorità ha spiegato in maniera plausibile le ragioni per le quali i dati presenti nei messaggi pubblicitari e relativi al vanto prestazionale e ambientale andavano posti in dubbio e, in definitiva, apparivano utilizzati in modo scorretto.

Dall'altra il privato, al quale spettava l'onere di comprovare la fondatezza dei vanti prestazionali e ambientali, non ha soddisfatto in maniera compiuta la richiesta istruttoria dell'Autorità e da ciò l'Antitrust, al di là dell'astratta possibilità, discrezionalmente esercitabile e rimessa alla valutazione dell'Autorità stessa, di effettuare un'istruttoria tecnica autonoma, ha tratto un argomento ulteriore per formulare le conclusioni di cui ai punti da 60 a 62 del provvedimento.

Nel procedimento seguito non sono ravvisabili né inversioni dell'onere della prova, né errori di metodo o nella valutazione dei presupposti di fatto, e nemmeno carenze istruttorie.

Occorre convenire con la difesa dell'Autorità laddove essa considera scorretto il principio per il quale, in presenza di "claims" pubblicitari che prospettano vanti prestazionali specifici o caratteristiche proprie di determinati prodotti, e a fronte della richiesta dell'AGCM di provarne il carattere veridico, per rispondere in modo efficace alle contestazioni dell'Autorità basterebbe una mera elaborazione interna del professionista, anche se predisposta "ad hoc" soltanto dopo l'avvio dell'istruttoria, che si limiti a ribadire le medesime affermazioni contenute nei "claims" pubblicitari oggetto dell'istruttoria dell'Antitrust.

Seguendo tale principio, l'accertamento delle pratiche commerciali scorrette diventerebbe, credibilmente, assai difficoltoso e, specularmente, l'onere, per il professionista, di provare la veridicità delle proprie affermazioni, facilmente eseguibile.

Inoltre, l'azione dell'Autorità non è nemmeno criticabile per non avere questa riscontrato, in tale pratica commerciale, la "diligenza professionale" di cui all'art. 20, comma 2, del codice del consumo, vale a dire quel "normale grado della specifica competenza ed attenzione" che, ai sensi dell'art. 18, comma 1, lett. h), del codice, ragionevolmente un consumatore può attendersi da operatori del settore di riferimento i quali intendano promuovere i propri prodotti, mettendo in evidenza specifiche caratteristiche ambientali, attesa la delicata tematica trattata e l'assoluta rilevanza della stessa per i consumatori.

In particolare, l'osservanza della diligenza professionale impone al professionista di comunicare informazioni e risultati solo a fronte di precisi, attendibili e verificabili riscontri scientifici e documentali (conf., ancora, i punti da 60 a 62 del provvedimento impugnato).

Bene, al riguardo, l'appellante richiama C.d.S., sez. VI, n. 5250 del 2015, con cui si è ribadito che "l'onere di completezza e chiarezza informativa imposto dalla normativa di settore ai professionisti richiede, in sostanza, alla stregua del canone di diligenza, che ogni comunicazione ai consumatori rappresenti i caratteri essenziali di quanto la stessa mira a reclamizzare. Sotto tal profilo, ad integrare una pratica commerciale scorretta ai sensi del Codice del Consumo può rilevare ogni omissione informativa che, se del caso combinandosi con la enfatizzazione di taluni elementi del servizio offerto, renda non chiaramente percepibile il reale contenuto ed i termini dell'offerta o del prodotto, inducendo in tal modo in errore il consumatore e condizionandolo nell'assunzione di comportamenti economici che altrimenti non avrebbe adottato (cfr. Corte di Cassazione, Sezioni Unite, n. 794 del 2009)".

Con riguardo infine al discostamento dal parere reso dall'Agcom, è appena il caso di rilevare che il parere dell'Agcom nei procedimenti istruttori per pratiche commerciali scorrette - laddove la diffusione del messaggio avvenga attraverso un mezzo di telecomunicazione - ha carattere obbligatorio ma non vincolante, di tal che l'AGCM ha facoltà di discostarsene a fronte di un adeguato apparato motivazionale, senza che tuttavia vi sia la necessità di una puntuale confutazione delle argomentazioni svolte dall'organismo consultivo, e ciò tanto più se, come accade nel caso all'esame, si tratta di un prodotto/servizio del tutto estraneo all'ambito regolatorio dell'Agcom.

Nella specie, a differenza di quanto ritenuto dal Tar, per il quale (v. pag. 14 sent.) l'AGCM si sarebbe "immotivatamente discostata" dal parere dell'Agcom, l'Autorità emanante ha esplicitato diffusamente le ragioni per le quali, diversamente da quanto opinato dall'Agcom, che aveva considerato non ingannevole il messaggio pubblicitario, i "claims" apparivano in grado di trarre in inganno i consumatori (v. i punti 46, da 51 a 58 e da 60 a 62; ferma rimanendo la condivisione delle valutazioni dell'Agcom, con conseguente recepimento nel provvedimento finale, al p. 59, in ordine al carattere non ingannevole dell'utilizzo, nel contesto dei messaggi pubblicitari, della qualificazione di Energy Saving Company).

Per le ragioni esposte sopra l'appello dev'essere pertanto accolto e la sentenza impugnata riformata. Per l'effetto, il ricorso di primo grado va respinto.

Tuttavia, le oggettive peculiarità della fattispecie e taluni profili di novità delle questioni trattate appaiono tali da giustificare in via eccezionale l'integrale compensazione delle spese del doppio grado tra le parti.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l'effetto, in riforma della sentenza impugnata, respinge il ricorso di primo grado, poiché infondato.

Spese del doppio grado del giudizio compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.