Corte di cassazione
Sezione V penale
Sentenza 17 gennaio 2017, n. 27817

Presidente: Palla - Estensore: Miccoli

RITENUTO IN FATTO

1. Con l'impugnata sentenza la Corte d'appello di Trieste ha confermato la pronunzia di primo grado, con la quale Martina M. e Fabrizio F., quali autori degli articoli pubblicati, e Andrea F., quale direttore responsabile del quotidiano "Messaggero Veneto", erano stati ritenuti responsabili rispettivamente (i primi due) di distinti reati di diffamazione aggravata (capi 1 e 2) e (il terzo) del reato di cui all'art. 57 c.p. (capo 3).

Alla M. era stato contestato il fatto di aver scritto in un articolo pubblicato in data 28 dicembre 2008 che era stata presentata un'istanza di fallimento in danno della impresa [omissis], fatto non vero, in quanto in realtà il creditore Enzo B. (proprietario dell'immobile concesso in locazione alla suddetta impresa) si era limitato ad ingiungere stragiudizialmente il pagamento di tre mensilità del canone di locazione.

Nel capo di imputazione è precisato che con quanto riportato nell'articolo si "offendeva l'onore e il decoro di M. Alida e L. Paolo, rispettivamente titolare e gestore dell'impresa individuale" sopra indicata.

Al F. era stato contestato di aver scritto in un articolo, pubblicato in data 18 febbraio 2009, che la storica edicola e tabaccheria [omissis] avrebbe riaperto dopo la dichiarazione di fallimento, fatto - come già detto - non verificatosi. In tale capo di imputazione è stata indicata come persona offesa solo la M.

2. Con un unico atto ha proposto ricorso il difensore degli imputati, denunziando violazione di legge e correlati vizi motivazionali in relazione alla affermazione di responsabilità.

Una prima censura di carattere generale alla sentenza riguarda le ragioni della conferma della affermazione della responsabilità, basate sulla considerazione estesa e concernente entrambi gli articoli contestati ovvero l'uso del termine "fallimento", perché evocativo di un'insolvenza irreversibile non altrimenti dimostrata.

Si duole, altresì, il difensore ricorrente della mancata distinzione tra il primo ed il secondo degli articoli contestati, trattati come una sorta di unico intervento, pur a fronte della circostanza che siano stati pubblicati a quasi due mesi di distanza l'uno dall'altro e ancorché si tratti di due distinti fatti di reato.

Si duole poi del fatto che la sentenza si soffermi esclusivamente sul contenuto del primo servizio, riservando al secondo poche parole riferite all'uso della parola "fallimento" ma in assenza di qualsivoglia valutazione afferente al contesto specifico (quello dell'articolo del febbraio) ove la stessa compariva.

Svolge poi delle deduzioni sulla qualità di persone offese del L. e della M., sostenendo che il primo non può considerarsi parte lesa per il fatto contestato relativamente al secondo articolo.

CONSIDERATO IN DIRITTO

I ricorsi sono inammissibili.

1. I motivi dedotti sono in buona parte meramente reiterativi di quelli già proposti con l'atto di appello e su di essi la Corte territoriale ha reso congrua e logica motivazione.

Correttamente nella sentenza impugnata si evidenzia la portata diffamatoria di entrambi gli articoli, che riportano notizie false ovvero - nel primo - la pendenza di una istanza di fallimento e - nel secondo - che tale fallimento era intervenuto.

I giudici di appello hanno analizzato entrambi gli articoli, sottolineandone l'effetto pregiudizievole per il L. e la M., rispettivamente gestore il primo e titolare la seconda dell'impresa indicata falsamente come fallita e quindi entrambi coinvolti passivamente nella vicenda.

Peraltro, il tenore del contenuto di entrambi gli articoli lascia ben poco spazio a dubbi sulla loro portata diffamatoria, così come ampiamente sottolineato dai giudici di merito.

In proposito, va ricordato che da tempo questa Corte ha avuto modo di affermare che, in tema di diffamazione a mezzo stampa, la pubblicazione di una notizia falsa ancorché espressa in forma dubitativa, può ledere l'altrui reputazione allorché le espressioni utilizzate nel contesto dell'articolo siano ambigue, allusive, insinuanti ovvero suggestionanti, e perciò idonee ad ingenerare nella mente del lettore il convincimento dell'effettiva rispondenza a verità dei fatti narrati, con la conseguenza che tale indagine è rimessa al giudice di merito e se giustificata da adeguata motivazione è incensurabile in sede di legittimità (Sez. 5, n. 45910 del 4 ottobre 2005, Fazzo ed altri, Rv. 23303901).

2. All'inammissibilità dei ricorsi consegue la condanna di ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali e al pagamento di una somma in favore della Cassa delle ammende che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo determinare in euro 2.000,00.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

Depositata il 6 giugno 2017.