Corte di cassazione
Sezione V penale
Sentenza 12 giugno 2017, n. 34160

Presidente: Palla - Estensore: Fidanzia

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 15 giugno 2016 la Corte di Appello di Cagliari ha confermato la sentenza di primo grado con cui I. Marcello è stata condannato alla pena di giustizia per il delitto di diffamazione ai danni di C. Giuseppina.

All'imputato è stato contestato di aver offeso la reputazione della parte civile, non esplicitamente citandola ma ad essa alludendo in modo inequivocabile, affermando in manifesti affissi nella pubblica via e su di un post sul sito internet facebook che la fornitura di mobili per l'amministrazione comunale operata da parte di un parente di una dipendente comunale sarebbe avvenuta in maniera non trasparente, affermazione fatta al fine di acquisire consensi elettorali per le successive elezioni.

2. Ha proposto ricorso per cassazione l'imputato, con atto sottoscritto dal suo difensore, affidandolo ai seguenti motivi.

Con il primo motivo è stata dedotta violazione di legge in relazione all'art. 51 c.p.

Lamenta il ricorrente di essersi limitato con i comunicati ritenuti diffamatori a segnalare ai propri compaesani che le poltrone provenienti dalla ditta del fratello dell'impiegata comunale erano state acquistate dall'amministrazione Comunale senza una preventiva gara e ad un prezzo più elevato rispetto ad altre, altrettanto valide, offerte dal mercato ed ha invocato la scriminante del diritto di critica politica.

Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione del diritto alla prova a norma dell'art. 606, lett. d), c.p.p.

Lamenta la mancata acquisizione da parte della Corte d'Appello del verbale di querela ai fini probatori che era stato richiesto con i motivi d'appello.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il primo motivo è inammissibile in quanto manifestamente infondato.

Condivisibilmente la Corte territoriale ha ritenuto la natura diffamatoria del contenuto dei manifesti affissi nella pubblica via e sul post di facebook, atteso che accusare senza fondamento un'impiegata comunale di aver favorito il fratello per la fornitura di mobili a favore dell'amministrazione Comunale è senz'altro offensivo della reputazione della stessa.

Né l'imputato può invocare a sua discolpa l'esercizio del diritto di critica sul rilievo di essersi limitato con i comunicati descritti in narrativa a segnalare ai propri compaesani che la fornitura di poltrone da parte del fratello della persona offesa fosse avvenuta senza una preventiva gara e con un prezzo più elevato rispetto ad altre, altrettanto valide, offerte dal mercato, avendo la Corte territoriale coerentemente evidenziato che la circostanza, riportata nel comunicato, che il Comune di Vallermosa avesse acquistato i mobili forniti dal fratello della persona offesa per effetto dell'interessamento di quest'ultima finalizzato a favorire il familiare, era stato soltanto sostenuto dall'imputato senza che fosse emersa la verità dei fatti storici.

Correttamente è stato osservato dai giudici di merito che il criticante, quando giunge ad accusare il criticato di veri e propri comportamenti antigiuridici, deve quantomeno indicare il fondamento fattuale delle sue accuse, precisando donde abbia tratto il suo convincimento, e ciò sul rilievo che se la critica è svincolata dal presupposto della verità (non essendo vera o falsa ma soggettivamente condivisibile o non condivisibile), non è svincolato da tale presupposto il fatto che si intende criticare.

Tale affermazione si inserisce nell'orientamento consolidato di questa Corte secondo cui l'esercizio del diritto di critica richiede la verità del fatto attribuito e assunto a presupposto delle espressioni criticate, in quanto non può essere consentito attribuire ad un soggetto specifici comportamenti mai tenuti o espressioni mai pronunciate. Ne consegue che, limitatamente alla verità del fatto, non sussiste alcuna apprezzabile differenza tra l'esimente del diritto di critica e quella del diritto di cronaca, costituendo per entrambe presupposto di operatività (Sez. 5, n. 7662 del 31 gennaio 2007, Rv. 236524; vedi anche Sez. 5, n. 7715/2014, Rv. 264064 e n. 40930/2013, Rv. 257794).

D'altra parte, pienamente corretta è l'affermazione del giudice di secondo grado secondo cui un soggetto, per invocare la scriminante dell'esercizio del diritto di critica, non può limitarsi alla mera allegazione dell'esistenza del fatto che intende criticare. Deve, infatti, ritenersi che come l'imputato che invochi il diritto di cronaca ha l'onere di provare la verità della notizia riportata (Sez. 5, n. 10964 dell'11 gennaio 2013, Rv. 255434), o quantomeno offrire la prova della cura posta negli accertamenti svolti per vincere dubbi ed incertezze prospettabili in ordine alla verità della notizia (Sez. 5, n. 12024 del 31 marzo 1999, Rv. 215037; Sez. 5, n. 15643 dell'11 marzo 2005, Rv. 232134; Sez. 5, n. 23695 del 5 marzo 2010, Rv. 24752401), altrettanto, con riferimento all'esercizio del diritto di critica, l'agente è onerato di indicare e fornire tutti gli elementi comprovanti la dedotta causa di giustificazione al fine di porre il giudice in condizione di valutare seriamente la fondatezza di tale argomento difensivo.

Nel caso di specie, come già rilevato, l'imputato si è limitato nei comunicati offensivi di cui al capo d'imputazione a dedurre dei fatti dei quali non ha fornito neppure un principio di prova (eventualmente valutabile a norma dell'art. 530, comma 3, c.p.p.), con la conseguenza che la scriminante dell'esercizio del diritto di critica deve ritenersi insussistente.

Accertata sulla base della coerente ricostruzione dei giudizi di merito la mancanza del necessario presupposto della verità del fatto criticato, deve ritenersi assorbita l'ulteriore censura del ricorrente relativa al mancato riconoscimento dell'esimente della critica politica (peraltro coerentemente esclusa dal giudice di secondo grado in ragione alla mancata appartenenza dell'impiegata comunale ad un contrapposto orientamento e schieramento politico rispetto a quello del prevenuto).

2. Il secondo motivo è inammissibile.

In ordine alla mancata acquisizione della querela, questa Corte ha già osservato che la mancata assunzione di una prova decisiva - quale motivo di impugnazione per cassazione - può essere dedotta solo in relazione ai mezzi di prova di cui sia stata chiesta l'ammissione a norma dell'art. 495, comma 2, c.p.p., e non nel caso in cui il mezzo di prova sia stato sollecitato dalla parte attraverso l'invito al giudice di merito ad avvalersi dei poteri discrezionali di integrazione probatoria di cui all'art. 507 c.p.p. e da questi sia stato ritenuto non necessario ai fini della decisione (Sez. 2, n. 841 del 18 dicembre 2012 - dep. 9 gennaio 2013, Barbero, Rv. 254052).

Questo principio vale a maggior ragione per le nuove prove richieste con i motivi d'appello.

Alla declaratoria d'inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle Ammende, che si stima equo stabilire nella misura di 2.000,00 euro.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Depositata il 12 luglio 2017.