Consiglio di Stato
Sezione VI
Sentenza 28 dicembre 2017, n. 6138

Presidente: Santoro - Estensore: Lamberti

FATTO

1. Italcementi s.p.a. è proprietaria sin dal 1952 di alcuni terreni nella zona industriale di Trieste, ricompresi all'interno del perimetro del Sito di Interesse Nazionale di Trieste, ove ha realizzato un impianto di lavorazione del cemento.

2. Nel 2005 Italcementi ha predisposto un Piano di Caratterizzazione, poi approvato dalla Conferenza dei Servizi dell'ottobre 2005, per cui la società nel novembre 2006 ha trasmesso al Ministero un piano di interventi di messa in sicurezza di emergenza della falda, effettuando al contempo una serie di analisi, da cui era emersa la presenza di due aree "critiche": l'area 1 ove erano stati rinvenuti rifiuti generici; l'area 2 ove sono stati rinvenuti terreni contaminati da idrocarburi c>12 ed IPA.

3. Il piano di intervento proposto veniva approvato dalla Conferenza dei Servizi istruttoria del 21 maggio 2007, a cui seguiva in data 26 luglio 2007, la Conferenza dei Servizi decisoria, in cui il Ministero rappresentava alle varie Società coinvolte la possibilità di aderire ad un intervento consortile per la messa in sicurezza dell'intera falda, specificando che l'adesione alla soluzione unitaria degli interventi rappresentava una mera facoltà, e non già un obbligo, per i soggetti interessati che non avrebbero quindi potuto, in caso di adesione, condizionarla alle condizioni tecnico-economiche preferite dall'Azienda. Con riguardo al piano di interventi di messa in sicurezza d'emergenza della falda, la stessa Conferenza Decisoria prescriveva ad Italcementi di rimuovere i rifiuti eventualmente presenti nell'area 1 ovvero, in alternativa, la messa in sicurezza permanente secondo i criteri dettati dal d.lgs. n. 36/2003, con realizzazione di una barriera idraulica di emungimento e trattamento delle acque di falda come rifiuti, non condividendosi la proposta della Società di impermeabilizzare anche le aree verdi interne. Quanto all'area 2, il Ministero riteneva di non condividere la proposta di limitare l'intervento di risanamento ai soli terreni insaturi, pertanto, chiedeva altresì all'Azienda di integrare la caratterizzazione delle acque di falda, prevedendo, oltre alla rimozione del terreno contaminato, un'ulteriore area denominata Area Impianti, ove era stata riscontrata una contaminazione di ferro, manganese e solfati.

4. Con ricorso ritualmente notificato in data 17 gennaio 2008, la società Italcementi s.p.a. ha impugnato avanti il Tar Friuli-Venezia Giulia il decreto direttoriale 7 novembre 2007 prot. n. 4109, con il quale erano state rese definitive le prescrizioni contenute nel verbale della Conferenza dei Servizi Decisoria dei 26 luglio 2007, nella parte in cui le era stato ordinato di porre in essere interventi di messa in sicurezza della falda, o per tramite di un intervento autonomo, ovvero aderendo all'intervento consortile tra i vari soggetti operanti all'interno del SIN di Trieste, previa realizzazione di un sistema di barriere idraulico e rimozione dei rifiuti presenti nei terreni di sua proprietà. In particolare, la società deduceva l'illegittimità dei provvedimenti impugnati per i seguenti motivi:

a) violazione e falsa applicazione di norme di legge (artt. 242, 243, 250, 252 e 253 del d.lgs. n. 152/2006) ed eccesso di potere per carenza di motivazione e difetto di istruttoria. Secondo Italcementi, essa non era responsabile dell'inquinamento, in quanto le contaminazioni dei terreni e della falda sarebbero dipese da fatti avvenuti prima dell'acquisto da parte sua dell'area in questione. Per tale ragione non poteva essere destinataria delle prescrizioni che le erano state imposte;

b) violazione dell'art. 254 del d.lgs. n. 152/2006 ed illogicità della prescrizione secondo cui la sua "adesione" ad una soluzione unitaria degli interventi di messa in sicurezza della falda non può essere condizionata "alla valutazione da parte dell'azienda delle condizioni tecnico-economiche";

c) violazione degli artt. 240 e 242 del d.lgs. n. 152/2006 ed eccesso di potere per difetto dei presupposti, in quanto l'Amministrazione avrebbe imposto la bonifica unicamente in ragione del superamento dei valori di CSC senza determinare i valori di CSR e senza verificarne il loro superamento;

d) illegittimità della prescrizione di presentare un progetto definitivo di bonifica della falda acquifera entro 30 giorni dalla comunicazione del verbale sia per il mancato riscontro della CRS sia per la mancanza di una sua responsabilità;

e) sosteneva inoltre che, nel caso di specie, le modifiche dei presupposti per la qualificazione di un'area come Sito di Interesse Nazionale, introdotte dal d.lgs. 156/2006, rendevano necessario procedere ad una nuova verifica delle caratteristiche dell'area;

f) contestava che le acque di falda derivanti dalle operazioni di emungimento "debbono essere gestite ai fini dello stoccaggio, del trasporto e dello smaltimento in conformità alla vigente normativa in materia di rifiuti" in quanto "le acque di falda" non sono rifiuti ma acque reflue.

5. Il T.A.R. Friuli-Venezia Giulia ha accolto parzialmente il ricorso, ritenendo che l'obbligo di mettere in sicurezza il sito va considerato legittimo per quanto riguarda le acque di falda e la rimozione dei rifiuti presenti nell'area, considerato che esso pur riguardando un proprietario incolpevole rientra tra gli interventi urgenti e precauzionali; riteneva invece illegittima la prescrizione di formulare un progetto definitivo di bonifica delle acque di falda dell'intera area entro 30 giorni nonché quella relativa alla realizzazione e al montaggio di una barriera, trattandosi in questo caso di obblighi che trascende l'emergenza e non assegnabile a un proprietario incolpevole, se non su sua volontà.

6. Avverso tale sentenza ha proposto appello l'originaria ricorrente per i seguenti motivi:

1) con il primo di appello si contesta la sentenza del TAR nel punto in cui ha operato una selezione tra le varie prescrizioni, ritenendo legittime quelle dettate (ad avviso del giudice di primo grado) da ragioni di urgenza, di prevenzione, di precauzione e precisamente: a) obbligo di mettere in sicurezza per le acque di falda; b) prescrizioni riguardanti gli accertamenti e i controlli; c) rimozione dei rifiuti presenti nell'area. La sentenza sarebbe pertanto errata nella parte in cui qualifica tali prescrizioni come urgenti e/o di precauzione o di prevenzione e di rimando ne addossa gli oneri a carico dell'appellante, posto che da nessuna parte la legislazione applicabile attribuisce all'Amministrazione poteri di intervento per ragioni di urgenza, di precauzione e di prevenzione, che prescindano dalla colpevolezza del proprietario. Inoltre, la qualificazione fatta dal TAR di tali interventi come misure di precauzione, di prevenzione, di urgenza, e dunque come misure autonome, svincolate dagli artt. 239 e ss. sarebbe in palese contrasto con il principio di legalità e con quello di tipicità dei provvedimenti amministrativi;

2) con il secondo motivo si lamenta che la sentenza immotivatamente non ha esaminato taluni motivi di ricorso, che vengono pertanto riproposti in sede di appello.

7. Avverso la medesima sentenza, ha proposto appello il Ministero per i seguenti motivi:

1) con il primo motivo si deduce l'insufficiente, contraddittoria ed illogica motivazione su una questione controversa e decisiva. Precisamente, secondo l'appellante erroneamente il T.A.R. avrebbe ritenuto che costituisce "fatto, pacifico in causa, che la ditta ricorrente non risulta responsabile dell'inquinamento delle zone in cui opera". In particolare, il T.A.R. avrebbe completamente trascurato la circostanza, inequivocabilmente emergente dagli stessi verbali impugnati, che le sostanze rinvenute nelle matrici ambientali (suolo e falde, quindi, rispettivamente, suolo insaturo e saturo) sono identiche a quelle trattate dalla società Italcementi, che occupa da sempre e, comunque, da prima della stessa perimetrazione del sito d'interesse nazionale le aree di cui si chiede la bonifica e la messa in sicurezza d'emergenza;

2) con il secondo motivo di appello il Ministero deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 240, 242, 244, 245, 252, 253 e 257 del d.lgs. n. 152/2006 e dell'art. 2051 c.c., nonché contraddittoria motivazione. A tal fine rileva che:

a) dalla mancata responsabilità ambientale della società il T.A.R. fa discendere anche l'impossibilità di richiedere ad essa misure d'emergenza o preventive, sebbene poi esso affermi correttamente il contrario al fine di rigettare in parte il ricorso. Inoltre, secondo il Ministero non vi sarebbe dubbio che la definizione di messa in sicurezza d'emergenza (c.d. m.i.s.e.) è di ampiezza tale da includere anche la possibilità di ricorrere alle più svariate misure, oltre quelle stabilite dalle specifiche disposizioni. Non sussisterebbe, quindi, la pretesa violazione dell'art. 242 del Codice e del principio di derivazione comunitaria "chi inquina paga", in quanto l'ordine in messa in sicurezza di emergenza sfugge totalmente, in forza della sua natura cautelare e non già sanzionatoria, al presupposto accertamento della responsabilità da inquinamento del sito, pur chiaramente accertato;

b) nei confronti del proprietario del sito inquinato ben possono essere adottati i provvedimenti di cui al titolo IV della parte IV del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, a prescindere dalla sussistenza di una prova dell'addebitabilità dell'inquinamento a suoi comportamenti. Invero, il principio di matrice comunitaria "chi inquina paga" va interpretato non esclusivamente in senso "letterale" e cioè che debba rispondere della contaminazione esclusivamente chi, tra gestore e proprietario, abbia materialmente causato la contaminazione; esso, invece, postulerebbe la responsabilità anche del proprietario che, pur non avendo concorso materialmente alla causazione della contaminazione, quale titolare di un bene che a sua volta inquina, nulla fa al fine di confinare, arrestare e, quindi, limitare quella contaminazione;

c) il T.A.R. avrebbe anche erroneamente escluso l'applicabilità della responsabilità del custode, di cui all'art. 2051, dal momento che la società è stata sempre l'unica titolare della zona da ben prima della stessa perimetrazione del sito d'interesse nazionale. Pertanto, non si comprenderebbe la ragione per la quale il T.A.R. ha ritenuto di non potere considerare la società "custode" della propria area che è contaminata e continua a contaminare le aree circostanti;

d) il T.A.R. avrebbe errato anche quando ha ritenuto che "il legislatore ha positivamente stabilito l'inserimento della colpa tra gli elementi costitutivi della fattispecie in discorso" per cui "se ne trae sicura conferma della non condivisibilità dell'esegesi seguita dallo stesso Ministero". Secondo la prospettazione del Ministero, quella posta in capo al proprietario sarebbe una responsabilità "da posizione", non solo svincolata dai profili soggettivi del dolo o della colpa, ma che, nello specifico, non richiederebbe neppure la prova dell'apporto causale del superamento o pericolo di superamento dei valori limite di contaminazione, bastando in tal caso la dimostrazione della presenza della contaminazione e del concreto pericolo di trasmissione.

8. Alla luce delle censure proposte, previa riunione dei ricorsi in appello proposti avverso la medesima sentenza, il Collegio ha disposto una prima verificazione al fine di accertare l'eventuale responsabilità di Italcementi dell'inquinamento del sito; nonché in una seconda verificazione circoscritta all'area 2 al fine di stabilire la natura e dunque l'origine degli idrocarburi presenti nel terreno di tale porzione. Gli esiti di tali accertamenti escludono ragionevolmente la responsabilità di Italcementi.

8.1. In particolare, l'Arpa ha ritenuto escludibile la correlazione tra i contaminanti rinvenuti nel suolo, nel sottosuolo e nelle falde dei terreni in titolarità attuale di Italcementi con l'attività principale svolta da tale società nonché con eventuali attività accessorie e strumentali alla prima: "anche alla luce del fatto che nel ciclo produttivo di un cementificio tipo non si utilizzano e/o si producono anche come scarto di produzione materiali contenenti gli analiti rinvenuti nei terreni (idrocarburi pesanti ed IPA) e nelle acque sotterranee (solfati ed alcuni metalli). Rispetto al parco serbatoi, oramai in disuso, che conteneva l'olio combustibile utilizzato per alimentare le fornaci dello stabilimento, l'olio veniva convogliato mediante condotte prevalentemente aeree ed in tale zona, come nelle zone ove sono presenti serbatoi internati (di cui Italcementi ha fornito la documentazione rispetto alle prove di tenuta) il piano di caratterizzazione non ha evidenziato superamenti di idrocarburi nei terreni. La stessa Agenzia ha rilevato che la contaminazione riscontrata in sito, con particolare riferimento al parametro idrocarburi nella matrice suolo e sottosuolo, non sia da ricondursi alle attività svolte da Italcementi s.p.a. e/o da SIOT s.p.a. bensì al contesto evolutivo del sito e/o alle attività industriali svoltesi in precedenza sul sito stesso. Al riguardo, deve precisarsi che l'area ove insiste lo stabilimento di Italcementi si trova al confine fra un area di reinterro della fine degli anni '40 e la discarica di Zaule. Se ne può dedurre che il rinvenimento di frammenti di legno, plastica, ferro, lamiere, tessuti e laterizi, frammisti a terreno, ed identificati come rifiuto nel corso dell'esecuzione del piano di caratterizzazione sia ascrivibile a questa tipologia di origine dell'area. Analogamente non si può escludere che anche le contaminazioni rilevate nei terreni siano ascrivibili al contesto evolutivo del sito. Degna di nota è la significativa contaminazione da idrocarburi rilevata nella zona definita AREA 2 interessata dalla presenza (servitù industriale di passaggio) della condotta dell'oleodotto SIOT. Dalla documentazione a disposizione dell'Agenzia risulta di interesse un intervento effettuato dalla SIOT stessa sul tratto di oleodotto interessante lo stabilimento (comunicazione del 9 maggio 2007 sopra riportata). Tale intervento, definito da SIOT di manutenzione ordinaria, era mirato all'effettuazione di un controllo della condotta al fine di verificare l'integrità dell'isolamento della tubazione dell'oleodotto. A tal proposito si ritiene importante sottolineare come sia noto all'Agenzia che la SIOT, di prassi, programmi interventi di manutenzione ordinaria, in un'ottica di principio di cautela, che mirano a verificare l'integrità delle tubazioni in fasi ben antecedenti a possibili perdite di prodotto. Va, altresì, evidenziato come nella documentazione prodotta da SIOT si evidenzi che parte delle particelle catastali su cui ricade la servitù di passaggio dell'oleodotto in epoca storica furono di proprietà di ESSO Standard già a partire dal 1895.

8.2. Analogamente gli accertamenti effettuati tramite la Provincia di Trieste non dimostrano alcuna responsabilità di Italcementi, mettendosi in luce che dal momento che la tipologia di rifiuti interrati non è caratteristica di una specifica tipologia di processo industriale, ma è molto comune (frammenti di laterizi, vetro, resti vegetali, ferro, plastica, tessuti, etc.) e non permette di identificare un soggetto produttore, precisandosi che: "a partire dagli anni '40 fino alla fine degli anni '70 l'area in sponda nord del Canale Navigabile è stata oggetto di interramenti realizzati con le macerie dei bombardamenti e con il parziale sbancamento del Monte San Pantaleone, nonché con rifiuti provenienti dalla discarica di RSU del Comune di Trieste...". Una ipotesi della causa della presenza di rifiuti interrati in tale area potrebbe essere il rinterro avvenuto, negli anni '40 e concludendosi nel senso che: "le informazioni acquisite sinora suggeriscono l'estraneità di Italcementi s.p.a. alla realizzazione di tale interramento".

8.3. In riferimento all'area 2, caratterizzata dalla contaminazione dei suoli dovuta principalmente ad idrocarburi pesanti, relativamente alla possibilità che tale contaminazione provenga dal deposito di idrocarburi di Italcementi s.p.a. si è precisato che: "considerata la posizione del parco serbatoi e della rete di distribuzione (nella zona est del sito), ben lontana dalla zona contaminata in prossimità dell'oleodotto (nell'estremità ovest del sito), che tra l'altro presenta dei valori di contaminazione molto elevati, è improbabile che, anche nel caso in cui nel tempo fossero avvenute delle perdite, queste possano aver raggiunto il lato opposto dello stabilimento senza contaminare in maniera significativa il terreno incontrato nel percorso". Si osserva inoltre come: "tale porzione di area si trova adiacente all'area ex ESSO, in passato sede di attività di raffinazione del greggio dal 1895 al 1967, e successivamente anche di oli lubrificanti. Non si esclude l'ipotesi che la contaminazione possa risentire di tale vicinanza...". Relativamente alla presenza di Cu e Zn nei terreni di riporto in tale zona anche a notevoli profondità: "si ritiene che anche tale contaminazione potrebbe essere dovuta ai rinterri eseguiti negli anni '40, dal momento che ltalcementi ha dichiarato che tale area è marginale al proprio impianto e non viene utilizzata".

8.4. La seconda verificazione ha invece confermato che la contaminazione dell'area 2 è riconducibile ad un prodotto di olio raffinato.

DIRITTO

1. Alla luce delle ricordate emergenze istruttorie, nonché dell'evoluzione giurisprudenziale che si andrà a descrivere, l'appello di Italcementi deve trovare accoglimento, con conseguente reiezione dell'appello proposto dal Ministero. Invero, come già evidenziato nella parte in fatto della presente sentenza, gli esiti delle verificazioni disposte in corso di causa portano ragionevolmente ad escludere ogni responsabilità di Italcementi per l'inquinamento dell'area. La palese infondatezza del primo motivo di appello, con il quale il Ministero affermava la responsabilità di Italcementi, rende superfluo esaminare la relativa eccezione di inammissibilità sollevata dalla società.

2. Accertato che la società appellante è soltanto proprietaria del complesso immobiliare oggetto del piano di caratterizzazione, ma non ha, neppure in minima misura, concorso a causarne l'inquinamento, dovuto con ogni probabilità alle pregresse attività industriali, la questione centrale da dirimere - che coinvolge gli ulteriori motivi di appello proposti dal Ministero ed il primo motivo di appello di Italcementi (e che assorbe le ulteriori censure dedotte dalla stessa Italcementi nel primo e secondo motivo d'appello) - attiene al se il proprietario di un'area inquinata, non responsabile dell'inquinamento, sia tenuto agli oneri di bonifica per come imposti dalla amministrazione pubblica ovvero abbia una mera facoltà di eseguirli pena, altrimenti, l'esecuzione d'ufficio degli stessi da parte della amministrazione procedente e con responsabilità, in tal caso, solo patrimoniale del proprietario (nei limiti del valore venale del bene all'esito degli interventi di riqualificazione ambientale).

2.1. Al riguardo, deve ricordarsi che il d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, recante il Codice dell'ambiente, ha confermato la scelta (già presente nella pregressa disciplina della materia contenuta nel citato art. 17 del d.lgs. n. 22 del 1997) afferente l'allocazione del titolo di responsabilità e delle conseguenze sul piano degli oneri di riparazione del danno proprio nel senso della responsabilità solo patrimoniale del proprietario non responsabile, salva la facoltà di eseguire spontaneamente gli interventi di bonifica ambientale. In particolare, a norma dell'art. 244, comma 2, gli interventi di riparazione, messa in sicurezza, bonifica e ripristino gravano esclusivamente sul responsabile della contaminazione, cioè sul soggetto al quale sia imputabile, almeno sotto il profilo oggettivo, l'inquinamento; se il responsabile non sia individuabile o non provveda (e non provveda spontaneamente il proprietario del sito o altro soggetto interessato), gli interventi che risultassero necessari sono adottati dalla p.a. competente (art. 244, comma 4); le spese sostenute per effettuare tali interventi potranno essere se del caso recuperate in rivalsa verso il proprietario, che risponderà nei limiti del valore di mercato del sito a seguito dell'esecuzione degli interventi medesimi (art. 253, comma 4); per tale ragione, a garanzia di tale diritto di rivalsa, il sito è gravato di un onere reale e di un privilegio speciale immobiliare (art. 253, comma 2).

2.2. Deve ricordarsi che la scelta del legislatore nazionale, desumibile dall'applicazione delle richiamate regole, è stata adottata in applicazione, nel nostro ordinamento, del principio comunitario "chi inquina paga" ormai confluito in una specifica disposizione (art. 191) del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, nel quale rientra come uno degli obiettivi principali sui quali si basa l'azione europea in materia ambientale ed in attuazione della direttiva 2004/35/CE.

2.3. Tale sistema normativo è stato sottoposto a critica da quanti vi hanno ravvisato dei possibili profili di incompatibilità con i principi comunitari di precauzione, di prevenzione e di correzione prioritaria alla fonte dei danni causati all'ambiente. In particolare, ci si è chiesti se il proprietario dell'area inquinata, il quale utilizza il sito per l'esercizio della sua attività d'impresa, non possa essere chiamato a compiere gli interventi di ripristino ambientale a titolo di responsabilità oggettiva, per la relazione speciale con la cosa immobile strumentale all'esercizio della sua attività, ed anche in ragione degli oneri di custodia e di particolare diligenza esigibili nei confronti del titolare di beni suscettibili di arrecare danno ad interessi particolarmente sensibili. Per tale ragione l'Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato, con ordinanza 25 settembre 2013, n. 21, ha rimesso alla Corte di Giustizia UE il citato quesito.

2.4. Con sentenza del 4 marzo 2015 (resa nella causa C-534/13), la Corte di Lussemburgo ha confermato il proprio orientamento (già espresso nella sentenza 9 marzo 2010, C-378/08), non diverso da quello preponderante emerso nell'ordinamento italiano e richiamato dalla stessa ordinanza di rinvio dell'Adunanza plenaria, secondo cui "la direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, deve essere interpretata nel senso che non osta a una normativa nazionale (...) la quale, nell'ipotesi in cui sia impossibile individuare il responsabile della contaminazione di un sito o ottenere da quest'ultimo le misure di riparazione, non consente all'autorità competente di imporre l'esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di tale sito, non responsabile della contaminazione, il quale è tenuto soltanto al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall'autorità competente nel limite del valore di mercato del sito, determinato dopo l'esecuzione di tali interventi".

2.5. Ciò detto, nel caso di specie, non potendo determinarsi in capo alla società appellante la responsabilità dell'inquinamento del sito (risalente, come detto, a molti decenni addietro ed imputabile eziologicamente all'attività inquinante di altri soggetti), la stessa società non può essere destinataria delle prescrizioni impostele dall'amministrazione all'esito della citata conferenza decisoria. Italcementi, in qualità di proprietaria dell'area, sarà se del caso responsabile sul piano patrimoniale ed a tal titolo sarà tenuta, ove occorra, al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall'autorità competente nel limite del valore di mercato del sito, determinato dopo l'esecuzione di tali interventi, secondo quanto desumibile dal già citato quadro normativo. La soluzione accolta dal Collegio è del resto conforme alla giurisprudenza venutasi a formare a seguito dei citati interventi dell'Adunanza Plenaria e della CGUE (cfr. C.d.S., sez. VI, 550/2016; sez. VI, 3544/2015).

3. Tale conclusione deve ritenersi valevole anche per quelle prescrizioni cautelari dettate da ragioni di urgenza, dovendosi pertanto accogliere il relativo motivo di appello di Italcementi. Non è infatti condivisibile l'assunto contenuto nella sentenza impugnata secondo cui il carattere solo cautelare delle misure imposte alla società appellante con i provvedimenti impugnati in primo grado non contrasterebbe con (ma anzi, risulterebbe imposta dal) l'applicazione del più volte richiamato principio "chi inquina paga" e con il principio di precauzione.

3.1. Il quadro normativo nazionale innanzi ricordato esclude tale eventualità e la giurisprudenza di questo Consiglio ha già escluso che al mero proprietario sia applicabili obblighi di facere legati all'urgenza di mettere in sicurezza il sito (cfr. C.d.S., sez. VI, 550/2016; sez. VI, 4225/2015).

Al riguardo, dal punto di vista comunitario si osserva che la direttiva 2004/35/CE (la quale declina in puntuali statuizioni i richiamati principi comunitari e che - indipendentemente dalla sua diretta e integrale applicazione alla vicenda di causa - fornisce indici ermeneutici di grande rilievo sistematico) non opera alcuna distinzione, per quanto riguarda la necessaria sussistenza del nesso eziologico in punto di causazione del danno, fra: a) le misure di prevenzione e b) le misure di riparazione di cui all'art. 2, punti 10 e 11. Al contrario, in entrambi i casi l'insussistenza di un nesso eziologico fra la condotta dell'operatore e l'evento dannoso (in definitiva: il fatto che l'operatore non abbia cagionato l'evento di inquinamento) vale ad escludere qualunque conseguenza a suo carico, sia per ciò che riguarda le misure di prevenzione, sia per quanto riguarda le misure di riparazione in senso proprio (non a caso, l'art. 8, par. 3, della richiamata direttiva stabilisce che "non sono a carico dell'operatore i costi delle azioni di prevenzione o di riparazione adottate conformemente alla presente direttiva se egli può provare che il danno ambientale o la minaccia imminente di tale danno: a) è stato causato da un terzo, e si è verificato nonostante l'esistenza di opportune misure di sicurezza").

4. Non possono inoltre trovare accoglimento gli argomenti sostenuti dal Ministero secondo cui, a prescindere da qualunque esame in ordine al nesso eziologico fra la condotta e l'evento dannoso, il proprietario incolpevole potrebbe essere chiamato a sostenere le misure di prevenzione e di riparazione a titolo di "oggettiva responsabilità imprenditoriale", che graverebbe sul proprietario in ragione del mero dato dominicale (e ciò, anche al fine di impedire che dei relativi oneri sia fatto carico, in ultima analisi, alla collettività); ovvero, che il principio "chi inquina paga" dovrebbe essere inteso nel senso che la locuzione "chi" vada riferita anche a colui che, con la propria condotta omissiva o negligente, nulla faccia al fine di ridurre o eliminare l'inquinamento causato dal terreno di cui è titolare.

4.1. Al riguardo, si evidenzia che la tesi in questione è stata confutata dalla già richiamata ordinanza dell'Adunanza Plenaria n. 21 del 2013, la quale ha chiarito: che sia nelle ipotesi di danno ambientale disciplinate dalle previsioni della direttiva 2004/35/UE, sia in quelle che restano regolate dalle sole previsioni del "Codice ambientale", non sono configurabili ipotesi di responsabilità svincolata persino da un contributo causale alla determinazione del danno; che il sub-sistema normativo di cui al d.lgs. n. 152 del 2006 reca un preciso criterio di imputazione della responsabilità da inquinamento (il quale si innesta sulla più volte richiamata sussistenza di un nesso eziologico), non ammettendo ulteriori, diversi e più sfavorevoli criteri di imputazione (i quali, pure, sono conosciuti da altri settori dell'ordinamento); che, in particolare, il vigente quadro normativo nazionale non ammette un criterio di imputazione (quale quello che, nella sostanza, viene invocato dal Ministero appellante) basato sulla sorta di "responsabilità di posizione" a carico del proprietario incolpevole.

5. Per le ragioni esposte deve essere rigettato l'appello del Ministero, mentre deve trovare accoglimento il primo motivo di appello di Italcementi, dovendosi sul punto riformare la sentenza impugnata.

6. Le spese di lite di entrambi i gradi di giudizio, tenuto conto della complessità dell'accertamento in fatto e dell'evoluzione giurisprudenziale che ha interessato la materia, devono essere compensate.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sugli appelli, come in epigrafe proposti, rigetta l'appello del Ministero; accoglie l'appello di Italcementi e per l'effetto, in parziale riforma della sentenza impugnata, accoglie integralmente il ricorso di primo grado.

Compensa integralmente le spese di lite dei due gradi di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.