Corte di cassazione
Sezione IV penale
Sentenza 31 gennaio 2018, n. 9201

Presidente: Piccialli - Estensore: Cappello

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte d'Appello di Reggio Calabria ha accolto, in parte, la richiesta di riparazione per ingiusta detenzione presentata nell'interesse di M. Demetrio, con riferimento al procedimento penale "Olimpia 1", nel quale egli era stato indagato per i reati di omicidio e in materia di armi, oltre che per associazione a delinquere di stampo mafioso (clan "De Stefano"). Più in particolare, l'istante era stato raggiunto da un primo titolo, annullato dal Tribunale del riesame per carenza della gravità indiziaria, quanto al delitto di omicidio e - a seguito di rinvio dopo l'annullamento della Corte di cassazione - anche per il reato associativo. La custodia era stata ripristinata a seguito della sentenza di condanna di primo grado, ribaltata però in appello, quanto all'omicidio e ai connessi reati in materia di armi e annullata ex art. 521, comma 2, c.p.p. quanto al reato associativo. Il M., nuovamente condannato per il delitto associativo, ad esito di giudizio abbreviato, era stato infine assolto in grado di appello, con sentenza irrevocabile in data 7 marzo 2014.

La difesa documentava l'impossibilità di produrre il verbale di interrogatorio reso ex art. 294 c.p.p. nell'ambito del processo "Olimpia 1".

2. La Corte territoriale ha ritenuto la tempestività della domanda limitatamente al periodo di detenzione subito per il reato associativo, quanto ai restanti reati di omicidio e in materia di armi rilevando che la diversa sentenza assolutoria era divenuta definitiva il 12 aprile 2002, cosicché rispetto ad essa la domanda era pervenuta ben oltre il termine previsto dall'art. 315 c.p.p.

3. Il Ministero resistente, con l'Avvocatura Distrettuale di Stato di Reggio Calabria, ha proposto ricorso, formulando due motivi.

Con il primo, ha dedotto erronea applicazione della legge penale con riferimento alla ritenuta tempestività della domanda in relazione alla pronuncia di annullamento ex art. 521, comma 2, c.p.p., rilevando che la restituzione degli atti al P.M. da parte della Corte d'Assise d'appello avrebbe segnato una netta cesura tra la fattispecie originariamente contestata e quella oggetto di successiva imputazione, atteso che, in ipotesi di diversità del fatto, la concreta imputazione in ragione della quale la parte ha patito la carcerazione preventiva sarebbe venuta meno, indifferenti risultando le rinnovate valutazioni della Procura esitate nella diversa contestazione.

Con il secondo motivo, ha dedotto vizio della motivazione con riferimento alla ritenuta insussistenza di un comportamento ostativo da parte del M.

In particolare, il deducente ha rilevato che la Corte territoriale avrebbe erroneamente considerato irrilevanti la biografia giudiziaria del M., già sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di P.S., e le plurime frequentazioni del medesimo con pregiudicati, segnalate dalla Questura di Reggio Calabria, come pure valutato dal Tribunale del riesame.

4. Con memoria depositata il 14 settembre 2017, la difesa del M. ha contestato le conclusioni dell'Avvocatura Distrettuale di Stato di Reggio Calabria, sia con riferimento alla tempestività della domanda, rilevando che la pronuncia ex art. 521, comma 2, c.p.p. non ha natura di sentenza, bensì di ordinanza, e richiamando l'art. 314, comma 3, codice di rito che, per l'appunto, non contempla tale provvedimento; che avuto riguardo al comportamento ostativo, profilo rispetto al quale ha rilevato la genericità del relativo motivo, non essendo indicata alcuna condotta dolosa o gravemente colposa del M., sinergicamente correlata alla sua detenzione.

Sotto altro profilo, la difesa ha rilevato che la sottoposizione alla misura di prevenzione era antecedente alla detenzione, cosicché è rimasta elemento neutro per la Corte della riparazione.

5. Con successiva memoria, depositata il 15 gennaio 2018, la difesa del M. ha controdedotto alle conclusioni scritte, rassegnate dal Procuratore Generale presso questa Corte.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso va rigettato.

2. La Corte d'appello, nell'ordinanza censurata, ha compiuto una esaustiva ricostruzione dell'intera e complicata vicenda processuale che ha riguardato il M., prendendo le mosse dall'originario titolo cautelare, con cui era stata ritenuta la gravità degli elementi indiziari per tutti i reati contestati (ivi compreso l'omicidio di De Carlo Filippo e i connessi reati in materia di armi), costituiti: dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia L. e R., secondo i quali il M. apparteneva alle fila del clan De Stefano, quale capo della locale di Terreti; dalla presenza del Sa., considerato soggetto affiliato, presso l'abitazione dei M.; dall'episodio concernente il rinvenimento delle armi in piena guerra di mafia; infine, dallo stesso omicidio De Carlo.

Il Tribunale del riesame aveva convalidato il titolo limitatamente al reato associativo, disconoscendo però a dette propalazioni un'analoga valenza quanto all'omicidio De Carlo, per incertezza circa l'identificazione dell'indagato tra i componenti della sua famiglia.

La Corte d'assise, dal canto suo, aveva invece ravvisato una convergenza del molteplice nelle dichiarazioni del R. (il quale aveva indicato il M. quale killer del De Carlo) e dello I. (il quale aveva più genericamente fatto riferimento alla famiglia M.), valorizzando la causale del fatto di sangue (eliminazione di un appartenente all'opposto schieramento dei Se.), sulla quale aveva ritenuto anche la convergenza delle dichiarazioni del L. e ravvisato una conferma nei successivi omicidi del padre e del cugino dell'odierno istante, di chiara matrice mafiosa, attribuiti al clan Se.

Il titolo cautelare, ancora in vigore limitatamente al reato associativo, era stato peraltro annullato dalla Corte di cassazione, la quale non aveva validato la convergenza del molteplice, stanti la genericità delle dichiarazioni dei collaboratori L. e R. (dei quali non era neppure indicata la fonte delle conoscenze) e la dubbia utilizzabilità degli altri elementi valorizzati in sede cautelare (annullamento del titolo per l'omicidio De Carlo; assoluzione dalla accusa di tentata estorsione; risalenza al 1989 dei contatti con il Sa., la cui affiliazione era stata sostenuta senza indicare i relativi elementi a sostegno).

La Corte d'assise d'appello di Reggio Calabria aveva infine assolto il M. dall'omicidio e dai reati in materia di armi, ritenendo che non vi fosse, quanto alla riferibilità soggettiva dei fatti, alcuna convergenza tra le dichiarazioni di R. e I., come di contro ritenuto dai giudici di primo grado, atteso che I. aveva riferito che i Se. avevano attribuito a Nino M. e al nipote Annunziato di Terreti l'omicidio De Carlo, coloro che furono poi vittime del duplice omicidio confessato dal dichiarante, per il quale egli, agendo per vendetta nelle fila dei Se., era stato definitivamente condannato nel processo "Santa Barbara", non potendosi ritenere individualizzante la generica dichiarazione de relato del R.

Quanto, invece, al reato associativo, quel giudice aveva ritenuto la diversità del fatto contestato, l'esame delle dichiarazioni dei collaboratori corroborando l'ipotesi che il M. fosse inserito, non già nel clan De Stefano, bensì nell'autonomo alleato clan M., avente propria ed esclusiva competenza mafiosa sul locale di Terreti. Anche per tale diverso reato, tuttavia, la successiva condanna in abbreviato è stata ribaltata dal giudice d'appello che ha ritenuto le dichiarazioni dei collaboratori sfornite di riscontri esterni e indebolite anzi da elementi di segno opposto (tra i quali la circostanza che il M. non fosse stato oggetto della vendetta dei Se. per l'omicidio De Carlo, che aveva invece colpito il padre e il cugino).

Quel giudice ha poi ritenuto il difetto di elementi che consentissero di apprezzare la "mafiosità" del personaggio, non essendo stati indicati episodi che ne dimostrassero il carisma criminale, essendo stato assolto dal delitto di tentata estorsione, laddove la presenza del Sa. nell'edificio in cui abitava il nucleo familiare dell'istante, asseritamente giustificata dalla vendita di un'autovettura blindata, poteva essere spiegata alla luce dell'interesse del padre dell'odierno istante, M. Antonino, all'epoca ancora vivo.

Tale lunga premessa, qui sinteticamente ripresa, ha consentito alla Corte della riparazione di affermare l'insussistenza di comportamenti dolosi o gravemente colposi del M. che abbiano dato o concorso a dare causa alla detenzione patita. Infatti, quel giudice ha cura di precisare che gli elementi indiziari provenivano da dichiarazioni di terzi e non avevano passato il vaglio cautelare, tanto da potersi configurare una vera e propria ipotesi di ingiustizia formale del titolo, cosicché ne è stata ritenuta impossibile la rivalutazione ai fini del diverso vaglio devoluto.

3. Il primo motivo è manifestamente infondato.

L'argomento difensivo non ha alcun pregio, tenuto conto del chiaro disposto di cui all'art. 314, comma 3, c.p.p., che espressamente equipara alla sentenza assolutoria di merito il decreto di archiviazione e la sentenza di non luogo a procedere, ma non menziona il provvedimento (ordinanza) adottato dal giudice ai sensi dell'art. 521, comma 2, c.p.p. [cfr., peraltro, sulla natura meramente processuale della pronuncia, anche quando contenuta in sentenza, tale in quanto il giudice non si pronuncia né sul fatto contestato, né su quello accertato, Sez. un., n. 2477 del 6 dicembre 1991 Ud. (dep. 17 marzo 1992), Pagliani, Rv. 1893971.

Sul punto, deve pertanto affermarsi il principio secondo cui l'ordinanza con la quale il giudice dispone la trasmissione degli atti al pubblico ministero se accerta che il fatto è diverso da come descritto nel decreto che dispone il giudizio ovvero nella contestazione effettuata a norma degli artt. 516, 517 e 518, comma 2, c.p.p., non è equiparabile alla sentenza irrevocabile di proscioglimento, al provvedimento di archiviazione o alla sentenza di non luogo a procedere ai fini della decorrenza del termine di cui all'art. 315, comma 1, c.p.p.

4. Il secondo motivo è infondato.

4.1. È necessario, intanto, precisare che il caso all'esame riguarda un'ipotesi di c.d. ingiustizia formale del titolo cautelare (art. 314, comma 2, c.p.p.), essendosi conclusa la fase cautelare con l'annullamento del titolo per difetto delle condizioni di applicabilità di cui agli artt. 273 e 280 c.p.p. con riferimento a tutti i reati contestati, nonostante la seconda parte del periodo di privazione della libertà trovi causa nella nuova emissione della misura, a seguito della condanna di primo grado, senza che sia stato indicato alcun elemento di novità rispetto agli elementi indiziari posti a base del primo provvedimento annullato.

Deve, pertanto, affermarsi il principio secondo cui, in caso di annullamento del titolo per difetto delle condizioni di applicabilità di cui agli artt. 273 e 280, c.p.p., ricorre un'ipotesi di ingiustizia del titolo ai sensi dell'art. 314, comma 2, c.p.p., anche laddove il titolo sia ripristinato a seguito di condanna in primo o secondo grado.

Quanto alla rilevanza del comportamento ostativo dell'interessato, nella specifica ipotesi, questa Corte ha già chiarito che la circostanza di avere dato o concorso a dare causa alla custodia cautelare per dolo o colpa grave opera, quale condizione ostativa al riconoscimento del diritto all'equa riparazione per ingiusta detenzione, anche in relazione alle misure disposte in difetto delle condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280 c.p.p., precisando, tuttavia, che tale operatività non può concretamente esplicarsi, in forza del meccanismo causale che governa l'indicata condizione ostativa, nei casi in cui l'accertamento dell'insussistenza ab origine delle condizioni di applicabilità della misura in oggetto avvenga sulla base dei medesimi elementi trasmessi al giudice che ha reso il provvedimento cautelare, in ragione unicamente di una loro diversa valutazione [cfr. Sez. un., n. 32383 del 27 maggio 2010, D'Ambrosio, Rv. 247663; conf. sez. 4, n. 8021 del 28 gennaio 2014, Rv. 258621; n. 25223 del 26 novembre 2013 Cc. (dep. 13 giugno 2014), Rv. 259207, in cui si è operata la netta distinzione tra annullamento della misura per insussistenza ab origine delle condizioni di applicabilità e revoca di essa per il venir meno, anche per fatti sopravvenuti, dei presupposti legittimanti la sua adozione].

In tali casi, infatti, il giudice della cautela era oggettivamente nelle condizioni di negare o revocare la misura e, pertanto, nessuna efficienza causale nella sua determinazione può attribuirsi al soggetto passivo [cfr. ex multis, sez. 4, n. 34541 del 24 maggio 2016, Rv. 267506; sez. 4, n. 13559 del 2 dicembre 2011 Cc. (dep. 11 aprile 2012), Rv. 253319; sez. 4, n. 8021 del 28 gennaio 2014, Rv. 258621].

4.2. Nel caso in esame, peraltro, va in ogni caso considerato che i gravi indizi sono stati sostanzialmente ricavati da propalazioni di terzi e che in nessuno dei provvedimenti richiamati nell'ordinanza (e, invero, anche in ricorso) si fa riferimento a comportamenti propri del M. valutati ai fini d'interesse specifico, al di fuori della sua sottoposizione a misura di prevenzione, risalente rispetto alla custodia subita e alla conoscenza di un soggetto, il Sa., la cui affiliazione era stata posta in dubbio dai giudici di merito nella sentenza assolutoria. Quanto alle ulteriori frequentazioni, pur richiamate in ricorso, esso è addirittura ai limiti della genericità, perché - pur facendo riferimento ad una nota della Questura e ad un elenco di nominativi - il deducente non ha indicato in che modo tali elementi abbiano condizionato l'erronea emissione del titolo da parte dell'A.G., condizione indispensabile per poter ravvisare un comportamento ostativo rilevante.

Sul punto, infatti, deve ribadirsi in linea generale che, la condizione ostativa al riconoscimento del diritto all'indennizzo, rappresentata dall'avere il richiedente dato causa all'ingiusta carcerazione, deve concretarsi in comportamenti, non esclusi dal giudice della cognizione, di tipo extra-processuale (grave leggerezza o macroscopica trascuratezza tali da aver dato causa all'imputazione) o processuale (autoincolpazione, silenzio consapevole sull'esistenza di un alibi) [cfr. sez. 4, n. 4372 del 21 ottobre 2014 Cc. (dep. 29 gennaio 2015), Rv. 263197], e che essa può sì essere integrata anche da comportamenti extraprocessuali gravemente colposi quali le frequentazioni ambigue con soggetti gravati da specifici precedenti penali o coinvolti in traffici illeciti, ma solo ove questi siano idonei ad essere interpretati come indizi di complicità, in rapporto al tipo e alla qualità dei collegamenti con tali persone, così da essere poste quanto meno in una relazione di concausalità con il provvedimento restrittivo adottato (cfr. sez. 3, n. 39199 dell'1 luglio 2014, Rv. 260397). In altri termini, esse - per avere rilievo ai presenti fini - devono prestarsi oggettivamente ad essere interpretate come indizi di complicità, quando non sono giustificate da rapporti di parentela e sono poste in essere con la consapevolezza che trattasi di soggetti coinvolti in traffici illeciti [cfr. sez. 4, n. 1235 del 26 novembre 2013 Cc. (dep. 14 gennaio 2014), Rv. 258610].

4.3. Infine, deve pure rilevarsi che la Corte territoriale, facendo corretta applicazione dei principi più volte rassegnati da questa Corte, ha considerato i precedenti penali e le misure di prevenzione cui il M. è stato sottoposto per negare un adeguamento della somma quantificata in virtù del solo calcolo aritmetico [cfr., sul punto specifico, sez. 4, n. 13504 del 22 febbraio 2017, Rv. 269793; n. 21575 del 29 gennaio 2014, Rv. 259212; n. 2430 del 13 dicembre 2011 Cc. (dep. 20 gennaio 2012), Rv. 251739; n. 27529 del 20 maggio 2008, Rv. 240889].

5. Al rigetto segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Depositata il 28 febbraio 2018.