Corte di cassazione
Sezione I penale
Sentenza 14 marzo 2018, n. 14032

Presidente: Di Tomassi - Estensore: Rocchi

RITENUTO IN FATTO

1. Con l'ordinanza indicata in epigrafe, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Padova, in funzione di giudice dell'esecuzione, dichiarava inammissibile per sopravvenuta carenza di interesse la richiesta della difesa di M. Davide di annullamento o sospensione dell'ordine di carcerazione emesso dal P.M.

Il P.M. aveva rigettato la richiesta di M., in regime di arresti domiciliari ex art. 89 d.P.R. 309 del 1990 presso una Comunità Terapeutica, di revoca o sospensione dell'ordine di carcerazione, rilevando che la condanna posta in esecuzione era per un delitto compreso tra quelli di cui all'art. 4-bis ord. pen.; il condannato, pertanto, era stato tradotto in carcere il 27 maggio 2017.

Tuttavia, il 7 giugno 2017, il Magistrato di Sorveglianza di Trento aveva ammesso in via provvisoria M. all'affidamento in prova in casi particolari ex art. 94 d.P.R. 309 del 1990 con obbligo di risiedere presso la stessa Comunità Terapeutica presso la quale, in precedenza, era ristretto agli arresti domiciliari: tale provvedimento, secondo il giudice dell'esecuzione, faceva venire meno l'interesse all'accoglimento del ricorso poiché era già stata accolta l'istanza di affidamento avanzata dal condannato.

2. Ricorre per cassazione il difensore di Davide M., deducendo violazione dell'art. 656, comma 9, lett. a), c.p.p.

La norma prevede una eccezione al regime di non sospendibilità dell'esecuzione della pena comminata per determinate ipotesi delittuose: di conseguenza, l'ordine di carcerazione emesso dalla Procura della Repubblica di Padova violava la norma, mentre l'ordinanza impugnata non ripristinava la legalità violata.

In un secondo motivo il ricorrente deduce violazione degli artt. 568, comma 4, e 591 c.p.p.: all'udienza davanti al giudice dell'esecuzione, il difensore di M. aveva rappresentato che sussisteva l'interesse ad ottenere il provvedimento richiesto al fine di proporre istanza di riparazione per ingiusta detenzione; inoltre, l'ordinanza di inammissibilità pregiudicava l'interesse della parte, ammessa al gratuito patrocinio, alla liquidazione dei compensi del difensore.

Il ricorrente conclude per l'annullamento dell'ordinanza impugnata.

3. Il Procuratore Generale dott. Giovanni Di Leo, nella requisitoria scritta, conclude per l'annullamento senza rinvio dell'ordinanza impugnata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Esaminando preliminarmente il merito della questione, non pare esservi dubbio che la mancata sospensione dell'ordine di esecuzione da parte del P.M. fu errata: l'art. 656, comma 9, c.p.p. indica chiaramente che il divieto di sospensione dell'esecuzione previsto per i condannati per i delitti di cui all'art. 4-bis ord. pen. non si applica a coloro che si trovano agli arresti domiciliari disposti ai sensi dell'art. 89 d.P.R. 309 del 1990, come all'epoca il ricorrente.

Questa Corte ha statuito che la sospensione dell'esecuzione della pena detentiva, a seguito della modifica apportata dall'art. 4-undevicies della l. n. 49 del 2006 al comma 9 dell'art. 656 c.p.p., può essere disposta, nei confronti del condannato per i delitti di cui all'art. 4-bis l. n. 354 del 1975 nell'ipotesi in cui questi si trovi agli arresti (Sez. 1, n. 31144 dell'11 luglio 2007 - dep. 31 luglio 2007, Felaco, Rv. 237477).

2. Ciò premesso, la decisione del giudice si fonda sulla carenza sopravvenuta di interesse in conseguenza dell'ammissione di M. all'affidamento in prova ai sensi dell'art. 94 d.P.R. 309 del 1990.

Il ricorrente non nega che l'interesse del condannato ad ottenere la scarcerazione sia stato soddisfatto; piuttosto, indica due profili in base ai quali permarrebbe l'interesse ad un provvedimento del giudice dell'esecuzione che affermi l'illegittimità della mancata sospensione dell'ordine di esecuzione del P.M.: ma tale interesse non sussiste.

In primo luogo, non sussiste l'interesse fondato sulla futura proposizione di una domanda di riparazione per ingiusta detenzione.

Il ricorrente ricorda che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 310 del 1996, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 314 c.p.p., nella parte in cui non prevede il diritto all'equa riparazione anche per la detenzione ingiustamente patita a causa di erroneo ordine di esecuzione e sottolinea che la giurisprudenza di questa Corte ha specificato che, per poter invocare in tali casi il diritto all'equo indennizzo, è necessario che l'erroneità o l'illegittimità dell'ordine di esecuzione sia accertata con decisione irrevocabile (Cass. Sez. 4, Sentenza n. 8117 del 24 novembre 2005 - dep. 8 marzo 2006, Rv. 233647).

La pronuncia richiamata, peraltro, non si attaglia al caso in esame: in effetti, in questa sede non si verte in punto di illegittimità dell'ordine di esecuzione, ma di adozione (come si è visto errata) di una modalità di esecuzione differente; si deve ricordare, infatti, che, se il P.M. avesse sospeso l'esecuzione ai sensi dell'art. 656, comma 5, c.p.p., il condannato sarebbe rimasto, in forza dell'art. 656, comma 10, c.p.p., in detenzione domiciliare, espiando in tal modo (fino alla decisione del Tribunale di Sorveglianza) la pena inflittagli.

Questa Corte ha già affermato, sia pure con riferimento alla detenzione presso il domicilio ai sensi della l. 199 del 2010, che l'esecuzione domiciliare della pena in luogo dell'espiazione in carcere attiene alle modalità esecutive della condanna e la sua negazione non configura, pertanto, alcuna illegittima violazione della libertà personale del condannato, sia per la disciplina europea, sia per l'ordinamento interno (Sez. 1, n. 15747 del 20 gennaio 2014 - dep. 8 aprile 2014, Forlani, Rv. 259596): cosicché ha escluso che potesse configurarsi il permanere dell'interesse al ricorso avverso il rigetto della richiesta di esecuzione domiciliare della pena in capo a condannato che, nelle more del giudizio di legittimità, aveva cessato l'espiazione della condanna, benché si invocasse, appunto, la possibilità di proporre domanda per la riparazione per ingiusta detenzione.

3. Non sussiste nemmeno l'interesse basato sul disposto dell'art. 106 d.P.R. 115 del 2002, menzionato in quanto il ricorrente è stato ammesso al patrocinio a spese dello Stato.

La norma dispone che "il compenso per le impugnazioni coltivate dalla parte non è liquidato se le stesse sono dichiarate inammissibili".

Ma da una parte l'incidente di esecuzione promosso davanti al Giudice per l'annullamento o la sospensione dell'ordine di carcerazione emesso dal P.M. ai sensi dell'art. 656 c.p.p. non costituisce "impugnazione", atteso che trattasi di provvedimento non giurisdizionale e non autonomamente impugnabile, avverso il quale è proponibile soltanto l'incidente di esecuzione (Sez. 3, n. 10126 del 29 gennaio 2013 - dep. 4 marzo 2013, Di Cristo, Rv. 254978; Sez. 5, n. 31916 del 2 luglio 2007 - dep. 3 agosto 2007, Perilli, Rv. 237574); dall'altra la previsione dell'art. 106 cit. deve essere interpretata nel senso che la mancata liquidazione del compenso per le impugnazioni consegue esclusivamente alla proposizione di una impugnazione ab origine inammissibile e non ad una pronuncia di inammissibilità derivata da cause sopravvenute di cui, quindi, colui che ha proposto l'impugnazione non è responsabile.

Tale interpretazione appare obbligata alla luce della ratio della norma - che è quella di non porre a carico dello Stato il compenso per attività processuale inutile o dilatoria - e della irragionevolezza della soluzione opposta.

Alla luce di queste considerazioni, il ricorso deve essere rigettato.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Depositata il 26 marzo 2018.