Corte di cassazione
Sezione I civile
Ordinanza 4 giugno 2018, n. 14242

Presidente: Campanile - Relatore: Cirese

FATTI DI CAUSA

R. Antonio, all'epoca dei fatti Capo della Sezione Doganale di Campobasso, in data 22 gennaio 2010 presentava ricorso ex art. 145 e ss. del d.lgs. n. 196 del 2003 al Garante per la protezione dei dati personali esponendo che, a causa di una indagine avviata dalla locale Procura della Repubblica nel corso della quale era stato sottoposto a perquisizione personale, domiciliare e locale, in data 21 settembre 2006 era stato trasferito presso l'Ufficio Tecnico Finanza di Pescara e che il provvedimento di trasferimento datato 26 ottobre 2006, in cui si dava atto della vicenda, era stato comunicato utilizzando un protocollo ordinario e rendendo quindi la nota di pubblico dominio.

Il ricorso proposto al Garante della privacy veniva respinto con provvedimento del 6 maggio 2010 sull'assunto che i dati personali non fossero stati trattati in violazione di legge e ciò in quanto il relativo trattamento appariva finalizzato a garantire una corretta esecuzione del rapporto di lavoro.

A seguito di ricorso ex art. 152 d.lgs. n. 196 del 2003 proposto dal R. nei confronti dell'Agenzia delle Dogane nonché nei confronti del Garante per la Protezione dei dati personali, il Tribunale di Roma, in accoglimento della domanda, con sentenza n. 8437/2013 depositata in data 20 maggio 2013 condannava l'Agenzia delle Dogane al risarcimento del danno non patrimoniale sofferto dall'attore che liquidava in Euro 10.000,00 oltre alle spese legali.

Avverso tale decisione, l'Agenzia delle Dogane e dei Monopoli ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi di censura, cui il R. ha resistito con controricorso.

Parte ricorrente depositava memorie ex art. 378 c.p.c.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso (omesso esame di fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione tra le parti in relazione all'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.) il ricorrente censura la decisione resa dal Tribunale di Roma nella parte in cui ha collegato l'illecita diffusione dei dati giudiziari riguardanti il R. all'invio della nota in data 26 ottobre 2006 omettendo di valutare fatti decisivi emersi nel corso del giudizio da cui inferire che la diffusione della notizia dell'apertura di un procedimento penale nei suoi confronti si era verificata prima dell'invio della predetta nota.

1.2. Il motivo è infondato.

Ed invero, parte ricorrente nel censurare la decisione del giudice di merito che ha ritenuto illegittime le modalità con cui vennero diffusi i dati riguardanti la vicenda giudiziaria del R., si è diffusa nella ricostruzione di una serie di circostanze (ed in particolare l'invio delle note in data 15 e 21 settembre 2006) atte a dimostrare che la propalazione delle notizie riguardanti l'odierno ricorrente poteva essere ricondotta ad un periodo antecedente alla trasmissione della nota in data 26 ottobre 2006 di talché tali notizie potevano ritenersi già note nell'ambiente di lavoro. Al di là della genericità di tale assunto, che in realtà non individua un momento o un fatto specifico, tali argomentazioni mostrano di non cogliere la ratio decidendi della sentenza impugnata che si fonda sulla ritenuta illegittimità delle modalità con cui vennero diffusi i dati giudiziari riguardanti il R. in data 26 ottobre 2006, ovvero mediante una nota ordinaria e non riservata, dunque acquisibile non solo dal titolare del trattamento ma da qualunque altro impiegato dell'Agenzia delle Dogane, ovvero senza le cautele previste nel caso di trattamento di dati giudiziari.

2. Con il secondo motivo di ricorso (violazione degli artt. 2050, 2697, 2729 c.c. e 15 del d.lgs. n. 196 del 2003 in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.) il ricorrente censura la decisione di merito che ha accolto la domanda pur non essendo stata fornita la prova del danno non patrimoniale nonché del nesso causale tra la violazione ed il danno lamentato.

2.2. Il motivo è infondato.

Con tale motivo di ricorso si censura la sentenza impugnata per aver riconosciuto il diritto al risarcimento del danno senza aver svolto alcun accertamento dell'esistenza di tale danno nonché del nesso di causalità tra il trattamento dei dati personali ed il danno patito.

A riguardo va premesso che la sola circostanza che i dati siano stati utilizzati dal titolare o da chiunque in modo illecito o scorretto non è idonea di per sé a legittimare l'interessato a richiedere il risarcimento del danno non patrimoniale.

Ed invero "Il danno non patrimoniale risarcibile ai sensi dell'art. 15 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (cosiddetto codice della privacy), pur determinato da una lesione del diritto fondamentale alla protezione dei dati personali tutelato dagli artt. 2 e 21 Cost. e dall'art. 8 della CEDU, non si sottrae alla verifica della "gravità della lesione" e della "serietà del danno" (quale perdita di natura personale effettivamente patita dall'interessato), in quanto anche per tale diritto opera il bilanciamento con il principio di solidarietà ex art. 2 Cost., di cui il principio di tolleranza della lesione minima è intrinseco precipitato, sicché determina una lesione ingiustificabile del diritto non la mera violazione delle prescrizioni poste dall'art. 11 del codice della privacy ma solo quella che ne offenda in modo sensibile la sua portata effettiva (Cass., n. 16133/2014).

Ed inoltre "I danni cagionati per effetto del trattamento dei dati personali in base all'art. 15 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, sono assoggettati alla disciplina di cui all'art. 2050 c.c., con la conseguenza che il danneggiato è tenuto solo a provare il danno e il nesso di causalità con l'attività di trattamento dei dati, mentre spetta al convenuto la prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno (Cass., n. 18812/2014).

La fattispecie delineata dai due commi dell'art. 15 del d.lgs. n. 196 del 2003 pone quindi due presunzioni: quella secondo la quale il danno è da addebitare a chi ha trattato i dati personali o a chi si è avvalso di un altrui trattamento a meno che egli non dimostri di avere adottato tutte le misure idonee per evitarlo ai sensi dell'art. 2050 c.c. e quella secondo la quale le conseguenze non patrimoniali di tale danno - sia esso di natura contrattuale che extracontrattuale - sono da considerare in re ipsa a meno che il danneggiante non dimostri che esse non vi sono state ovvero che si tratta di un danno irrilevante o bagatellare ovvero ancora che il danneggiato abbia tratto vantaggio dalla pubblicazione dei dati.

Presunzioni, queste, che varranno sia nel caso in cui il danneggiante sia il titolare del trattamento che nel caso in cui egli sia un "chiunque", dato che gli interessi lesi di volta in volta attraverso un trattamento illecito, rappresentando diritti-interessi inviolabili del danneggiato, assumono un rilievo talmente evidente da comportare l'inversione dell'onere della prova; non a caso tale presunzione sull'an del danno non patrimoniale legata alla violazione delle regole di liceità correttezza è rafforzata proprio dal richiamo da parte del legislatore al concetto di attività pericolosa. Ed infatti il danno maggiormente connaturato all'illecito trattamento è proprio quello non patrimoniale sicché il non avere adottato le misure idonee ad evitarlo si rivela in sostanza come una violazione delle regole di correttezza e di liceità le quali sono finalizzate a bilanciare la libertà di chi tratta i dati con la preservazione della sfera del danneggiato.

Ovviamente, spetterà pur sempre al giudice dunque valutare, sulla base vuoi delle allegazioni del danneggiato, vuoi di semplici presunzioni, e tenendo conto dell'eventuale prova contraria fornita dal danneggiante, se il danno debba essere risarcito in quanto lesivo di diritti la cui violazione non debba e non possa essere tollerata dal danneggiato.

Una volta ritenuto pertanto che il bene violato faccia parte di quei valori fondamentali ovvero dei diritti inviolabili della persona, il giudice dovrà disporre che il danno debba essere risarcito, quanto meno in via equitativa, salvo la prova contraria addotta dal danneggiante.

Ciò premesso, dalla lettura della sentenza impugnata, sia pure in forma sintetica, si evince chiaramente come una volta ritenuta l'illecita lesione del diritto alla riservatezza del ricorrente mediante la diffusione di dati giudiziari inerenti alla sua persona, il giudicante ha ritenuto ricorrendo a presunzioni semplici ("è presumibile, senza alcun dubbio") che tale condotta abbia provocato nel ricorrente "un senso di forte turbamento e vergogna".

Una volta ritenuto provato il danno lo stesso è stato poi liquidato in via equitativa.

Orbene la sentenza impugnata, in linea con i principi enunciati, una volta accertata l'illegittimità della condotta posta in essere dall'Agenzia delle Dogane, ha ritenuto provato il danno parimenti dando atto che l'Agenzia delle Dogane non ha allegato né provato alcunché circa l'adozione di cautele volte a prevenire la conoscibilità dei dati.

In conclusione il ricorso va rigettato.

Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

- rigetta il ricorso;

- condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida nella misura di Euro 3200,00 (di cui Euro 200,00 per esborsi).

Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dichiara la non sussistenza dei presupposti dell'obbligo di versamento, a carico della parte ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.