Corte di cassazione
Sezione III penale
Sentenza 29 gennaio 2018, n. 29613

Presidente: Rosi - Estensore: Ciriello

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 19 aprile 2017 la Corte d'appello di Bologna ha, per quanto qui rileva, confermato la sentenza del 21 novembre 2012 del Tribunale di Reggio Emilia, con la quale [omissis] e [omissis] sono stati assolti dai capi di imputazione ascritti in rubrica, poiché i fatti non costituiscono i reati e con la quale è stato dichiarato nei confronti della sola [omissis] di non doversi procedere per il reato di minaccia, di cui al capo C), in seguito all'esclusione della contestata aggravante, per mancanza della condizione di procedibilità, in quanto non era stata sporta querela dalla persona offesa.

In particolare gli imputati erano stati tratti in giudizio per i seguenti fatti: il [omissis] poiché, in violazione degli artt. 81, 609-bis e 609-ter, ultimo comma, c.p., in più occasioni abusando della sua autorità di padre, del divario di età e della condizione di immaturità del figlio minore con violenza, consistita nell'abbassargli repentinamente i pantaloni, lo costringeva a compiere e subire atti sessuali, quali palpeggiamenti nelle parti intime e rapporti orali; [omissis] poiché, in violazione degli artt. 40, 81, 609-bis e 609-ter, ultimo comma, c.p., nonostante l'obbligo giuridico di evitare i gravi abusi perpetrati ai danni del figlio, non interveniva pur essendone a conoscenza e, poiché, in violazione dell'art. 612 c.p., minacciava in strada [omissis], ex insegnante del figlio, che aveva segnalato insieme all'insegnate [omissis] abusi subiti dal minore, con la seguente frase "Hai rovinato la mia famiglia... Ti devo vedere sotto terra a te e all'altra".

2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per Cassazione il Procuratore Generale della Repubblica, presso la Corte d'appello di Bologna, chiedendone l'annullamento.

2.1. Con il primo motivo il Procuratore Generale ha dedotto il vizio di motivazione in cui sarebbe incorsa la sentenza gravata, che non avrebbe correttamente valutato le dichiarazioni rese dalle testimoni [omissis] e [omissis] dalle quali si desumeva la condotta (quando le docenti avevano riferito delle confidenze giocose fatte dal minore di anni cinque, quali ad esempio "me lo ciuccia come un biberon", simulando il gesto con un cucchiaino).

Avrebbe errato la Corte d'appello (peraltro in contrasto con quanto ritenuto dal Tribunale di Reggio Emilia, che - affermata la natura oggettivamente sessuale del gesto - esclude il reato sulla scorta di un'interpretazione culturalmente orientata) nel pervenire alla assoluzione per l'assenza della componente soggettiva del reato, in quanto il gesto non sarebbe stato volto a soddisfare la concupiscenza dell'aggressore, o ad invadere la sfera sessuale della persona offesa, anche alla luce della dinamica dei fatti e della tradizione culturale del paese d'origine dell'imputato

2.2. Con il secondo motivo il PG ricorrente ha dedotto il vizio di violazione di legge, in relazione agli art. 609-bis e 609-ter c.p., per essere pervenuta, la Corte territoriale, pur avendo adottato una concezione soggettivistica di atto sessuale, alla stessa formula assolutoria del giudice di primo grado (il fatto non costituisce reato), escludendo erroneamente il dolo generico, in contrasto con la prevalente giurisprudenza che vi attribuisce rilievo nei reati in discorso, affermando che l'elemento soggettivo sussista quando l'agente sia consapevole di porre in essere un gesto invasivo della sfera e della libertà sessuale della persona offesa e, nel caso di minore, risultando protetto il bene giuridico dell'integrità e dello sviluppo psico-fisico della persona offesa.

2.3. Con il terzo motivo il Pg ricorrente si duole della contraddittorietà della sentenza che, pur avendo escluso il reato sessuale, grazie all'adozione di una nozione soggettivistica, affermi che la condotta sia comunque discutibile; altresì illogicamente la corte di merito avrebbe affermato per un verso, che il minore fosse un bambino autonomo, socievole, sereno e tranquillo, per altro verso, avrebbe escluso la rilevanza delle sue dichiarazioni che non potrebbero, in ragione della immaturità dovuta alla giovane età, essere poste a base della valutazione della condotta dei genitori, con riferimento alla valenza sessuale e l'intrusività del gesto.

2.4. Con il quarto motivo è stato dedotto il vizio di violazione di legge, in relazione all'art. 5 c.p., in cui sarebbe incorsa la Corte di appello, nel pervenire alla esclusione del dolo del reato in ragione delle origini culturali dell'imputato, nel cui contesto tali fatti sarebbero tollerati sulla base di quanto riferito dallo stesso e dai suoi parenti, e su una lettera inviata dal Prefetto della Provincia di Vlore (Albania), nonostante il documento fosse non verificato e privo di autenticazione (come evidenziato dal primo giudice e dal PM appellante) e che, in tale documento, si riferisse solo come in alcune zone rurali della Albania costituirebbe una tradizione accarezzare il figlio maschio nelle parti intime, quale augurio di prosperità.

Deduce altresì, il Pg ricorrente, che la corte avrebbe omesso ogni pronuncia sulle specifiche censure avanzate in appello dal PG e dal PM ricorrenti, con le quali gli appellanti avevano dedotto la violazione dell'art. 5 c.p. che esclude la rilevanza dell'ignoranza della legge penale, evidenziando, altresì come tale ignoranza fosse in concreto da escludere per il ricorrente, che viveva in Italia da molti anni e doveva essere quindi consapevole dalla illiceità della condotta, peraltro sanzionata anche dal codice penale albanese.

2.5. Con il quinto motivo è stato dedotta la violazione di legge, in relazione all'art. 612 c.p., in cui sarebbe incorsa la sentenza impugnata pervenendo all'assoluzione della imputata, sulla base della esclusione della gravità della minaccia che deve essere invece valutata in relazione alle circostanze di fatto, alla gravità della frase proferita, al grado di offensività della condotta, agli effetti che la stessa ha prodotto in capo alla persona offesa (in particolare la persona offesa [omissis] aveva dichiarato di essersi sentita in ansia e nel panico, avendo timore di poter incontrare nuovamente l'imputata insieme ad altre persone e che queste potessero metterle le mani addosso).

3. Con memoria del 6 dicembre 2017 gli imputati [omissis] e [omissis] hanno contestato i motivi di ricorso prospettati dalla Procura Generale della Repubblica presso la Corte d'Appello di Bologna, evidenziandone l'inammissibilità. In particolare, secondo la difesa la corte di appello avrebbe congruamente valutato le dichiarazioni del minore, in relazione anche agli esiti della perizia psicologica e dell'incidente probatorio; entrambe le sentenze sarebbero logicamente e adeguatamente motivate e non contraddittorie, nonostante avessero valutato sotto profili diversi l'assenza dell'elemento soggettivo: la prima sotto il profilo del dolo, la seconda accedendo ad una nozione soggettivistica di atto sessuale.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso del procuratore generale è fondato.

3.1. Le sentenze di primo grado e di appello, pur conformi nella assoluzione degli imputati e nella formula prescelta per i reati sessuali ("perché il fatto non costituisce reato"), vi pervengono (ferma, dal punto di vista storico, la oggettività dei fatti, in quanto emersi dai filmati delle intercettazioni audiovisive captate all'interno della camera da letto degli imputati) sulla base di argomentazioni sensibilmente diverse, il che induce ad escludere che si sia in presenza, nel caso, di una cd. doppia conforme (con la conseguente ammissibilità del ricorso del PG quanto ai denunciati vizi di motivazione).

3.1.1. Ed infatti, dalla mera lettura della sentenza di primo grado, emerge che il Tribunale ha sviluppato, per affermare l'innocenza degli imputati, "un'interpretazione culturalmente orientata" dei fatti, riconoscendo rilievo alla cultura di appartenenza degli imputati, nella quale le condotte sarebbero prive di disvalore e dunque consentite o tollerate.

In particolare, il giudice di primo grado, ha ritenuto (cfr. pag. 8) quanto all'elemento materiale del reato, che alcun dubbio può esistere circa la sua sussistenza sulla base delle "indagini, delle acquisizioni istruttorie dibattimentali, dei dati delle intercettazioni ambientali, ed in particolar modo di quelle eseguite nella sala colloqui del carcere di Reggio Emilia" e che nessuna incertezza può porsi circa la qualificazione oggettiva della natura "sessuale" dell'atto contestato, dal momento che "quale che sia la concezione di atto sessuale che si adotti, nessuno dubita che nel nostro ordinamento il contatto con l'organo genitale maschile, il bacio o ancor più l'inserimento in bocca del pene integri un atto sessuale in quanto invasivo della sfera sessuale, e integrante un rapporto del corpo dell'agente con parti del corpo della vittima naturalmente idonee a produrre stimolazione sessuale".

Ha tuttavia ritenuto il Tribunale, sul piano dell'elemento soggettivo, che il "corretto esame del caso esige un'accurata valutazione della colpevolezza poiché il dolo assume connotazioni differenziate alla luce delle questioni che da tempo la dottrina propone con riferimento alla valenza "culturale" del fatto, fattore che può influire sia sulla coscienza dell'antigiuridicità della condotta, sia sulla comprensione dell'elemento della fattispecie che presenta specifiche caratteristiche culturali, sia in definitiva sull'ignoranza inevitabile del precetto penale", pervenendo quindi alla assoluzione giacché mancherebbe alcun "elemento aggiuntivo rispetto alla materialità del fatto che induca a pensare che la condotta dell'imputato, nato e cresciuto in un diverso contesto culturale, fosse accompagnata dalla coscienza del carattere oggettivamente sessuale secondo la nostra cultura di riferimento, del bacio e tanto più del succhiotto sul pene del bambino anche quando effettuato dal genitore, per cui detta condotta integra di regola il reato di violenza sessuale salva la ricorrenza di specifiche e univoche circostanze di contorno idonee a provare l'assenza di qualsivoglia stimolo sessuale alla base del comportamento" (così pag. 11).

3.1.2. Diversamente il giudice di appello, ha escluso il reato (v. pag. 20) ritenendo che i fatti anche sul piano materiale si traducessero in meri "gesti di affetto e di orgoglio paterno nei confronti del figlio maschio, assolutamente privi di qualsiasi implicazione di carattere sessuale e indicati come rispondenti a tradizioni di zone rurali interne dell'Albania, Paese di origine degli imputati"; tali elementi, inducono la corte di appello ad escludere sia l'elemento soggettivo, in una "concezione soggettivistica della nozione di atto sessuale" non essendo gli atti diretti in alcuno modo a soddisfare "qualche forma di concupiscenza sessuale nei confronti del minore", che l'elemento oggettivo; ciò in quanto la corte di appello, dopo aver affermato che "sotto un profilo meramente oggettivo l'atto, per avere una connotazione sessuale, deve possedere un intrinseco significato sessuale e una obiettiva attitudine offensiva dell'altrui sfera sessuale" (pag. 13) ritiene che "l'atto commesso dall'imputato non ha in sé alcune intrinseco significato sessuale, né alcuna obiettiva attitudine offensiva dell'altrui sfera sessuale, risultando esso una commistione di abitudini del gruppo sociale di appartenenza con una chiara manifestazione ludica, ultra affettiva e dimostrativa dell'orgoglio per l'unico figlio maschio" (pag. 14).

3.1.3. In sintesi, mentre il giudice di prime cure ha escluso il configurarsi della fattispecie delittuosa sulla base di una riconosciuta scriminante culturale, per escludere il dolo, il giudice di seconde cure ha invece escluso il reato, mancando nei fatti sia la condotta rilevante penalmente che il dolo, sempre alla luce della tradizione culturale di appartenenza dell'imputato.

3.2. Né l'una, né l'altra interpretazione risultano adeguate, incorrendo i giudici di merito nei vizi di motivazione denunciati dal PG ricorrente.

3.3. Appare il caso di premettere, in termini generali, che la categoria dei reati culturalmente orientati, o culturalmente motivati, si è via via imposta all'attenzione dell'interprete, in ragione dell'imponente fenomeno [dei] flussi migratori e alla cd. globalizzazione che caratterizzano, in questo periodo storico, l'Europa e il nostro paese. Occorre altresì considerare che il diritto penale, e segnatamente gli elementi integrativi delle fattispecie penali, risentono fortemente del periodo storico e della evoluzione della "cultura" e della sensibilità diffuse. Sotto tale ultimo profilo, la giurisprudenza di questa sezione, anche recentemente, ha ribadito, sia pure con riferimento a diverse fattispecie, che occorre promuovere un approccio esegetico che abbia in considerazione il mutamento del costume e sentire sociale in continuo divenire, di modo che le decisioni si mostrino come il prodotto di una "interpretazione contestualizzata in relazione al momento storico, più che una tralatizia ripetizione di concetti (il comune sentire; la pubblica decenza) ritenuti scontati e immutevoli" (così, Sez. 3, n. 39860 del 23 aprile 2014 - dep. 26 settembre 2014, Rv. 26249001, valutando la nozione normativa di "pubblica decenza" sottolinea come la stessa sia stata esaminata e costantemente rivisitata alla luce dell'evolversi dei costumi sociali e del comune senso del decoro e della decenza, dovendosi ricostruire per i casi in cui la norma penale imponga la valutazione di elementi integrativi tratti dal comune sentire sociale, che la interpretazione si evolva conformemente ai principi di "civiltà ed elasticità giuridica").

Accanto a tale linea interpretativa, che non rinnega né esclude la necessità di procedere ad una interpretazione delle norme penali che risenta del momento storico e culturale di riferimento (ivi compreso con riguardo al fenomeno del cd. "multiculturalismo", quale precipitato della integrazione dei migranti nella compagine sociale) occorre tuttavia tenere presente che nessun sistema penale potrà mai abdicare, in ragione del rispetto di tradizioni culturali, religiose o sociali del cittadino o dello straniero, alla punizione di fatti che colpiscano o mettano in pericolo beni di maggiore rilevanza (quali i diritti inviolabili dell'uomo garantiti e i beni ad essi collegati tutelati dalle fattispecie penali), che costituiscono uno sbarramento invalicabile contro l'introduzione, di diritto e di fatto, nella società civile, di consuetudini, prassi, costumi che tali diritti inviolabili, della persona, cittadino o straniero, pongano in pericolo o danneggino (si veda Cass. pen., sez. III, 26 giugno 2007, n. 34909, per la esclusione della rilevanza della condizione soggettiva dello straniero, pur ignorante della illiceità della condotta di violenza sessuale intraconiugale).

Lo stesso legislatore, del resto, come già posto in rilievo da questa corte (v. Cass., sez. VI, 26 novembre 2008 (Ud. 26 novembre 2008, dep. 16 dicembre 2008), n. 46300) ha considerato la posizione dell'immigrato in termini di integrazione, prevedendo, per esempio quale circostanza aggravante (si veda il d.l. 26 aprile 1993, n. 122, art. 3, comma 1, conv. con modif. in l. 25 giugno 1993, n. 205) la "finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso", al tempo stesso ribadendo la repressione di condotte pure conformi a credenze religiose, sociali e culturali ma confliggenti con beni rilevanti che non tollerano compressione come la salute o l'integrità fisica (in tal senso la norma sulla repressione penale dell'infibulazione, stabilita dall'art. 583-bis c.p. (l. 9 gennaio 2006, n. 7, art. 6, comma 1).

3.4. Sulla scorta di tali considerazioni emerge dunque come la categoria dei reati culturalmente orientati, tutt'altro che uniforme nella casistica, potrà essere valutata dall'interprete solo sulle premesse dell'attento bilanciamento tra il diritto, pure inviolabile, del soggetto agente a non rinnegare le proprie tradizioni culturali, religiose, sociali, ed i valori offesi o posti in pericolo dalla sua condotta.

Al tempo stesso al fine di valutazione l'incidenza della matrice culturale sulla consapevolezza dell'agente, sarà utile, come suggerito dalla dottrina più recente, la valutazione della natura della norma culturale in adesione alla quale è stato commesso il reato, se di matrice religiosa, o giuridica (come accadrebbe se la norma culturale trovasse un riscontro anche in una corrispondente norma di diritto positivo vigente nell'ordinamento giuridico del Paese di provenienza dell'immigrato, dovendosi ritenere tale circostanza rilevante quanto alla consapevolezza della antigiuridicità della condotta e quindi alla colpevolezza del fatto commesso), e del carattere vincolante della norma culturale (se rispettata in modo omogeneo da tutti i membri del gruppo culturale o, piuttosto, desueta e poco diffusa anche in quel contesto).

Infine, assumerà rilievo, come pure evidenziato dalla dottrina, il grado di inserimento dell'immigrato nella cultura e nel tessuto sociale del Paese d'arrivo o il suo grado di perdurante adesione alla cultura d'origine, aspetto relativamente indipendente dal tempo di permanenza nel nuovo Paese.

4. Sulla scorta di tali premesse possono essere dunque valutati i motivi di ricorso.

4.1. Congiuntamente possono essere esaminati i motivi svolti con riguardo alla presunta tradizione culturale e alla sua rilevanza rispetto alla consapevolezza dell'attore, anche con riferimento all'art. 5 c.p.

Non risultando la ratio decidendi delle due sentenze uniforme, come chiarito sub 3, non si può affermare che le stesse si integrino reciprocamente; appare dunque carente la motivazione della sentenza impugnata allorché non si confronta con le allegazioni del PM e del PG ricorrenti, che avevano evidenziato al fine di escluderne la rilevanza, come la presunta tradizione culturale affermata dalla difesa fosse tutt'altro che dimostrata, ma emergente dalle mere dichiarazioni difensive degli imputati e dei loro congiunti e da una documentazione prodotta dalle parti non riscontrata né fornita di ufficialità (nota della prefettura di Vlore che riferirebbe della esistenza di una tradizione per cui un padre manifesta affetto per il proprio figlio, accarezzandolo nelle parti intime esprimendo così la gloria della prosperità e continuità della generazione); tale tradizione, evidenziavano gli appellanti, non solo era stata esclusa dal consulente del p.m. (sia pure sulla base di mere indagini sommarie in letteratura), ma in concreto risultava ridimensionata dal fatto che, nel caso di specie, non di mere occasionali carezze si trattava, ma di vere e proprie fellationes (cfr. atto appello PM pag. 6).

A fronte della precisa censura al riguardo formulata dal PG in sede di appello, pure richiamata dalla Corte in premessa (cfr. pag. 12 della sentenza impugnata, ove, riportando i motivi di appello, la stessa corte dà atto del motivo con cui l'appellante, oltre a lamentare la non ufficialità del documento ne evidenziava anche la irrilevanza, giacché in esso si parlava di carezze e non di "succhiotti"), la sentenza non offre alcuna motivazione, assumendo, peraltro in termini dubbiosi, la rilevanza confermativa della documentazione prodotta circa le tradizioni riferite dagli imputati e dai loro congiunti (tradizioni che "sembrerebbero trovare conferma", si legge pag. 21 della sentenza impugnata nella contestata documentazione).

Neppure si confronta, la corte, con le specifiche doglianze svolte dal PM appellante, ove si evidenzia che tanto dai filmati acquisiti, che dalle testimonianze delle insegnanti, considerate pienamente attendibili in primo grado, emerge come il bambino, persona offesa, avrebbe testualmente descritto la condotta del padre affermando che costui "gli succhiava il pisellino come un biberon" e avrebbe mimato altresì la condotta mettendosi in bocca un cucchiaino e "facendo su e giù" con lo stesso.

4.2. Ancora, sotto il medesimo profilo, il PG ricorrente ha evidenziato l'omissione di pronuncia in cui sarebbe incorsa la corte territoriale, riguardo la natura della presunta norma culturale in adesione alla quale è stato commesso il reato, giacché, come esplicitamente dedotto già nell'atto di appello (pag. 9 appello del PG) tale presunta tradizione sarebbe in contrasto anche con le prescrizioni del codice penale albanese (artt. 100 e ss.), risulterebbe smentita finanche in Albania (risultando, anche a volere accedere alla tesi difensiva, limitata solo alle zone rurali, e limitata alla mera carezza bene-augurale) e rispetto alla quale non poteva essere neppure ammessa una non consapevolezza della illiceità da parte degli imputati, che erano da tempo residenti in Italia e non potevano ignorarne le leggi, se non inescusabilmente.

In termini generali questa corte ha più volte evidenziato, sulla base delle indicazioni fornite dalla Corte costituzionale con sent. n. 364 del 1988, l'irrilevanza della ignoranza della legge penale, allorché fondata sulla mera diversità della legge italiana rispetto a quella del proprio paese di origine (Sez. 3, n. 3114 del 7 dicembre 1993 Ud. (dep. 15 marzo 1994), Tabib, Rv. 196816); tale principio è stato affermato vieppiù nei casi di mere usanze culturali o religiosa (cfr. Cass., sez. VI, 26 novembre 2008 (ud. 26 novembre 2008, dep. 16 dicembre 2008), n. 46300), attribuendosi rilevanza all'ignoranza limitatamente e conformemente ai criteri tracciati sub 3, solo con riguardo a tradizioni di sicura e comprovata esistenza (come la circoncisione del neonato) e tenendo presenti le indicazioni fornite dalla Corte costituzionale, sulla base di un "raffronto tra dati oggettivi, che possono avere determinato nell'agente l'ignorantia legis circa l'illiceità del suo comportamento, e dati soggettivi attinenti alle conoscenze e alle capacità dell'agente, che avrebbero potuto consentire al medesimo di non incorrere nell'error iuris" (così Sez. 6, n. 43646 del 22 giugno 2011 - dep. 24 novembre 2011, S., Rv. 25104401, con riguardo alla condizione di una persona di etnia africana, che, migrata in Italia, non è risultata essere ancora integrata nel relativo tessuto sociale, e nell'ordinamento giuridico del nostro Paese, portatrice di un bagaglio culturale estraneo alla civiltà occidentale, che si sia trovata in una oggettiva condizione di difficoltà nel recepire, con immediatezza, valori e divieti a lei ignoti).

Calando nel caso di specie, tali principi, la dichiarata ignoranza da parte degli imputati e della loro famiglia, circa l'offensività della condotta posta in essere ai danni del figlio minore, così come l'ignoranza sull'esistenza della norma penale incriminatrice di essa non appare idonea ad integrare una causa di non colpevolezza degli imputati stessi che oltre a risultare ben integrati nel tessuto sociale ove vivevano e lavoravano da anni (tanto che i fatti emergono nel contesto scolastico ove il proprio figlio era collocato), allegano a propria discolpa una ignoranza che non assumerebbe rilevanza anche nel paese di origine, ove i medesimi fatti risultano sanzionati penalmente.

4.3. Del pari, con assorbimento degli ulteriori profili di contraddittorietà e travisamento denunciati, deve essere accolto il motivo di ricorso ove si evidenzia come la decisione della corte territoriale incorra nel vizio di violazione di legge in merito alla interpretazione della natura sessuale degli atti posti in essere (sul punto in contrasto evidente con quanto affermato dal giudice di primo grado), fondando il proprio giudizio su una nozione soggettivista di atti sessuali, ed escludendo erroneamente la rilevanza penale del fatto poiché la condotta posta in essere non presenterebbe una valenza sessuale per il soggetto agente, non risultando posta in essere la attività per soddisfare la propria concupiscenza ma solo per esprimere affetto e orgoglio paterno (conformemente alla presunta tradizione).

Come chiarito in più occasioni da questa corte, in termini generali, devono essere considerati atti sessuali tutti quegli atti indirizzati verso zone erogene, e che siano idonei a compromettere la libera determinazione della sessualità del soggetto passivo e ad entrare nella sua sfera sessuale con modalità connotate esemplificativamente dalla costrizione, sostituzione di persona, abuso di condizioni di inferiorità fisica o psichica. Tra questi vanno ricompresi i toccamenti, palpeggiamenti e sfregamenti sulle parti intime delle vittime, suscettibili di eccitare la concupiscenza sessuale anche in modo non completo e/o di breve durata, essendo del tutto irrilevante, ai fini della consumazione, che il soggetto abbia o meno conseguito la soddisfazione erotica (Sez. 3, n. 7772 del 2 maggio 2000, Calò G., Rv. 217017 - Sez. 3, n. 4402 del 10 marzo 2000, Rinaldi M., Rv. 220938 - Sez. 3, n. 3990 del 24 novembre 2000 Ud. (dep. 1° febbraio 2001), Invidia G., Rv. 218542 - Sez. 3, n. 15488 del 22 febbraio 2002, Obiang Esono Fulgencio, Rv. 221453 - Sez. 3, n. 39718 del 17 giugno 2009, Baradel e altro, Rv. 244622 - Sez. 3, n. 21336 del 15 aprile 2010, M., Rv. 247282 - Sez. 3, n. 20754 del 17 aprile 2013, S., Rv. 255907 - Sez. 3, n. 4913 del 22 ottobre 2014 Ud. (dep. 3 febbraio 2015), P., Rv. 262470 - Sez. 3, n. 21020 del 28 ottobre 2014 Ud. (dep. 21 maggio 2015), Pg in proc. C., Rv. 263738 - cfr anche Sez. 3, n. 39710 del 21 settembre 2011, R., Rv. 251318 dove è massimato il seguente principio: l'intenzionale e prolungata pressione sulla zona genitale della vittima, sia essa protetta o meno dalla biancheria, integra il reato di violenza sessuale anche nel caso in cui sia ispirata da una finalità diversa da quella a sfondo sessuale).

In linea generale, i descritti orientamenti, coerenti con le finalità di tutela della libertà di autodeterminazione sessuale, poste a base dell'intervento normativo introduttivo dell'art. 609-bis c.p., sono volti a ritenere che ogni atto invasivo della sfera sessuale di un soggetto, in mancanza del consenso di quest'ultimo, leda tale bene giuridico, a prescindere dal motivo per il quale il soggetto agente lo abbia posto in essere.

Allorché, poi, come nel caso di specie, le vittime di violenze sessuali siano minori, l'oggetto di tutela risulta vieppiù rafforzato, giacché il delitto di cui all'art. 609-quater c.p. (atti sessuali con minorenne) tutela l'integrità fisio-psichica del minore nella prospettiva di un corretto sviluppo della personalità sessuale attraverso una assoluta intangibilità, nell'ipotesi di minore degli anni quattordici (comma primo, n. 1), o relativa, con riferimento a specifiche situazioni di parentela o di affidamento del minore stesso (comma primo, n. 2) e si configura anche in assenza di pressioni coercitive, atteso che in tali ipotesi si può realizzare una agevolazione del consenso o un impedimento al rifiuto dello stesso (ex multis, Sez. 3, n. 29662 del 13 maggio 2004, P.G. in proc. Sonno, Rv. 229358 - Sez. 3, n. 24258 del 27 maggio 2010, V., Rv. 247289).

5. Infine, fondato è altresì l'ultimo motivo di ricorso, con il quale si deduce il vizio di carente motivazione in cui sarebbe incorsa la corte escludendo la gravità delle minacce, nonostante queste siano state realizzate nei confronti di due testimoni nel processo, poco prima la data prevista per la loro escussione in dibattimento, e a fronte del - pacifico - contenuto letterale delle stesse.

Al riguardo questa corte ha chiarito, in materia di reati contro la persona, come, ai fini della configurabilità del reato di minaccia grave, ex art. 612, comma secondo, c.p., rileva l'entità del turbamento psichico che l'atto intimidatorio può determinare sul soggetto passivo; pertanto, non è necessario che la minaccia di morte sia circostanziata, potendo benissimo, ancorché pronunciata in modo generico, produrre un grave turbamento psichico, avuto riguardo alle personalità dei soggetti (attivo e passivo) del reato (Sez. 5, n. 44382 del 29 maggio 2015 Ud., Mirabello, Rv. 266055 - Sez. 6, n. 35593 del 16 giugno 2015 Ud., Romeo, Rv. 264341); tale profilo, nel caso di specie, non risulta esaminato dalla corte di merito che omette di tenere conto del principio riportato, al fine di valutare adeguatamente se le minacce, per le circostanze di tempo e di luogo, oltre che per il tenore letterale, potessero assumere rilevanza penale, anche su questo punto non confrontandosi adeguatamente con i motivi di appello.

Pertanto la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Bologna che provvederà a nuovo giudizio.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Bologna e manda al giudice del rinvio per la liquidazione delle somme del presente grado sostenute dalla parte civile.

Depositata il 2 luglio 2018.

P. Dubolino, F. Costa

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