Corte di cassazione
Sezione II penale
Sentenza 7 giugno 2018, n. 30399
Presidente: Davigo - Estensore: Rago
RITENUTO IN FATTO
1. B. Eugenio e B. Nicola, a mezzo dei comuni difensori (avv.ti Campo e Giorgi), con due comuni separati ricorsi peraltro sovrapponibili quanto al contenuto, hanno proposto ricorso per cassazione contro l'ordinanza con la quale il Tribunale di Lucca, in data 14 febbraio 2018, aveva rigettato l'istanza di riesame contro il decreto di sequestro preventivo emesso nei loro confronti in quanto indagati per i reati di cui agli artt. 648-ter.1 (B. Eugenio) e 648-bis c.p. (B. Nicola), il cui delitto presupposto è costituito dal delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale (artt. 216/1, n. 1, e 223/1 r.d. n. 267/1942) ampiamente descritto nei capi di incolpazione (cfr. pag. 1 ss. dell'ordinanza impugnata).
I suddetti ricorrenti hanno dedotto:
1.1. la violazione dell'art. 49/2 c.p.: ad avviso di entrambi i difensori, le condotte di autoriciclaggio e riciclaggio contestate ai ricorrenti erano inidonee ad integrare l'elemento materiale richiesto dagli artt. 648-ter.1 e 648-bis c.p. (ostacolo alla identificazione della provenienza delittuosa) in quanto la Guardia di Finanza era perfettamente a conoscenza che il denaro asseritamente riciclato provenisse dalla Sivep s.r.l. Nonostante la deduzione effettuata sul punto, il Tribunale aveva omesso completamente di confrontarsi con essa e con i relativi documenti dimostrativi della tesi difensiva;
1.2. la violazione dell'art. 43 c.p. in quanto il Tribunale, nonostante il motivo di censura dedotto, aveva omesso di motivare sulla carenza dell'elemento psicologico (dolo) in capo a B. Nicola che, sulla base degli elementi indicati dalla difesa, non poteva avere avuto alcuna consapevolezza della provenienza delittuosa del denaro;
1.3. la violazione dell'art. 648-ter.1 c.p. per non avere il tribunale motivato sulla censura in ordine alla clausola di non punibilità delle condotte "di mera utilizzazione o godimento personale" dei beni che siano provento di delitto. B. Eugenio, infatti, aveva utilizzato il denaro asseritamente provento di delitto, per estinguere un finanziamento e, quindi, per adempiere ad una propria obbligazione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La violazione dell'art. 49/2 c.p.
La censura è manifestamente infondata.
Sul punto, è sufficiente il rinvio alla lettura delle pagg. 8 ss. dell'ordinanza impugnata in cui il Tribunale, disattendendo la medesima censura dedotta in questa sede, spiega, in modo ampio in punto di fatto e, quindi, incensurabile, le ragioni per cui le complesse e molteplici operazioni poste in essere dai ricorrenti resero "più difficoltosa la tracciabilità", essendosi trattato «di un insieme fittissimo di attività ed operazioni che hanno avuto ad oggetto somme distratte dai conti della società Sivep s.r.l. confluite poi su conti esteri personali riconducibili a B. Eugenio».
Pertanto, tanto basta, allo stato degli atti, per ritenere manifestamente infondata la censura dedotta.
2. La violazione dell'art. 43 c.p.
La censura - relativa alla sola posizione di B. Nicola - è anch'essa manifestamente infondata in quanto, contrariamente a quanto dedotto dalla difesa, il tribunale ha puntualmente disatteso la tesi difensiva (pag. 10 ss.) con ampia motivazione che, alla stregua degli elementi fattuali evidenziati, non può dirsi apparente e, quindi, censurabile in questa sede.
3. La violazione dell'art. 648-ter.1 c.p.
La suddetta censura è infondata per le ragioni di seguito indicate.
La problematica dedotta dalla difesa del ricorrente B. Eugenio attiene all'interpretazione del comma quarto dell'art. 648-ter.1 c.p. a norma del quale «Fuori dei casi di cui ai commi precedenti, non sono punibili le condotte per cui il denaro, i beni o le altre utilità vengono destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale».
Il ricorrente, infatti, sostiene che, poiché il denaro proveniente dal delitto presupposto era stato utilizzato per estinguere un finanziamento e, quindi, per adempiere ad una propria obbligazione, egli non sarebbe punibile a norma del cit. comma quarto.
Il tribunale ha disatteso la suddetta censura adducendo la seguente testuale motivazione: «Né può invocarsi, con precipuo riferimento alla condotta di autoriciclaggio contestata a B. Eugenio, la disciplina di cui all'art. 648-ter.1, comma 4, c.p., che esclude la punibilità delle condotte di "mera utilizzazione o godimento personale" dei beni che siano provento del delitto, ostandovi il chiaro incipit della disposizione menzionata. laddove richiede - contrariamente al caso che ci occupa - che non si verta in una tipica ipotesi di autoriciclaggio. L'aver destinato - B. Eugenio - una parte delle somme distratte dalla Sivep Srl - pervenute da un conto corrente monegasco aperto presso Banca Credit du Nord - all'estinzione di un debito nei confronti della società Rubidio Svp Srl. per procedere alla cancellazione dell'ipoteca su un complesso immobiliare poi ceduto per l'importo dichiarato di euro 2.350.000,00, mediante denaro proveniente da società panamense Naiser International Corp, società anonima, non appare integrare l'ipotesi contemplata dall'invocato comma 4 dell'art. 648-ter.1 cp.».
3.1. È ben noto il dibattito che è sorto in dottrina sulla suddetta clausola all'indomani dell'introduzione nel nostro ordinamento del delitto di autoriciclaggio.
La questione, sostanzialmente, è sorta sul significato da attribuire alla locuzione «Fuori dei casi di cui ai commi precedenti [...]».
Secondo una prima tesi, la norma va interpretata secondo il senso fatto palese dal significato proprio delle suddette parole e cioè nel senso che la suddetta clausola non si applica alle condotte descritte nei commi precedenti: "fuori dei casi [...]" a livello semantico, null'altro significa che la fattispecie prevista è diversa ed autonoma rispetto a quelle previste nei "commi precedenti".
Quindi, la norma - avendo una sua autonomia e ponendosi all'esterno delle fattispecie previste nei commi precedenti - avrebbe una mera funzione, per così dire, "interpretativa" o di puntualizzazione del primo comma, proprio perché alle medesime conclusioni si sarebbe potuti pervenire anche senza di essa sulla base di una semplice interpretazione a contrario. Infatti, posto che il primo comma sanziona l'impiego, la sostituzione, il trasferimento in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative del denaro, dei beni o delle altre utilità provenienti dal commissione del delitto presupposto, si sarebbe potuto ugualmente pervenire a ritenere non punibile «le condotte per cui il denaro, i beni o le altre utilità vengono destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale», proprio perché si tratta di condotte estranee all'area della condotta tipica, e, quindi, non punibili in ossequio al principio di legalità.
A tale tesi si è obiettato che la suddetta interpretazione renderebbe del tutto superfluo il quarto comma. Sul presupposto, quindi di un evidente lapsus calami in cui il legislatore, per sciatteria, sarebbe incorso, si è proposto di "riscrivere" e leggere la norma, in tale senso: «nei casi di cui ai commi precedenti [...]».
Di conseguenza, a seguito della evidente diortosi alla quale la norma è sottoposta, a livello dogmatico, la suddetta clausola fungerebbe come un limite alla condotta descritta e sanzionata nel primo comma, ossia come una causa di non punibilità da applicare tutte le volte in cui la condotta "autoriciclatoria", di per sé punibile, sia stata finalizzata alla utilizzazione o godimento personale del denaro, dei beni o delle altre attività provento del delitto presupposto.
Ovvie ed intuitive le diverse conseguenze pratiche delle due tesi.
La prima tesi - chiaramente restrittiva e di stretta interpretazione - pone il suo baricentro sulla condotta descritta nel primo comma: di conseguenza, una volta che la fattispecie criminosa sia integra[ta] in tutti i suoi requisiti, l'agente è sanzionabile penalmente essendo del tutto indifferente che, alla fine delle operazioni di autoriciclaggio, egli abbia "meramente" utilizzato o goduto personalmente dei suddetti beni a titolo personale.
La seconda tesi - avente natura estensiva - tende a ricondurre nell'alveo delle condotte non punibili tutte quelle che, seppure rientranti in quelle descritte nel primo comma, abbiano come risultato finale quello della mera utilizzazione o godimento personale dei proventi del reato presupposto.
3.2. Questo Collegio ritiene di aderire alla prima delle tesi prospettate per le ragioni di seguito indicate.
Innanzitutto, non si ritiene percorribile la via interpretativa per effetto della quale il dato letterale ("fuori dei casi [...]") dovrebbe essere sostituito con un'altra ed antitetica locuzione ("nei casi [...]") perché il significato della norma finirebbe per essere stravolto sia dal punto di vista semantico-giuridico che di quello dogmatico: la suddetta interpretazione, quindi, violerebbe il canone interpretativo dell'art. 12 delle preleggi.
Non è, poi, neppure vero che il quarto comma, ove interpretato nella sua letteralità, sarebbe del tutto inutile.
Infatti, la norma in questione, ove attentamente letta, prevede un peculiare caso di non punibilità che, limitando in negativo la fattispecie criminosa di cui al primo comma, ad essa si affianca contribuendo a definirne, in modo più chiaro, l'ambito di operatività.
Al fine di chiarire quanto appena affermato, occorre, però, procedere all'analisi della struttura normativa della clausola in esame.
Soggetto agente è sempre solo e soltanto chi - a norma del primo comma - abbia commesso o concorso a commettere un delitto non colposo e cioè chi abbia commesso il delitto presupposto.
La condotta: il comma quarto dispone la non punibilità delle condotte "per cui il denaro, i beni o le altre utilità vengono destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale". In modo immediato si coglie la differenza rispetto alla condotta del primo comma che sanziona, invece, la reimmissione nel circuito economico legale dei proventi illeciti: il comma quarto, infatti, a differenza del primo comma, prevede la "destinazione" alla "mera utilizzazione o al godimento personale".
Tale complessa locuzione sottintende:
a) un uso diretto - da parte dell'agente - dei beni provento del delitto presupposto: ciò può agevolmente desumersi dall'aggettivazione ("mera": rectius: semplice; "personale") dei due sostantivi ("utilizzazione"; "godimento") che non lascia spazio ad alternative. Di conseguenza, non rientra nella fattispecie in esame una condotta a seguito della quale l'agente utilizzi i beni in modo indiretto, come, ad esempio, il godimento personale di un bene provento del delitto presupposto che, anziché essere goduto o utilizzato personalmente (quindi, direttamente), sia stato, prima di essere utilizzato, sottoposto ad operazioni di riciclaggio che ne abbiano concretamente ostacolato l'identificazione della provenienza delittuosa;
b) l'assenza di qualsiasi attività concretamente ostacolativa dell'identificazione della provenienza delittuosa del bene. A tale conclusione si perviene, innanzitutto, sulla base del testo legislativo: se l'agente - per non essere punibile - deve limitarsi a "destinare" direttamente i beni provento del delitto presupposto a sue esigenze "personali", ne consegue che tale condotta, conseguente a quella del delitto presupposto, non può e non dev'essere caratterizzata da comportamenti decettivi proprio perché l'agente non avrebbe alcuna necessità "giuridica" di ostacolare l'identificazione della provenienza delittuosa del bene che utilizza.
Sul punto, infatti, va considerato che, fino all'introduzione della nuova norma, l'autoriciclaggio - in qualunque forma fosse realizzato - alla stregua della clausola di riserva di cui all'incipit dell'art. 648-bis c.p., non era punibile in base al cd. privilegio dell'autoriciclatore la cui condotta post factum non era, appunto, considerata punibile trattandosi della naturale prosecuzione del delitto presupposto.
Però, una volta superato il dogma della non punibilità, ed introdotto il nuovo reato, il legislatore ha ritenuto di conservare per l'autoriciclatore una ristretta area di "privilegio" limitandola, appunto, ai due tassativi casi di cui al quarto comma: mera utilizzazione e godimento personale dei beni provento dal delitto presupposto.
In secondo luogo, la soluzione prospettata è coerente con la ratio legis: con l'introduzione del reato di autoriciclaggio il legislatore ha avuto come obiettivo quello di sterilizzare il profitto conseguito con il reato presupposto e, quindi, di impedire all'agente sia di reinvestirlo nell'economia legale sia di inquinare il libero mercato ledendo l'ordine economico con l'utilizzo di risorse economiche provenienti da reati: fu proprio questa, infatti, la ragione principale per cui venne messo in discussione e superato il cd. privilegio dell'autoriciclatore.
L'ubi consistam del reato di autoriciclaggio (e di riciclaggio) consiste, quindi, nel divieto di condotte decettive finalizzate a rendere non tracciabili i proventi del delitto presupposto, proprio perché, solo ove i medesimi siano tracciabili si può impedire che l'economia sana venga infettata da proventi illeciti che ne distorcano le corrette dinamiche.
Sarebbe, quindi, paradossale consentire all'agente del reato presupposto di effettuare una tipica condotta di autoriciclaggio (rendere non tracciabile i proventi del reato) e, al contempo, consentirgli di usufruire della clausola di non punibilità.
La non punibilità trova, infatti, una sua logica e coerente spiegazione nel divieto del ne bis in idem sostanziale (punizione di due volte per lo stesso fatto) ma solo e solamente a condizione che l'agente si limiti al mero utilizzo o godimento dei beni provento del delitto presupposto senza che ponga in essere alcuna attività decettiva al fine di ostacolarne l'identificazione quand'anche la suddetta condotta fosse finalizzata ad utilizzare o meglio godere dei suddetti beni.
La norma, quindi, è chiara nella sua ratio: limitare la non punibilità ai soli casi in cui i beni proventi del delitto restino cristallizzati - attraverso la mera utilizzazione o il godimento personale - nella disponibilità dell'agente del reato presupposto, perché solo in tale modo si può realizzare quell'effetto di "sterilizzazione" che impedisce - pena la sanzione penale - la reimmissione nel legale circuito economico; ma anche sicuramente opportuna proprio perché, con la tassativa indicazione dei casi di non punibilità, contribuisce a delimitare, in negativo, l'area di operatività di cui al primo comma che, invece, descrive, in positivo, la condotta punibile.
All'esito della suddetta disamina può, in conclusione, enunciarsi il seguente principio di diritto: «la clausola di non punibilità prevista nel comma quarto dell'art. 648-ter.1 c.p. a norma della quale "Fuori dei casi di cui ai commi precedenti [...]" va intesa ed interpretata nel senso fatto palese dal significato proprio delle suddette parole e cioè che la fattispecie ivi prevista non si applica alle condotte descritte nei commi precedenti. Di conseguenza, l'agente può andare esente da responsabilità penale solo e soltanto se utilizzi o goda dei beni proventi del delitto presupposto in modo diretto e senza che compia su di essi alcuna operazione atta ad ostacolare concretamente l'identificazione della loro provenienza delittuosa».
3.3. Alla stregua del principio di diritto enunciato, la censura va, quindi, disattesa.
Infatti, essendo pacifico che il denaro derivante dal reato presupposto (bancarotta) fu sottoposto a numerose e complesse operazioni dirette concretamente ad ostacolare l'identificazione della provenienza delittuosa (cfr. supra § 1), ne consegue che il ricorrente correttamente è stato indagato per il delitto di autoriciclaggio (e, quindi, nei suoi confronti emesso il decreto di sequestro finalizzato alla confisca ex art. 648-quater c.p.), a norma del primo comma di cui all'art. 648-ter.1 c.p., quand'anche si volesse ritenere che il denaro, all'esito delle suddette operazioni di "ripulitura", fu utilizzato per estinguere un debito personale.
Invero, la clausola di non punibilità non può essere invocata proprio perché l'utilizzo del denaro, da parte del ricorrente, fu indiretto e solo dopo che erano state effettuate condotte decettive finalizzate a concretamente ostacolare l'identificazione della provenienza delittuosa.
4. In conclusione, le impugnazioni devono ritenersi infondate ed i ricorrenti condannati al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Depositata il 5 luglio 2018.