Corte di cassazione
Sezione I penale
Sentenza 27 marzo 2019, n. 21409

Presidente: Iasillo - Estensore: Centonze

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza emessa il 17 dicembre 2015 il Tribunale di Milano giudicava l'imputato Gabriele Leccisi colpevole del reato ascrittogli, ai sensi dell'art. 2, comma 1, d.l. 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, dalla l. 25 giugno 1993, n. 205, condannandolo alla pena di un mese, dieci giorni di reclusione e 100,00 euro di multa, oltre al pagamento delle spese processuali.

2. Con sentenza emessa il 17 aprile 2018 la Corte di appello di Milano, pronunciandosi sull'impugnazione proposta da Gabriele Leccisi, confermava la decisione impugnata e condannava l'appellante al pagamento delle ulteriori spese processuali.

3. Da entrambe le sentenze di merito, pienamente convergenti, emergeva che l'imputato Gabriele Leccisi, in occasione della seduta pubblica della Commissione congiunta del Consiglio comunale di Milano su sicurezza e coesione sociale, polizia locale, protezione civile e volontariato, politiche sociali e servizi per la salute, avente a oggetto il cosiddetto "Piano Rom" e svoltasi l'8 maggio 2013, eseguiva il "saluto fascista", anche noto come "saluto romano", compiendo in tal modo una manifestazione esteriore tipica di un'organizzazione politica perseguente finalità vietate, ai sensi dell'art. 3 della l. 13 ottobre 1975, n. 654.

Occorre premettere che la vicenda criminosa si inserisce in un più ampio contesto, rappresentato dalle proteste sviluppatesi a margine delle attività di sgombero di un insediamento Rom, ubicato a Milano, in Viale Ungheria, che avevano creato grandi tensioni sociali nell'ambiente cittadino, in conseguenza delle quali l'imputato aveva organizzato una manifestazione di protesta contro il Comune di Milano, accusato di inerzia.

In questo contesto, l'8 maggio 2013, il ricorrente - contemporaneamente allo svolgimento della seduta sopra citata - aveva organizzato, a Milano, in Piazza San Babila, una protesta contro le modalità di attuazione del "Piano Rom", per impedire la quale il presidente della Commissione sicurezza del Consiglio comunale di Milano, Mirko Mazzali, aveva invitato l'imputato ad assistere alla seduta consiliare, invitandolo contestualmente a desistere dall'organizzazione della manifestazione.

Pertanto, l'8 maggio 2013, si svolgeva la seduta in cui si sarebbe dovuto discutere del "Piano Rom", nel corso della quale intervenivano gli assessori comunali Marco Granelli e Pierfrancesco Majorino. Subito dopo, tenendo in mano il volantino della manifestazione organizzata dall'imputato, interveniva il consigliere comunale Anita Sonego, chiedendo al presidente della seduta, Mirko Mazzali, se erano presenti gli organizzatori della protesta, evidenziando che, in caso positivo, avrebbe abbondato l'aula.

A fronte di tale richiesta, l'imputato rispondeva a voce alta «presenti e ne siamo fieri», effettuando il "saluto fascista", che veniva ripreso dalla giornalista Oriana Liso con il suo telefono cellulare.

Questo gesto veniva notato e immediatamente stigmatizzato dall'assessore Majorino, come attestavano le riprese audiovisive effettuate nel corso della seduta e le trascrizioni dei lavori consiliari, che documentavano la sequenza concitata degli accadimenti criminosi, durante la quale alcuni consiglieri comunali accusavano Leccisi di essere "fascista", venendo a loro volta accusati dal ricorrente di essere "comunisti".

Lo stato di tensione seguito ai fatti in contestazione si placava solo a seguito dell'intervento del presidente della seduta, Mirko Mazzali, che faceva uscire dall'aula consiliare l'imputato e il soggetto che, in quel momento, lo accompagnava.

In questa cornice, i fatti delittuosi si ritenevano dimostrati sulla base [delle] riprese audiovisive effettuate nel corso della seduta pubblica e delle testimonianze dei soggetti presenti alla discussione sul "Piano Rom", tra le quali si attribuiva peculiare rilievo probatorio alle dichiarazioni dei testi Sonego e Liso, che riferivano concordemente di avere visto l'imputato effettuare il "saluto romano", accompagnandolo alla frase «presenti e ne siamo fieri». Tali testimonianze, secondo i Giudici di merito milanesi, confermavano l'assunto accusatorio, secondo cui l'imputato aveva effettuato il "saluto fascista" dopo la richiesta del consigliere Sonego, finalizzata a sapere se erano presenti in aula gli organizzatori della manifestazione di protesta.

Nel corso del giudizio, alle accuse che gli venivano rivolte, il ricorrente replicava negando di avere effettuato il "saluto romano" dopo l'intervento del consigliere comunale Sonego e precisando di essersi limitato ad alzare la mano, muovendola da destra verso sinistra, al solo scopo di segnalare la sua presenza in aula.

Sulla scorta di tale ricostruzione degli accadimenti criminosi l'imputato veniva condannato alle pene di cui in premessa.

4. Avverso la sentenza di appello l'imputato Gabriele Leccisi, a mezzo dell'avv. Lamberto Rongo, ricorreva per cassazione, deducendo cinque motivi di ricorso.

Con il primo motivo si deduceva la violazione di legge della sentenza impugnata, in riferimento all'art. 192 c.p.p., conseguente al fatto che la decisione in esame risultava sprovvista di un percorso argomentativo che desse esaustivamente conto del compendio probatorio indispensabile alla formulazione di un giudizio di colpevolezza nei confronti di Gabriele Leccisi, sul quale la Corte di appello di Milano si era espressa in termini apodittici e svincolati dalle risultanze processuali.

Con il secondo motivo, proposto in stretta correlazione con la doglianza precedente, si deduceva il vizio di motivazione della sentenza impugnata, in riferimento all'art. 192 c.p.p., conseguente al fatto che la decisione in esame risultava sprovvista di un percorso argomentativo che desse esaustivamente conto delle ragioni sulla base delle quali era stato formulato il giudizio di colpevolezza censurato, che presupponeva la contestualizzazione del gesto compiuto dal ricorrente in occasione della seduta pubblica in cui si discuteva del "Piano Rom", finalizzato a confermare la sua presenza in aula e non già a eseguire il "saluto fascista".

Con il terzo motivo si deduceva il vizio di motivazione della sentenza impugnata, conseguente al fatto che la decisione in esame risultava sprovvista di un percorso argomentativo che desse esaustivamente conto delle deduzioni difensive, finalizzate a evidenziare come il gesto manuale compiuto da Leccisi, quand'anche riconducibile al "saluto fascista", era inidoneo a ledere il bene giuridico protetto dall'art. 2 del d.l. n. 122 del 1993. Nel contesto di tale doglianza, si prospettava in via subordinata al mancato accoglimento della censura principale, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2 del citato decreto-legge, per l'indeterminatezza della relativa fattispecie, con conseguente violazione degli artt. 2, 3 e 111 Cost.

Con il quarto motivo si deduceva il vizio di motivazione della sentenza impugnata, conseguente al fatto che la decisione in esame risultava sprovvista di un percorso argomentativo che desse esaustivamente conto delle ragioni che non consentivano il riconoscimento in favore di Leccisi dell'esimente di cui all'art. 131-bis c.p., la cui concessione si imponeva alla luce delle circostanze di tempo e di luogo nelle quali si era concretizzata la condotta contestata, nel valutare le quali occorreva tenere conto della peculiarità dell'oggetto della seduta consiliare, riguardante il "Piano Rom", a margine della quale si erano svolte le manifestazioni di protesta organizzate dall'imputato.

Con il quinto motivo si deduceva il vizio di motivazione della sentenza impugnata, conseguente al fatto che la decisione in esame risultava sprovvista di un percorso argomentativo che desse esaustivamente conto delle ragioni che non consentivano di riconoscere all'imputato l'attenuante di cui all'art. 62, n. 2, c.p., la cui concessione si imponeva alla luce del comportamento provocatorio posto in essere dal consigliere comunale Sonego, le cui parole avevano indotto l'imputato a reagire effettuando il "saluto fascista".

Queste ragioni imponevano l'annullamento della sentenza impugnata nell'interesse di Gabriele Leccisi.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso proposto da Gabriele Leccisi è infondato.

2. Deve ritenersi inammissibile il primo motivo di ricorso, con cui si deduceva la violazione di legge della sentenza impugnata, in riferimento all'art. 192 c.p.p., conseguente al fatto che la decisione in esame risultava sprovvista di un percorso argomentativo che desse esaustivamente conto del compendio probatorio indispensabile alla formulazione di un giudizio di colpevolezza nei confronti di Gabriele Leccisi, al quale veniva contestato il delitto di cui all'art. 2, comma 1, del d.l. 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, dalla l. 25 giugno 1993, n. 205.

Occorre premettere che, secondo la Corte di appello di Milano, il compendio probatorio acquisito nei giudizi di merito era univocamente orientato in senso sfavorevole all'imputato, risultando dimostrato che il ricorrente, nella seduta della Commissione congiunta del Consiglio comunale di Milano, svoltasi l'8 maggio 2013, convocata per discutere del "Piano Rom", effettuava il "saluto fascista", accompagnandolo alla pronuncia della frase «presenti e ne siamo fieri».

In questa cornice, la dinamica degli accadimenti criminosi risulta dimostrata dalle riprese audiovisive effettuate nel corso della seduta pubblica e delle testimonianze dei soggetti presenti, tra le quali si attribuiva peculiare rilievo probatorio alle dichiarazioni di Anita Sonego e Oriana Liso. Sul punto, si ritiene utile richiamare il passaggio argomentativo esplicitato a pagina 5 della sentenza impugnata, in cui, a conferma dell'univocità del compendio probatorio acquisito, si affermava che la «sequenza è chiarissima, non può essere interpretata in altro modo ed è perfettamente corrispondente a quanto percepito dai testimoni che in quel momento stavano guardando in direzione dell'imputato [...]».

A tali considerazioni deve aggiungersi che la Corte di appello di Milano, allo scopo di fugare ogni dubbio sulla natura del gesto manuale effettuato da Leccisi, visionava le riprese effettuate durante la seduta consiliare, dalle quali traeva conferma della correttezza della ricostruzione dei fatti effettuata dal Tribunale di Milano.

Secondo la Corte territoriale milanese, la visione delle riprese effettuate durante la seduta consiliare chiariva che, durante l'intervento del consigliere comunale Sonego, l'imputato si trovava seduto, fino a quando, improvvisamente, senza alzarsi in piedi, tendeva il braccio verso l'esterno, tenendo il palmo della mano rivolto verso il basso e pronunciando la frase «presenti e ne siamo fieri». Successivamente, a seguito dell'intervento dell'assessore Majorino, che aveva stigmatizzato il "saluto fascista" appena effettuato dall'imputato, il ricorrente replicava salutando l'interlocutore con il braccio piegato e muovendo lateralmente la mano in segno di saluto.

Questa ricostruzione della sequenza degli accadimenti criminosi è perfettamente sovrapponibile a quella descritta dai testi Sonego e Liso, che fornivano una versione dei fatti tale da non consentire di dubitare che il primo gesto manuale compiuto da Leccisi fosse finalizzato a effettuare il "saluto fascista", anche alla luce della frase che l'accompagnava, sopra richiamata. Né la documentazione prodotta dalla difesa dell'imputato appare idonea a smentire tale ricostruzione dei fatti, limitandosi ad attestare il secondo dei due gesti manuali del ricorrente, che, come detto, era finalizzato a salutare l'assessore Majorino.

Queste ragioni impongono di ribadire l'inammissibilità del primo motivo di ricorso.

3. Dall'inammissibilità del primo motivo di ricorso discende l'inammissibilità del secondo motivo, proposto in stretta correlazione con la doglianza precedente, con cui si deduceva il vizio di motivazione della sentenza impugnata, in riferimento all'art. 192 c.p.p., conseguente al fatto che la decisione in esame risultava sprovvista di un percorso argomentativo che desse esaustivamente conto delle ragioni che legittimavano la formulazione del giudizio di colpevolezza nei confronti di Leccisi, che presupponeva la contestualizzazione del suo gesto manuale, finalizzato ad attestare la sua presenza in aula e non già a eseguire il "saluto fascista".

Ci si deve, in proposito, limitare a ribadire, in linea con quanto già affermato nel paragrafo 2, che nessuna violazione dei parametri ermeneutici di cui all'art. 192 c.p.p. è ravvisabile nel percorso argomentativo seguito dalla Corte di appello di Milano, il cui giudizio di colpevolezza appare rispettoso delle emergenze probatorie, che imponevano di correlare il "saluto fascista" alle parole che lo accompagnavano - «presenti e ne siamo fieri» - e di collegare la condotta di Leccisi a una precisa volontà, tesa a rivendicare orgogliosamente il suo credo fascista.

In questa cornice, occorre evidenziare che non era possibile prendere in considerazione ipotesi alternative - in ordine alla dinamica degli accadimenti criminosi e alle ragioni che avevano spinto Leccisi a compiere il "saluto fascista" - e contrapporle a quella correttamente vagliata dalla Corte di appello di Milano, in presenza di elementi di giudizio che consentivano di escluderne la veridicità e la plausibilità logica. Nel caso in esame, invero, non era ragionevole attribuire alcun valore processuale a tali ipotesi alternative, in presenza di elementi probatori, costituiti dalle riprese della seduta consiliare e dalle testimonianze, esaminate nel paragrafo 2, che imponevano di escludere non solo la verosimiglianza, ma addirittura la plausibilità di siffatte ricostruzioni dei fatti di reato.

Senza considerare che un tale percorso valutativo, oltre che illogico e processualmente incongruo, si sarebbe posto in contrasto con la giurisprudenza consolidata di questa Corte, secondo cui: «In tema di valutazione della prova, il ricorso al criterio di verosimiglianza e alle massime d'esperienza conferisce al dato preso in esame valore di prova se può escludersi plausibilmente ogni spiegazione alternativa che invalidi l'ipotesi all'apparenza più verosimile, ponendosi, in caso contrario, tale dato come mero indizio da valutare insieme con gli altri elementi risultanti dagli atti» (Sez. 6, n. 5905 del 29 novembre 2011, dep. 2012, Brancucci, Rv. 252066; si veda, in senso sostanzialmente conforme, anche Sez. 6, n. 15897 del 9 aprile 2009, Massimino, Rv. 243528).

Queste ragioni impongono di ribadire l'inammissibilità del secondo motivo di ricorso.

4. Deve ritenersi infondato il terzo motivo di ricorso, con cui si deduceva il vizio di motivazione della sentenza impugnata, conseguente al fatto che la decisione in esame risultava sprovvista di un percorso argomentativo che desse esaustivamente conto delle deduzioni difensive, finalizzate a evidenziare come il gesto manuale compiuto da Gabriele Leccisi, quand'anche riconducibile al "saluto fascista", era inidoneo a ledere il bene giuridico protetto dall'art. 2 del d.l. n. 122 del 1993.

Osserva il Collegio che risultano immuni da vizi logici o giuridici le argomentazioni sviluppate dalla Corte di appello di Milano, secondo cui il "saluto fascista" o "saluto romano" costituisce una manifestazione gestuale che rimanda all'ideologia fascista e ai valori politici di discriminazione razziale e di intolleranza sanzionati dall'art. 2 del d.l. n. 122 del 1993, evidenziando che la fattispecie contestata a Leccisi non richiede che le manifestazioni siano caratterizzate da elementi di violenza, svolgendo una funzione di tutela preventiva, che è quella propria dei reati di pericolo astratto (Sez. 1, n. 11038 del 2 marzo 2016, Goglio, Rv. 269753; Sez. 1, n. 25184 del 4 marzo 2009, Saccardi, Rv. 243792).

Occorre aggiungere che tale comportamento, di per sé giustificativo del giudizio di colpevolezza espresso nei confronti di Leccisi, andava inserito in un contesto ambientale più ampio, essendo esternato in occasione di una seduta pubblica di particolare risonanza, costituita dalla Commissione congiunta del Consiglio comunale di Milano su sicurezza e coesione sociale, polizia locale, protezione civile e volontariato, politiche sociali e servizi per la salute, avente a oggetto il cosiddetto "Piano Rom", che si svolgeva l'8 maggio 2013.

Non può, in proposito, non richiamarsi la giurisprudenza consolidata di questa Corte, secondo cui il "saluto fascista" accompagnato dalla parola "presente" integra la fattispecie dell'art. 2 del d.l. n. 122 del 1993, per la connotazione di pubblicità che qualifica tale espressione gestuale, evocativa del disciolto partito fascista, che appare pregiudizievole dell'ordinamento democratico e dei valori che vi sono sottesi. Sul punto, è sufficiente richiamare il principio di diritto, secondo cui: «Il cosiddetto "saluto romano" o "saluto fascista" è una manifestazione esteriore propria o usuale di organizzazioni o gruppi indicati nel d.l. 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, nella l. 25 giugno 1993 n. 205 (misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa) e inequivocabilmente diretti a favorire la diffusione di idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico; ne consegue che il relativo gesto integra il reato previsto dall'art. 2 del citato decreto-legge» (Sez. 1, n. 25184 del 4 marzo 2009, Saccardi, Rv. 243792; si veda, in senso sostanzialmente conforme, anche Sez. 3, n. 37390 del 10 luglio 2007, Sposato, Rv. 237311).

In questa cornice, deve rilevarsi che la natura di reato di pericolo astratto della fattispecie dell'art. 2 del d.l. n. 122 del 1993 impone, per la sua configurazione, che sia accertata l'idoneità della condotta a offendere il bene giuridico, contestualizzando il comportamento dell'agente attraverso un giudizio ex ante. Tale contestualizzazione presuppone un accertamento finalizzato a verificare se la condotta dell'imputato è astrattamente idonea a essere percepita come manifestazione esteriore o come ostentazione simbolica ed emblematica «delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui all'articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654 [...]».

Sulla legittimità costituzionale dei reati di pericolo astratto, del resto, la Corte costituzionale si è ripetutamente pronunciata (Corte cost., sent. n. 225 del 2008; Corte cost., sent. n. 286 del 1974), ribadendo la loro compatibilità con le norme costituzionali, a condizione che nelle fattispecie di volta in volta considerate siano rinvenibili elementi che consentano di ritenere dotate di attitudine offensiva le condotte illecite. Occorre, pertanto, verificare se il fatto concreto possieda tali connotazioni di offensività, certamente riscontrabili nel caso di specie, tenuto conto delle circostanze di tempo e di luogo in cui si concretizzava il comportamento criminoso di Leccisi, correttamente valutate dai Giudici di merito secondo una prospettiva ex ante.

4.1. Le considerazioni esposte nel paragrafo precedente impongono di ritenere destituita di fondamento la residua doglianza, prospettata in via subordinata al mancato accoglimento della censura principale, con cui veniva sollevata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2 del d.l. n. 122 del 1993, per contrasto con gli artt. 2, 3 e 111 Cost.

Occorre, invero, ribadire che il contesto sistematico nel quale si inserisce la fattispecie contestata all'imputato, ai sensi dell'art. 2, comma 1, d.l. n. 122 del 1993, esclude che la norma possa essere tacciata di indeterminatezza, atteso che per la configurazione di tale reato è richiesto che si pongano in essere manifestazioni esteriori simboliche o emblematiche delle organizzazioni di cui all'art. 3 della l. n. 654 del 1975.

In questa cornice, non si può non ricordare che questa Corte, in più occasioni, ha ritenuto manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell'art. 3 della l. n. 654 del 1975, cui l'art. 2 del d.l. 122 del 1993 rimanda, laddove vieta la diffusione di idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale, per contrasto con l'art. 21 Cost., in quanto la libertà di manifestazione del pensiero cessa quando trasmoda in istigazione alla discriminazione e alla violenza di tipo razzista. In tali occasioni, si evidenziava che l'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi ha un contenuto fattivo di istigazione a una condotta che realizza un quid pluris rispetto alla mera manifestazione di opinioni personali, rendendo manifestamente infondate le questioni di costituzionalità sollevate (Sez. 3, n. 37581 del 3 ottobre 2008, Mereu, Rv. 241071; Sez. 5, n. 31655 del 24 agosto 2001, Gariglio, Rv. 220022).

4.2. Le considerazioni esposte impongono di ritenere infondato il terzo motivo di ricorso.

5. Deve ritenersi inammissibile il quarto motivo di ricorso, con cui si deduceva il vizio di motivazione della sentenza impugnata, conseguente al fatto che la decisione in esame risultava sprovvista di un percorso argomentativo che desse esaustivamente conto delle ragioni che non consentivano il riconoscimento in favore di Gabriele Leccisi dell'esimente di cui all'art. 131-bis c.p., la cui concessione si imponeva alla luce delle circostanze di tempo e di luogo nelle quali si era concretizzata la condotta illecita contestata, rese evidenti dall'importanza della seduta consiliare dell'8 maggio 2013, convocata per discutere del "Piano Rom".

Osserva, in proposito, il Collegio che sono proprio le circostanze di tempo e di luogo nelle quali si concretizzava la condotta illecita di Leccisi a non consentire di ritenere sussistenti le condizioni legittimanti l'applicazione dell'esimente invocata dalla difesa del ricorrente, il cui comportamento si inseriva nel contesto politico richiamato nei paragrafi precedenti, nel considerare il quale occorre ulteriormente evidenziare che la seduta consiliare si svolgeva a margine della manifestazione di protesta organizzata dallo stesso imputato a Milano, in Piazza San Babila.

In questa cornice, l'esclusione del riconoscimento dell'esimente dell'art. 131-bis c.p. discende da una valutazione ineccepibile dei fatti illeciti contestati a Leccisi ex art. 2, comma 1, d.l. n. 122 del 1993, che venivano vagliati dalla Corte territoriale milanese nel rispetto dei parametri previsti dall'art. 133 c.p., tenuto conto delle connotazioni oggettive e soggettive della condotta posta in essere dell'imputato, che non consentivano l'esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto.

Tale percorso argomentativo deve ritenersi idoneo a escludere in sede di legittimità, senza il compimento di alcuna valutazione complessiva dei profili fattuali, l'esimente invocata nell'interesse di Leccisi, non potendosi ipotizzare, anche tenuto conto della pervicacia del suo comportamento criminoso e del contesto istituzionale nel quale si concretizzava, la particolare tenuità dell'offesa presupposta dall'art. 131-bis c.p. (Sez. un., n. 13682 del 25 febbraio 2016, Tushaj, Rv. 266591).

Queste ragioni impongono di ribadire l'inammissibilità del quarto motivo di ricorso.

6. Deve ritenersi infondato il quinto motivo di ricorso, con cui si deduceva il vizio di motivazione della sentenza impugnata, conseguente al fatto che la decisione in esame risultava sprovvista di un percorso argomentativo che desse esaustivamente conto delle ragioni che non consentivano il riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 62, n. 2, c.p., la cui concessione si imponeva alla luce del comportamento provocatorio posto in essere nei confronti di Gabriele Leccisi dal consigliere comunale Anita Sonego.

Osserva il Collegio che, allo scopo di inquadrare l'attenuante della provocazione prevista dall'art. 62, n. 2, c.p., occorre preliminarmente richiamare la giurisprudenza consolidata di questa Corte, secondo la quale: «Ai fini della configurabilità dell'attenuante della provocazione occorrono: a) lo "stato d'ira", costituito da un'alterazione emotiva che può anche protrarsi nel tempo e non essere in rapporto di immediatezza con il "fatto ingiusto altrui"; b) il "fatto ingiusto altrui", che deve essere connotato dal carattere della ingiustizia obiettiva, intesa come effettiva contrarietà a regole giuridiche, morali e sociali, reputate tali nell'ambito di una determinata collettività in un dato momento storico e non con riferimento alle convinzioni dell'imputato e alla sua sensibilità personale; c) un rapporto di causalità psicologica e non di mera occasionalità tra l'offesa e la reazione, indipendentemente dalla proporzionalità tra esse, sempre che sia riscontrabile una qualche adeguatezza tra l'una e l'altra condotta» (Sez. 1, n. 4780 del 14 novembre 2013, Saieva, Rv. 258454; si veda, in senso sostanzialmente conforme, anche Sez. 1, n. 5056 dell'8 novembre 2011, 2012, Ndoj, Rv. 251833).

Tenuto conto di questi parametri ermeneutici, la ricostruzione effettuata dalla Corte di appello di Milano non permetteva di ritenere sussistenti i requisiti della provocazione invocata dalla difesa di Leccisi, atteso che le risultanze processuali non consentivano di affermare che il consigliere comunale Sonego, avesse aggredito verbalmente o anche solo irriso il ricorrente. Il consigliere Sonego, infatti, si era limitata a manifestare il suo risentimento perché nell'aula consiliare erano presenti, in qualità di ospiti, alcuni esponenti di organizzazioni di estrema destra, senza rivolgersi personalmente a Leccisi ed esprimendo il suo punto di vista meramente politico.

Queste univoche risultanze processuali impongono di escludere la ricorrenza degli indicatori, oggettivi e soggettivi, dell'attenuante della provocazione, così come tipizzati dall'art. 62, n. 2, c.p., con la conseguenza di dovere ritenere inapplicabile, tenuto conto delle circostanze di tempo e di luogo nelle quali veniva effettuato il "saluto fascista", la mitigazione sanzionatoria invocata in favore di Leccisi dal suo difensore (Sez. 5, n. 12588 del 13 febbraio 2004, Fazio, Rv. 228020; Sez. 1, n. 9373 del 10 giugno 1994, Castronovo, Rv. 200136).

In altri termini, gli elementi probatori acquisiti nei giudizi di merito in ordine alla ricostruzione della fase genetica degli accadimenti criminosi - e alle ragioni che avevano indotto Leccisi a compiere il "saluto fascista" in occasione della seduta consiliare svoltasi l'8 maggio 2013 - non consentono di affermare la sussistenza di un atteggiamento provocatorio del consigliere Sonego, rispetto al quale la contrapposizione politica esistente tra i due soggetti, in quanto tale, appare priva di rilievo probatorio. L'atteggiamento provocatorio del consigliere Sonego, dunque, tenuto conto dell'ineccepibile ricostruzione dei fatti, risulta smentito dalle emergenze probatorie e non è nemmeno possibile desumerne l'esistenza sulla base della prospettazione, meramente congetturale, della difesa del ricorrente.

Non è, pertanto, possibile affermare l'esistenza di un rapporto di causalità psicologica e non di mera occasionalità tra l'atteggiamento del consigliere Sonego e il comportamento criminoso di Leccisi, atteso che la ricostruzione ineccepibile degli accadimenti criminosi, posta a fondamento della sentenza impugnata, non consente di ipotizzare alcun collegamento, diretto o indiretto, tra le due condotte, con la conseguenza di non potere ritenere sussistente, nemmeno sotto questo profilo, l'attenuante di cui all'art. 62, n. 2, c.p., conformemente alla giurisprudenza consolidata di questa Corte (Sez. 1, n. 16790 dell'8 aprile 2008, D'Amico, Rv. 240282; Sez. 5, n. 11708 del 29 gennaio 1988, Fratini, Rv. 179829).

Queste ragioni impongono di ribadire l'infondatezza del quinto motivo di ricorso.

7. Per queste ragioni processuali, il ricorso proposto da Gabriele Leccisi deve essere rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Depositata il 16 maggio 2019.

L. Bolognini, E. Pelino (dirr.)

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