Corte di cassazione
Sezione VI penale
Sentenza 26 aprile 2019, n. 23839

Presidente: Fidelbo - Estensore: Amoroso

RITENUTO IN FATTO

1. Con il provvedimento in epigrafe, il Tribunale di Reggio Calabria, adito in funzione di giudice dell'esecuzione ex art. 666 c.p.p., ha dichiarato l'inammissibilità dell'istanza avanzata dai ricorrenti volta ad ottenere la revoca della confisca della quota di 1/2 del terreno sito in Bovalino, intestato a Me. Assunta ma ritenuto riconducibile al proposto Ma. Francesco, disposta nell'ambito di un procedimento di prevenzione svoltosi nella vigenza della nuova procedura prevista dal d.lgs. n. 159/2011, conclusosi con provvedimento confermato in appello e divenuto definitivo, a seguito della dichiarazione di inammissibilità del ricorso per cassazione.

2. Tramite il proprio comune difensore di fiducia, Francesco Ma. e Assunta Me. hanno proposto ricorso, articolando un unico motivo per violazione di legge.

In particolare si deduce che la revoca della confisca era stata avanzata in sede di incidente di esecuzione ex art. 666 c.p.p. e non ai sensi dell'art. 28 del d.lgs. n. 159/2011 che disciplina il diverso istituto della revocazione, sull'assunto che il rimedio del ricorso al giudice dell'esecuzione sia ancora esperibile nei casi in cui siano carenti i presupposti richiesti dal citato art. 28, essendo l'incidente di esecuzione un rimedio di carattere generale e residuale sempre azionabile a tutela di quelle situazioni di diritto che, essendo state compromesse da omissioni nella valutazione di elementi di fatto già presenti al momento dello svolgimento del procedimento, resterebbero prive di tutela, in quanto non contemplate tra i casi di ricorso per revocazione e non essendovi possibilità di tutela neppure attraverso il ricorso per cassazione perché limitato solo ai casi di violazione di legge.

I ricorrenti si lamentano perché in sede di confisca, nel procedimento di primo e secondo grado, non sarebbero state prese in considerazione le allegazioni della difesa in punto di prova della riconducibilità del bene confiscato alla pericolosità criminale del proposto, stante l'epoca risalente dell'acquisto da parte della intestataria, da ritenersi terza rispetto al proposto, e la individuazione dell'insorgenza della pericolosità del proposto a far data dai primi anni 2007-2007 (così testualmente indicati), posto che in precedenza il Ma. è stato quasi per un ventennio ininterrottamente detenuto.

Trattandosi quindi di elementi di prova non già sopravvenuti, ma di cui è stata omessa la valutazione da parte dei giudici di merito della prevenzione, si invoca una interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 666 c.p.p. per porre rimedio a palesi ingiustizie non suscettibili di essere salvaguardate attraverso l'istituto della revocazione di cui all'art. 28 del d.lgs. n. 159/2911.

3. Il Sostituto Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di cassazione ha depositato conclusioni scritte con cui ha chiesto che sia dichiarata l'inammissibilità del ricorso, evidenziando il carattere straordinario ed eccezionale del rimedio della revocazione ex art. 28 d.lgs. n. 159/2011.

4. I ricorrenti hanno depositato in cancelleria in data 15 aprile 2019 una memoria di replica alle conclusioni del pubblico ministero, riproponendo le medesime argomentazioni già illustrate in sede di ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I ricorsi sono manifestamente infondati e quindi devono essere dichiarati inammissibili.

Si deve premettere che nel caso in esame trova sicuramente applicazione la normativa prevista dal d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, trattandosi di confisca disposta sulla base di una proposta presentata dopo la sua entrata in vigore, ovvero in data successiva al 13 ottobre 2011, essendo previsto dalla norma transitoria di cui all'art. 117 del citato decreto, che solo per le proposte avanzate prima di detta data continuino ad applicarsi le norme previgenti.

Nel sistema vigente delle misure di prevenzione, avverso la decisione definitiva sulla confisca, una volta esperiti i rimedi ordinari previsti dagli artt. 10 e 27 del d.lgs. n. 159/2011 dell'appello per la rivalutazione del merito e del ricorso per cassazione per violazione di legge, l'unico rimedio esperibile rimane quello della revocazione previsto dall'art. 28 del succitato decreto, strutturato come un rimedio straordinario, azionabile davanti alla corte di appello nelle forme previste dall'art. 630 c.p.p., e teso sostanzialmente a riparare ad un errore giudiziario, quando dopo la definitività della confisca, sopravvengano nuovi elementi di prova che dimostrino il difetto originario dei presupposti di applicazione della confisca.

Si tratta di un istituto introdotto dal nuovo codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione (d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159), per colmare un vuoto normativo della previgente legislazione, al quale la giurisprudenza aveva peraltro già posto rimedio attraverso una interpretazione estensiva della norma di cui all'art. 7, comma 2, della l. 27 dicembre 1956, n. 1423, che da istituto chiaramente finalizzato ad adeguare la misura di prevenzione personale ai mutamenti sopravvenuti di "pericolosità" del prevenuto, con efficacia ex nunc, era stato rimodulato dalla giurisprudenza per annettervi la eccezionale portata di rimedio volto a determinare la rimozione ex tunc della misura della confisca, per la sopravvenuta prova del suo difetto genetico, sulla falsariga di una "revisione" del relativo "giudicato".

Tanto il rimedio dell'art. 7 della l. n. 1423 del 1956, di competenza dell'organo giudicante che l'ha emessa - ancora applicabile per le confische disposte sulla base di proposte anteriori al 13 ottobre 2011, data di entrata in vigore del citato d.lgs. n. 159/2011 - quanto il nuovo mezzo di impugnazione di cui all'art. 28 del cit. cod. antimafia, di competenza della corte di appello, si caratterizzano per avere il medesimo ambito di operatività rapportato alla straordinarietà del rimedio, ontologicamente incompatibile con qualsiasi possibilità di "riesame" dello stesso quadro fattuale già delibato in sede di applicazione della misura, posto che, ove così non fosse, pur restando immutati i "fatti" oggetto del giudizio di prevenzione, le relative statuizioni giurisdizionali sarebbero rivedibili sine die e ad nutum.

2. L'art. 28 cit. stabilisce, infatti, che la revocazione della confisca avverso le decisioni definitive sulla confisca di prevenzione, può essere richiesta, nelle forme previste dall'art. 630 c.p.p., solo al fine di dimostrare il difetto originario dei presupposti per l'applicazione della misura:

"a) in caso di scoperta di prove nuove decisive, sopravvenute alla conclusione del procedimento; b) quando i fatti accertati con sentenze penali definitive, sopravvenute o conosciute in epoca successiva alla conclusione del procedimento di prevenzione, escludono in modo assoluto l'esistenza dei presupposti di applicazione della confisca; c) quando la decisione sulla confisca sia stata motivata, unicamente o in modo determinante, sulla base di atti riconosciuti falsi, di falsità nel giudizio ovvero di un fatto previsto dalla legge come reato".

I ricorrenti, Ma., quale proposto, e Me., quale terza interessata, consapevoli dei limiti propri di detto mezzo di impugnazione straordinario, hanno impugnato la confisca definitiva disposta all'esito di un procedimento di prevenzione nel corso del quale entrambi hanno potuto partecipare articolando le rispettive difese, proponendo prima appello nel merito avverso il decreto di confisca disposto dal Tribunale e poi ricorso per cassazione, avverso il decreto di conferma emesso dalla Corte di appello, pretendendo ora una nuova valutazione dello stesso quadro probatorio già valutato.

Con l'istanza avanzata in sede di incidente di esecuzione, i ricorrenti hanno riproposto la questione già affrontata, sia in sede di merito che di legittimità, della correlazione tra l'acquisto dei beni confiscati e la collocazione nel tempo della pericolosità del proposto, segnalando in modo generico vistose omissioni delle decisioni di merito nella valutazione di fatti rilevanti, sulle quali la corte di cassazione non si sarebbe pronunciata per i limiti imposti al suo sindacato dalla proponibilità del ricorso in materia di prevenzione solo per violazione di legge.

3. Secondo la tesi dei ricorrenti, il Tribunale nel dichiarare l'inammissibilità dell'istanza avrebbe omesso di considerare che l'istanza non è stata avanzata ai sensi dell'art. 28 cit., né ai sensi del rimedio previsto dall'art. 7 della l. n. 1423/1956, ma ai sensi dell'art. 666 c.p.p., ovvero con la proposizione di un incidente di esecuzione davanti allo stesso giudice che aveva disposto la confisca.

Ciò perché il ricorso all'incidente di esecuzione dovrebbe costituire un rimedio più ampio di quello previsto dall'art. 28 cit., necessario a supplire alla mancanza di altri mezzi di impugnazione contro le decisioni definitive affette da gravi errori di valutazione delle prove già acquisite nel corso del procedimento di prevenzione.

Si tratta di una interpretazione che, superando i limiti previsti dall'art. 28 per l'istituto della revocazione, si pone in contrasto con il sistema delle impugnazioni previsto per le misure di prevenzione, pretendendo di poter riesaminare lo stesso quadro fattuale già delibato in sede di applicazione della misura, aprendo così la via alla possibilità di rivedere le relative statuizioni giurisdizionali sine die e ad nutum, pur restando immutati i "fatti" oggetto del giudizio di prevenzione.

L'incidente di esecuzione, secondo la interpretazione invocata dal ricorrente, dovrebbe essere ammesso come mezzo di impugnazione straordinario, necessario a sopperire alla non ammessa ricorribilità in cassazione contro i provvedimenti in materia di prevenzione nei casi del vizio della motivazione per illogicità e per travisamento del fatto.

In definitiva, le censure del ricorrente sono rivolte al sistema delle impugnazioni previste per le misure di prevenzione, ma con argomentazioni non condivisibili perché volte ad ammettere una rivalutazione dei medesimi fatti senza preclusioni, quindi, con la pretesa di scardinare il sistema attraverso l'introduzione di un principio di incondizionata e permanente revocabilità delle decisioni prese nel corso del procedimento di prevenzione, che mina il fondamentale principio della certezza e stabilità delle decisioni giudiziarie, tutelato dal legislatore a garanzia della certezza dei rapporti giuridici e che trova un suo equo contemperamento, con riferimento alla confisca, attraverso l'istituto della revocazione operativo entro i limiti rigorosi fissati dall'art. 28 cit. per l'esperibilità di detto rimedio.

La fisiologica revocabilità delle misure di prevenzione personale, soggette al principio rebus sic stantibus, regolata prima dall'art. 7 della l. n. 1423/1956, ed ora dall'art. 11 del codice antimafia, perché ancorata alla perdurante verifica dell'attualità della pericolosità, non può ovviamente estendersi alla misura di prevenzione della confisca, che comportando l'ablazione definitiva del patrimonio frutto dell'accumulazione di proventi illeciti, può essere revocata solo nei limiti previsti dall'art. 28 del cit. decreto n. 159/2011, attraverso l'istituto della revocazione, introdotto per porre rimedio a decisioni frutto di errori resi palesi da emergenze nuove, non valutate nel corso del procedimento di prevenzione e che ne minano la legittimità per difetto genetico dei relativi presupposti.

4. D'altra parte va osservato che il rimedio dell'incidente di esecuzione è stato ammesso dalla giurisprudenza di legittimità, formatasi nella vigenza della confisca disposta ai sensi dell'art. 2-ter della legge antimafia 31 maggio 1965, n. 575, soltanto nei confronti del terzo interessato che non avesse potuto partecipare al procedimento di cognizione, al fine di assicurare il diritto alla tutela giudiziaria delle proprie ragioni, e quindi mai per riproporre le stesse questioni già affrontate nella sede della cognizione o che potevano essere dedotte nel procedimento di prevenzione.

È stato affermato, infatti, che in tema di misure di prevenzione patrimoniale, il terzo che rivendicasse la legittima titolarità del bene confiscato chiedendone la restituzione poteva proporre incidente di esecuzione solo se non avesse partecipato al procedimento di applicazione della misura patrimoniale, nel quale avrebbe potuto svolgere (sia che fosse chiamato dal Tribunale con decreto motivato ovvero avesse deciso di intervenire nel procedimento) le deduzioni e chiedere l'acquisizione di ogni elemento utile ai fini della decisione sulla confisca.

Nel caso invece in cui il terzo, formalmente intestatario del bene, avesse partecipato al giudizio di cognizione senza osservare l'onere di allegazione di cui all'art. 2-ter, comma quinto, della l. n. 575 del 1965, il ricorso all'incidente di esecuzione non era consentito, in quanto strumentale solo a rimettere in discussione il titolo non contestato dal soggetto già posto in condizione di rivendicare il suo diritto sul bene ed a riproporre in sede di esecuzione questioni già scrutinate dal giudice della prevenzione, che il ricorrente ben avrebbe potuto allegare al suo atto di intervento (Sez. 6, n. 37025, 18 settembre 2002, Rv. 222664).

Si ritiene di poter riaffermare lo stesso principio anche dopo l'entrata in vigore del d.lgs. n. 159/2011, essendo ora prevista la partecipazione al procedimento di prevenzione oltre che dei terzi che vantino diritti di proprietà o comproprietà dei beni sequestrati, anche dei terzi che vantino diritti reali o personali di godimento, con la conseguenza che anche questi soggetti possono far valere le proprie ragioni e chiedere l'acquisizione di ogni elemento utile ai fini della decisione nel corso del procedimento di prevenzione, essendo anche legittimati ad avvalersi dei mezzi di impugnazione, ordinari e straordinari previsti dagli artt. 10, 27 e 28 del cit. d.lgs. n. 159/2011, con la conseguenza che il rimedio del ricorso all'incidente di esecuzione può trovare ancora una sua ragione di essere solo nei casi in cui il terzo non abbia partecipato al procedimento di applicazione della misura patrimoniale, perché non messo nelle condizioni di parteciparvi.

5. Si deve, infine, rammentare che oltre al doppio grado di merito garantito dall'art. 10 del nuovo codice antimafia, l'impugnazione per violazione di legge davanti alla Corte di cassazione, consente di verificare anche il vizio di motivazione nei casi di radicali e vistose lacune motivazionali che si risolvono in vizio di legge per carenza assoluta di motivazione, con la conseguente tutela anche da quelle stesse gravi e palesi incongruenze logiche astrattamente rappresentate in questa sede.

Va anche rammentato che questa Corte si è già pronunciata, sia pure con riferimento alla normativa precedente all'entrata in vigore del nuovo codice antimafia, ma con argomenti ancora validi nella vigenza della nuova normativa, nel senso della manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale posta con riferimento alle disposizioni che limitano alla sola violazione di legge la proponibilità del ricorso per cassazione avverso i provvedimenti di confisca adottati nell'ambito del procedimento di prevenzione.

Si è, infatti, osservato che la ratio di dette limitazioni, trova il suo presupposto in una scelta legislativa che non è in contrasto con i dettami costituzionali né con la normativa di carattere internazionale, in ragione della sostanziale differenza dei presupposti sui quali si fondano le misure di prevenzione e, in genere, le misure cautelari di natura reale, rispetto agli altri ordinari provvedimenti giudiziari (Sez. 1, n. 24187, 3 maggio 2007, Rv. 236843).

La questione sollevata, poi, con ordinanza del 22 luglio 2014 dalla quinta sezione penale di questa Corte, con riferimento alla legittimità costituzionale della limitazione del sindacato della Corte di cessazione sul provvedimento impugnato alla sola violazione di legge con esclusione dei vizi della motivazione, per l'asserita irragionevole disparità di trattamento rispetto al procedimento per la confisca, di natura penale, ex art. 12-sexies del d.l. n. 306 del 1992, è stata dichiarata non fondata con la sentenza della Corte costituzionale n. 106 del 15 aprile 2015, sempre in considerazione delle specifiche peculiarità, sia sotto il profilo sostanziale che processuale, del procedimento di prevenzione.

Posto, quindi, che i ricorrenti si sono limitati a riproporre una semplice lettura alternativa delle stesse emergenze già delibate in sede di prevenzione, risultando in ogni caso del tutto carente la prospettazione di un novum, decisivo agli effetti della ammissibilità della domanda di revoca, il ricorso proposto deve ritenersi manifestamente inammissibile.

6. Dalla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, a norma dell'art. 616 c.p.p., la condanna dei ricorrenti, oltre che al pagamento delle spese del procedimento, anche a versare, ciascuno, una somma, che si ritiene congruo determinare in duemila euro.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e, ciascuno, della somma di euro duemila in favore della cassa delle ammende.

Depositata il 29 maggio 2019.