Corte dei conti
Sezioni riunite
Sentenza 4 luglio 2019, n. 17
Presidente: Pischedda - Estensore: Sucameli
FATTO
1. Con deliberazione n. 60/2018/VSG del 19 dicembre 2018, la Sezione regionale di controllo per le Marche, nell'ambito dei controlli sul rispetto delle norme del d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175, recante il Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica (Tusp), esaminava le società partecipate dal Comune di Cagli e riteneva che la società Marche multiservizi S.p.A. fosse da qualificarsi, alla stregua dello stesso Testo unico, come società a "controllo pubblico"; di conseguenza, verificato che il consiglio di amministrazione della predetta società era composto da nove membri, accertava la violazione dell'art. 11 Tusp. Tale disposizione prevede che, "di norma", la gestione sia affidata ad un amministratore unico o, in via eccezionale e previa adozione di delibera motivata, ad un consiglio di amministrazione composto al massimo da 5 membri.
In definitiva, ad avviso della Sezione, poiché erano sussistenti le condizioni di legge per l'applicazione delle nozione di cui all'art. 2, comma 1, lett. b) ed m), del Tusp, la medesima Sezione accertava la violazione dell'art. 11 Tusp.
La Sezione dava dell'art. 2 citato una esegesi conforme all'interpretazione prevalente resa anche dalla "struttura competente per l'indirizzo, il controllo e il monitoraggio sull'attuazione" prevista dall'art. 15 del Tusp. Secondo tale struttura "la Pubblica Amministrazione, quale ente che esercita il controllo, [è] stata intesa dal legislatore del TUSP come soggetto unitario, a prescindere dal fatto che, nelle singole fattispecie, il controllo di cui all'art. 2359, comma 1, numeri 1), 2) e 3), faccia capo ad una singola Amministrazione o a più Amministrazioni cumulativamente".
Sulla base di questo presupposto definitorio, la Sezione affermava che "trovano applicazione tutte le disposizioni del d.lgs. n. 175 del 2016" che presuppongono il controllo pubblico "ivi incluse quelle che disciplinano la composizione dell'organo di amministrazione". Conseguentemente accertava che Marche Multiservizi S.p.A., "ha omesso di dare attuazione alla disposizione di cui all'art. 11, commi 2 e 3, del d.lgs. 175/2016 relativi alla composizione dell'organo di amministrazione".
Concludeva altresì con un dispositivo prescrittivo, invitando "il Comune di Cagli a sollecitare la società Marche Multiservizi spa affinché adempia agli obblighi posti dall'art. 11, commi 2 e 3, del d.lgs. 175/16 relativi alla composizione dell'organo di amministrazione".
2. Il ricorso è stato notificato, con raccomandata spedita il 4 marzo 2019 alla Procura generale, al Comune di Cagli e alla "Procura regionale presso la Sezione regionale di controllo della Corte dei conti per le Marche"; ai fini della tempestività del ricorso, la società ricorrente afferma di avere avuto comunicazione della citata deliberazione dal comune di Cagli solo in data 7 febbraio 2019.
In via preliminare, la ricorrente ha sostenuto di essere legittimata ad agire e di avere interesse all'impugnazione della prefata deliberazione, sulla scorta dei principi affermati dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 39/2014. Tale sentenza, infatti, ha riconosciuto la facoltà di ricorrere agli ordinari strumenti di tutela giurisdizionale previsti dall'ordinamento, a garanzia dei principi degli artt. 24 e 113 Cost., laddove le deliberazioni delle Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti abbiano effetti non meramente collaborativi bensì "imperativi" o "inibitori" (cfr. testualmente la citata sentenza al § 6.3.4.3.3 cons. in diritto).
A tal fine la ricorrente ha evidenziato che gli artt. 11 e 124 c.g.c. hanno espressamente attribuito alle Sezioni riunite in speciale composizione la competenza a decidere in unico grado i giudizi "nelle materie di contabilità pubblica nel caso di impugnazioni conseguenti alle deliberazioni delle sezioni regionali di controllo" e che, come affermato dalla Sezioni riunite in sede di controllo con delibera n. 54/2010/CONTR, le disposizioni dettate dal legislatore in tema di coordinamento della finanza pubblica rientrano nella materia della contabilità pubblica.
Infine, il ricorrente ha evidenziato che la Sezione di controllo per le Marche, nel trasmettere la deliberazione al Comune di Cagli, ha indicato l'obbligatorietà di comportamenti che riguardano direttamente la società Marche Multiservizi S.p.A., consistenti nell'obbligo di sollecitare la stessa all'adeguamento delle disposizioni dell'art. 11 Tusp. Ha altresì trasmesso al MEF la pronuncia di accertamento in questione.
Di conseguenza, in ragione degli effetti concreti che la deliberazione determina sulla Società, per mezzo sia di un socio che della struttura di monitoraggio del MEF, la ricorrente afferma di avere interesse a ricorrere in quanto, laddove dovesse essere tenuta ad ottemperare a tali disposizioni di legge, per effetto di conseguenti atti amministrativi o di diritto comune, vedrebbe compromessi i propri equilibri di governance all'interno del Consiglio di amministrazione.
Nel merito, il ricorso affida ad un unico motivo la censura della deliberazione impugnata, ovvero la violazione e falsa applicazione degli artt. 2 e 11 del Tusp, e si basa essenzialmente sulla contestazione in diritto ed in fatto della qualificazione della società come società a "controllo pubblico".
Osserva la ricorrente che la Sezione appiattisce la nozione di controllo pubblico su quella di partecipazione pubblica maggioritaria, anche frammentaria, sul presupposto che la pubblica amministrazione sia un soggetto unitario, per cui sarebbe sufficiente la maggioranza delle azioni e dei voti in Consiglio di amministrazione per configurarsi il "controllo"; tuttavia, né il Tusp né il codice civile autorizzano una simile interpretazione specie se, come nella fattispecie, il socio privato detiene il controllo congiunto con i soci pubblici.
La ricorrente contesta quindi la sua qualificazione quale società a controllo pubblico sulla base dei seguenti argomenti così sinteticamente schematizzabili:
- l'art. 2359 c.c., richiamato dall'art. 2, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 175/2016, farebbe riferimento a un unico soggetto controllante, e non anche all'ipotesi del controllo congiunto di più soci;
- anche seguendo la lettura, offerta dall'ANAC (con la determinazione n. 134/2017) e dal MEF (con la nota di orientamento del 15 febbraio 2018), ove si ritenesse sussistente il controllo pubblico in presenza di più soci pubblici detentori della maggioranza del capitale, lo stesso orientamento richiede la prova del concreto esercizio, da parte dei soci pubblici, del controllo congiunto. Nella fattispecie, invece, i soci pubblici, alcuni dei quali titolari di una partecipazione pulviscolare, non operano sulla base di patti parasociali o mediante condotte solidali, e le decisioni sono assunte soltanto con il voto determinante del socio privato;
- la Sezione ha sovrastimato la capacità della partecipazione frammentaria e non coordinata dei soci pubblici di tradursi in un effettivo controllo, a fronte di numerosi indici di fatto, dai quali emerge il contrario. In particolare, nella deliberazione si è dato risalto solo ai dati statutari, e non anche al patto parasociale del 28 luglio 2015, che conferma l'esistenza di un assetto di controllo congiunto pubblico-privato; inoltre lo statuto attribuisce al socio privato (il quale detiene oltre il 46% del capitale, a fronte delle partecipazioni pulviscolari dei soci pubblici) una forte incidenza sulla governance societaria, concedendogli il diritto di nominare quattro consiglieri di amministrazione su nove (art. 15), prevedendo una maggioranza qualificata (art. 18) per le deliberazioni più importanti del c.d.a., stabilendo che l'amministratore delegato, munito di ampi poteri ai fini gestionali, debba essere scelto tra i consiglieri di amministrazione non nominati dagli enti pubblici (art. 21) e rendendo indispensabile il suo voto per qualsivoglia modifica dello statuto, per la quale è richiesto il quorum assembleare dell'85% del capitale (art. 13).
A fondamento degli argomenti sopra riportati, la società ricorrente richiama la deliberazione n. 17316 del 6 settembre 2007 dell'Autorità garante della concorrenza e per il mercato e la sentenza del Consiglio di Stato n. 578 del 23 gennaio 2019, che valorizzano, rispettivamente, il controllo congiunto del privato e l'irrilevanza delle partecipazioni pulviscolari.
Il provvedimento dell'Autorità antitrust, ha ritenuto la società ricorrente soggetta al controllo congiunto pubblico-privato, ponendo in risalto la necessità di una maggioranza qualificata per l'assunzione di determinate decisioni da parte del c.d.a.
La sentenza del Consiglio di Stato, emessa nell'ambito di un giudizio in cui era in discussione la decisione di alcuni enti locali di non dismettere le proprie partecipazioni nel capitale di una società, ha evidenziato che la detenzione di partecipazione pulviscolari sarebbe in contrasto con l'art. 24 del d.lgs. n. 175/2016. Cosicché ha ritenuto che, in caso di partecipazioni frammentarie e diffuse, è da escludersi che la capacità dei "singoli soggetti pubblici partecipanti di effettivamente incidere sulle decisioni strategiche della società, cioè di realizzare una reale interferenza sul conseguimento del c.d. fine pubblico di impresa [...] in presenza di interessi contrastanti e, in ultimo, impeditivi. La particolare modestia della partecipazione al capitale normalmente si riflette infatti in una debolezza sia assembleare sia, di riflesso, amministrativa (la quale può di fatto essere compensata solo in situazioni eccezionali dove altri equilibri refluiscano a compensare questa debolezza).
Ciò avviene in modo difficilmente rimediabile nei casi in cui, per fronteggiare questa debolezza, tra i vari enti pubblici così partecipanti in termini minimali non siano stati previsti strumenti negoziali - ad es., patti parasociali - che possano dar modo alle amministrazioni pubbliche di coordinare e dunque rinforzare la loro azione collettiva e, in definitiva, di assicurare un loro controllo sulle decisioni più rilevanti riguardanti la vita e l'attività della società partecipata.
A tal fine, ad evitare tali inconvenienti si rende nei fatti necessario [...] la stipulazione di adeguati patti parasociali ovvero anche la previsione, negli atti costitutivi della società, di un organo speciale, che, al pari delle assemblee speciali di cui all'art. 2376 c.c. (ovvero dell'assemblea degli obbligazionisti, di cui all'art. 2415 c.c.), sia deputato ad esprimere la volontà del soci pubblici: i quali, dunque, si troveranno a intervenire con rinforzata voce unitaria negli ordinari organi societari".
Ciò comporta, secondo la ricorrente che la partecipazione pubblica frammentaria e pulviscolare, pur maggioritaria, non può comportare ex se il controllo pubblico di una società.
3. Con memoria depositata in data 5 aprile 2019, la Procura Generale ha chiesto il rigetto del ricorso rilevando, in via pregiudiziale, sia la mancata notificazione alla Sezione regionale di controllo, sia l'assenza di entrambe le condizioni dell'azione.
3.1. Con riferimento alla prima, la Procura ha eccepito l'inammissibilità per difetto di notifica ai sensi dell'art. 124, comma 1, c.g.c. nei confronti della Sezione regionale di controllo per le Marche, atteso che la stessa è stata effettuata alla "Procura regionale presso la Sezione di controllo delle Marche", che, come è noto, è organo giudiziario inesistente ed in ogni caso sarebbe distinto dalla Sezione di controllo.
Poiché il codice di rito prevede che la notifica debba essere effettuata entro trenta giorni, a pena di inammissibilità, tanto alla Procura generale che alla Sezione che ha emesso la deliberazione impugnata, la Procura ha eccepito l'inammissibilità del ricorso per la violazione di tale prescrizione.
In via subordinata, l'organo requirente ha chiesto la fissazione di un termine affinché l'attore possa provvedere alla rituale notifica alla Sezione regionale di controllo.
3.2. La richiesta di inammissibilità del ricorso è stata motivata anche sotto il profilo della mancanza dell'interesse a ricorrere, in ragione della natura collaborativa del controllo e degli effetti solo indiretti dell'accertamento sulla società partecipata: in proposito la Procura generale ha richiamato il precedente costituito dalla sentenza n. 8/2019/EL di queste Sezioni riunite.
3.3. Nel merito, l'Ufficio requirente ha sostenuto che il ricorso è infondato.
Ad avviso della Procura la delibera della Sezione di controllo appare corretta nei presupposti di diritto, ed in particolare sull'interpretazione della nozione di "controllo pubblico". Ciò non solo in base alla lettera della legge, ma anche in ragione di una lettura funzionale delle disposizioni del Tusp, emanate con l'obiettivo di razionalizzazione e contenimento della spesa pubblica.
Ritiene l'ufficio requirente che la comune appartenenza dei soci al bacino [della] pubblica amministrazione sia sufficiente, per il Tusp, a integrare un'unità economica e giuridica dell'indirizzo strategico, e quindi la nozione di controllo nei termini previsti dall'art. 2359 del codice civile.
Nella fattispecie i soci pubblici, sommando il numero delle rispettive azioni, detengono la maggioranza del capitale sociale della società ricorrente: più in particolare, stando all'annotazione libro soci del 23 ottobre 2018, i soci pubblici detengono il 53,77% del capitale sociale, e i soci privati il 46,23%. Tanto, secondo la Procura, è sufficiente ad integrare il controllo di diritto previsto dall'art. 2359 c.c., richiamato dal Tusp.
Più in particolare, si sostiene che la lettura combinata dell'art. 2359 c.c. e delle lett. b) e m) dell'art. 2, comma 1, del Tusp porta a ritenere che il legislatore abbia voluto ampliare le fattispecie del controllo prevedendo che "il controllo di cui all'articolo 2359 c.c. possa essere esercitato da più amministrazioni congiuntamente, anche a prescindere dall'esistenza di un vincolo legale, contrattuale, statutario o parasociale tra le stesse". Ciò sarebbe coerente con la ratio della riforma della disciplina delle società pubbliche, volta all'utilizzo ottimale delle risorse pubbliche e al contenimento della spesa.
3.4. Inoltre, secondo la Procura, anche accedendo ad una diversa impostazione, e cioè escludendo che la partecipazione maggioritaria di capitale pubblico equivalga a controllo di diritto, in presenza della maggioranza del capitale sociale in mano a soci pubblici, si deve presumere ex lege una situazione di controllo pubblico esercitato congiuntamente dagli stessi. Nel caso di specie, la presunzione sarebbe confermata dall'esistenza di coordinamento tra i soci pubblici non formalizzato, ma rilevabile per fatti concludenti, come è reso evidente dall'identità unanime di voto degli stessi su diversi punti all'ordine del giorno, circostanza riscontrabile dai verbali assembleari prodotti in giudizio.
3.5. Alla luce di tale presunzione, l'argomento dell'incidenza del socio privato sulla governance societaria diventerebbe irrilevante. In particolare, in presenza del controllo pubblico diffuso della pubblica amministrazione (tramite soci pubblici), il testo unico non annetterebbe alcuna importanza al funzionamento del c.d.a. e alle relative maggioranze, poiché la società va comunque considerata a controllo pubblico, anche se sussiste il controllo congiunto o l'influenza dominante di un socio privato.
Analoghe considerazioni possono esser fatte in relazione alle disposizioni dello statuto richiamate dalla ricorrente, in ordine al ricordato patto parasociale del 2015 e alle evocate decisioni assunte dal c.d.a. nella seduta del 21 aprile 2017, in quanto si tratta di atti giuridici volti a disciplinare i poteri dell'amministratore delegato, il funzionamento del c.d.a. e quello dell'assemblea straordinaria, senza derogare alle previsioni di legge circa il funzionamento dell'assemblea ordinaria, e, quindi, senza incidere sulla disponibilità, in capo agli enti pubblici soci, della maggioranza dei voti ivi esercitabili.
3.6. Sarebbe inoltre inconferente la citazione del provvedimento amministrativo dell'AGCM, il quale è stato emanato nell'ambito di una procedimento di verifica degli effetti anticoncorrenziali della concentrazione societaria, in particolare, allo scopo di verificare la costituzione o il rafforzamento di una posizione dominante sui mercati interessati, nell'ottica della sussistenza di un'unità decisionale ed economica unitaria ai fini antitrust, e non nella prospettiva di stabilire la tipologia di rapporto intercorrente tra la società e gli enti pubblici soci, onde determinare il regime giuridico della prima.
3.7. Del tutto ininfluente, infine, sarebbe la sentenza del Consiglio di Stato n. 578 del 23 gennaio 2019, in quanto l'irrilevanza delle partecipazioni pulviscolari in assenza di coordinamento formalizzato viene affermata nell'ottica dell'obbligo di razionalizzazione [e] dismissione ai sensi dell'art 24 Tusp, e non ai fini della valutazione del controllo pubblico ove congiunto.
4. Nel corso della discussione orale, il patrocinante di Marche multiservizi S.p.A. e la Procura hanno richiamato gli argomenti sopra riportati, tanto in punto di ammissibilità del ricorso, che in punto di merito.
Al termine dell'udienza, la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
1. In via pregiudiziale, occorre esaminare l'eccezione di inammissibilità dell'atto introduttivo per mancata notificazione dello stesso alla Sezione regionale di controllo per le Marche, in conformità all'art. 124 c.g.c. Il ricorso, infatti, è stato notificato all'indirizzo della Sezione regionale di controllo che ha emesso la pronuncia impugnata, ma il destinatario della notifica era la "Procura regionale presso la Sezione regionale di controllo della Corte dei conti per le Marche".
L'eccezione è infondata.
Verificato in punto di fatto che il ricorso risulta notificato al civico n. 2 di via Matteotti (ove hanno sede tutti gli uffici della Corte dei conti della regione Marche) e ritirato dall'addetto alla ricezione atti, il Collegio ritiene che la notifica abbia comunque raggiunto il suo scopo e conseguentemente non determini l'inammissibilità del ricorso.
L'art. 124 del c.g.c. prevede che il ricorso sia proposto, a pena di inammissibilità, entro il termine di trenta giorni dalla conoscenza legale della deliberazione impugnata e che sia notificato "nelle forme della citazione in ogni caso al Procuratore generale della Corte dei conti e, ai fini conoscitivi, alla sezione del controllo che ha emesso la delibera impugnata"; ciò comporta che il ricorso si intende proposto esclusivamente con la notifica al Procuratore generale - controparte necessaria nel giudizio - e che, laddove il termine dei trenta giorni non risulti rispettato, ne consegue, per espressa disposizione di legge, la sanzione estrema dell'inammissibilità, in quanto volta a garantire il pieno rispetto del contraddittorio tra le parti.
Il restante periodo del comma 1 dell'art. 124, unito con la congiunzione "e", estende l'onere della notificazione alla Sezione di controllo che ha emesso la deliberazione impugnata solamente "ai fini conoscitivi": il Collegio ritiene che la disposizione in esame non sia posta a presidio della pienezza e integrità contraddittorio giacché la Sezione regionale di controllo, non è parte né controinteressato del giudizio innanzi a questo giudice. La norma ha unicamente finalità ordinatorie, nel senso che consente alla Sezione regionale di controllo informata di ponderare, medio tempore, le decisioni sulle pendenze instaurate o instaurabili innanzi alla stessa ed eventualmente di sospendere l'adozione di nuove pronunce di accertamento sino all'esito del ricorso.
Ne consegue, ad avviso del Collegio, che la sanzione dell'inammissibilità - ragionevolmente comminata per la violazione del termine perentorio di proposizione del ricorso nei confronti della controparte processuale - non possa estendersi anche alla violazione di una disposizione che per espressa volontà del legislatore risponde ad una ratio del tutto diversa e secondaria rispetto a quella di assicurare la garanzia dell'integrità del contraddittorio.
Peraltro, lo scopo ordinatorio-conoscitivo risulta di fatto raggiunto, come risulta dalla trasmissione del fascicolo d'ufficio a questo Giudice, sicché la richiesta della fissazione di un termine per consentire di provvedere alla regolare notificazione alla Sezione regionale di controllo del ricorso - avanzata in via subordinata dalla Procura generale - risulta priva di concreta utilità.
Diversamente, del resto, si violerebbe il principio della ragionevole durata del giudizio, che "impone al giudice di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano quelli che si traducono in inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del contraddittorio, da effettive garanzie di difesa e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità, dei soggetti nella cui sfera giuridica l'atto finale è destinato a produrre i suoi effetti" (cfr. Cass. civ., II, sentenza 21 maggio 2018, n. 12515).
2. Ancora in via pregiudiziale, occorre esaminare l'eccezione, sollevata sempre dalla Procura generale, relativa alla carenza di interesse della società ricorrente ad impugnare la deliberazione della Sezione di controllo in epigrafe, innanzi a queste Sezioni riunite in speciale composizione, conformemente a quanto deciso da queste Sezioni riunite con la sentenza n. 8/2019/EL.
Il Collegio, re melius perpensa, modificando il pregresso orientamento, ritiene infondata l'eccezione, sulla base delle ragioni che seguono.
2.1. La pronuncia della Sezione regionale di controllo, emessa nell'ambito di un procedimento di controllo sul comune di Cagli e sulle sue partecipate, contiene l'accertamento della violazione di una norma specifica del d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175 (Tusp), che si estende, nel dispositivo, alla sollecitazione di un comportamento della società, mediante gli organi sociali.
Il ricorso è stato introdotto dalla società partecipata, in forza della competenza attribuita a queste Sezioni riunite in speciale composizione dall'art. 11, comma 6, lett. e), c.g.c. e più in generale alla Corte dei conti dall'art. 103, comma 2, Cost.
2.2. Ricordato che, il contenuto e l'ampiezza delle condizioni dell'azione processuale vanno definite in funzione del bene sostanziale oggetto della tutela, osserva il Collegio che l'art. 11, comma 6, lett. e), c.g.c., radica la giurisdizione piena ed esclusiva di queste Sezioni riunite sulle pronunce emesse dalle Sezioni regionali di controllo, in ragione delle funzioni esercitate ai sensi dell'art. 100, comma 2, Cost. ed in attuazione dell'art. 103, comma 2, Cost.
Ciò comporta che oggetto del controllo di legittimità-regolarità delle Sezioni regionali di controllo e del processo innanzi a queste Sezioni riunite è sempre il bilancio come bene pubblico (cfr. Corte cost., sentenze n. 184/2016, n. 228/2017 e n. 274/2017, n. 49/2018 e ordinanza n. 7/2019, nonché Consiglio di Stato, sez. IV, sentenze 2200 e 2201/2018) e il diritto che lo disciplina, anche laddove questo riguardi forme esternalizzate di gestione di missioni e/o programmi, attraverso bilanci separati, personificati in soggetti di diritto privato.
Peraltro, l'accertamento compiuto dalla Sezione regionale di controllo, una volta compiuto, per gli effetti di legge che vi sono collegati, può compromettere interessi, non più adespoti, ma che si soggettivano in quelli giuridicamente qualificati di determinati soggetti. Ciò può riguardare l'amministrazione controllata ma anche terzi portatori di interessi che, in relazione alle conseguenze di legge, possono essere pregiudicati dal comportamento conformativo del soggetto controllato.
Ne consegue che la giurisdizione di questo giudice è una giurisdizione essenzialmente di diritto oggettivo, che peraltro si attiva per effetto di parti il cui interesse è intercettato dall'accertamento compiuto dalle Sezioni regionali, anche se rimane, quanto ad oggetto, focalizzato sulla conformità a diritto della concreta gestione del bilancio. Tale giurisdizione può essere attivata quando l'accertamento compiuto è in grado di ledere interessi concreti e soggettivizzati, giuridicamente rilevanti.
2.3. Gli accertamenti delle Sezioni regionali effettuati in modo dicotomico (Corte cost., sent. n. 60/2013) e vertenti sulla sussistenza o meno di presupposti di una fattispecie normativa possono entrare in conflitto con interessi giuridici meritevoli di tutela che non hanno avuto adeguata rappresentazione nel procedimento di controllo, soprattutto quando, come nel caso di specie, tali effetti sono direttamente previsti dalla legge a carico di terzi.
A fronte di questi effetti, l'interesse a ricorrere contro l'accertamento della Sezione regionale si radica direttamente in capo a tali soggetti.
Va ricordato, infatti, che la giurisdizione contabile sul bilancio degli enti pubblici, attribuita direttamente dalla Costituzione per materia (art. 103, comma 2, Cost. e 100, comma 2, Cost.) è esclusiva, sicché, come evidenziato nella sentenza n. 8 del 2019 di queste Sezioni riunite, le deliberazioni adottate dalle Sezioni regionali di controllo "non [sono] sindacabili da parte di altro giudice diverso dalle Sezioni riunite della stessa Corte in speciale composizione (SS.RR. sentenze 12/2016, 2/2013, 6/2013)".
Nel caso in cui l'accertamento della Sezione regionale ridondi nell'adozione di atti amministrativi da parte della pubblica amministrazione e finisca per incidere gli interessi di terzi, in base ad "un asserito non corretto esercizio della funzione di controllo, si dovrebbe necessariamente ammettere, pena la violazione dell'art. 24 Cost., la possibilità per questi soggetti di adire un diverso plesso giurisdizionale, con la conseguenza che attraverso l'impugnazione degli atti amministrativi conseguenti all'esito del controllo, si avrebbe indirettamente un sindacato sulle deliberazioni di controllo da parte di un giudice sfornito di giurisdizione" (SS.RR. sent. n. 8/2019/EL), così violando l'art. 103, comma 2, Cost. e determinando un corto circuito nel sistema disegnato dalla legge e dalla Costituzione.
Analogamente, qualora dovessero essere sindacati i comportamenti privatistici assunti in base ai provvedimenti in auto-tutela assunti dai soci pubblici, a giudicare dovrebbe essere il giudice ordinario, privo anch'esso, a sua volta, della necessaria giurisdizione sui provvedimenti di controllo.
2.4. Poiché sussiste una riserva costituzionale di giurisdizione, esclusiva per materia, è indubitabile che, sebbene l'accertamento compiuto dalla Sezione regionale di controllo riguardi il Comune di Cagli, gli effetti di tale accertamento determinano comportamenti obbligatori per i soggetti da questo partecipati. Segnatamente, un accertamento siffatto può costituire premessa di una delle eccezionali ipotesi [di] autotutela doverosa ammesse dall'ordinamento (cfr. Consiglio di Stato, VI, sentenza 17 gennaio 2008, n. 106 e T.A.R. Campania, Napoli, Sez. IV, sentenza 3 aprile 2012, n. 1527) e contemporaneamente costituire la premessa per l'esercizio di prerogative privatistiche (cfr. Adunanza plenaria n. 10/2011) da parte dei vari soci pubblici.
Di conseguenza, poiché l'unico giudice ad avere giurisdizione sull'accertamento compiuto dalla Sezione regionale di controllo sono queste Sezioni riunite, sussiste un interesse concreto ed attuale all'impugnazione da parte della società partecipata, la quale è investita degli effetti giuridici dell'accertamento della Sezione di controllo.
L'effettività della tutela ai sensi degli artt. 24 e 113 Cost. e, contemporaneamente, il rispetto della riserva costituzionale di giurisdizione per materia, pertanto, sono garantiti dalla pronuncia nel merito, scrutinata alla luce della sussistenza dell'interesse ad agire di cui all'art. 100 c.p.c., nella lettura datane dalla giurisprudenza della Corte di cassazione (cfr. Cass. civ., Sez. un., sent. 16 febbraio 2016, n. 2951; Cass. civ., Sez. II, sent. 24 gennaio 2019, n. 2057).
2.5. L'effetto della deliberazione impugnata consiste nell'accertamento della qualità di società a controllo pubblico per la società Marche Multiservizi S.p.A., con il complesso di conseguenze giuridiche che ne derivano, ai sensi del Tusp, sia per gli enti proprietari delle partecipazioni che per la stessa società partecipata.
In base a tale qualità soggettiva, infatti, la società è assoggettabile alla complessa disciplina derogatoria delle disposizioni del codice civile in materia di società in tema di: a) disposizioni sulla governance di cui all'art. 11 (vincolo del numero dei componenti del consiglio di amministrazione, definizione di limiti al trattamento economico degli amministratori, regole sulla incompatibilità/inconferibilità degli incarichi); b) principi fondamentali sull'organizzazione e sulla gestione (art. 6); c) disciplina delle crisi d'impresa (art. 14, commi 2 e 3); d) regole sulla gestione dei rapporti di lavoro (art. 19, commi 1-4); e) criteri in tema di trasparenza (art. 22).
L'accertamento operato dalla Corte dei conti in termini di riconoscimento di tale qualità comporta infatti l'obbligo per i soci pubblici e per la società stessa di conformarsi a tale disciplina speciale.
Né può essere misconosciuto l'interesse non patrimoniale, eppure giuridicamente rilevante, della persona giuridica partecipata da enti pubblici a presentarsi agli altri operatori sul mercato quale società rispettosa del quadro normativo. Sotto questo secondo aspetto, trattasi di un interesse a ricorrere non dissimile da quello riconosciuto dal legislatore in relazione all'impugnativa avverso l'inclusione negli elenchi Istat, in quanto il bene tutelato, in tali casi, è proprio la corretta attribuzione di uno status all'interno della pubblica amministrazione, in presenza di determinate caratteristiche economiche e/o organizzative, che comporta l'applicazione di un complesso di norme a tutela della finanza pubblica.
Tanto è sufficiente, ad avviso del Collegio, a ritenere sussistente l'interesse ad agire da parte di Multiservizi S.p.A., in ragione all'effetto utile che il provvedimento giudiziario avrebbe per il ricorrente e del carattere indubbiamente concreto e attuale al pronunciamento del giudice, poiché gli effetti negativi dell'accertamento impugnato non sono solo possibili e/o futuri, ma certi in ragione del carattere vincolato delle azioni e dei comportamenti che devono conseguire per l'amministrazione e per la società, in ragione dell'accertamento stesso.
Giova peraltro evidenziare che ad analoghe conclusioni è giunta anche la precedente sentenza di queste Sezioni riunite in speciale composizione n. 16/2019/EL, pubblicata nelle more della redazione della presente decisione.
3. Passando al merito della causa, il Collegio ritiene il ricorso - articolato in un solo motivo, e segnatamente sull'assunta erronea interpretazione e applicazione del concetto di controllo pubblico di cui all'art. 2, lett. b) ed m), nonché art. 11 del Tusp - meritevole di accoglimento.
3.1. La Sezione regionale di controllo, nella deliberazione impugnata, ha fondato l'accertamento della qualità di società a controllo pubblico nei confronti di Marche Multiservizi S.p.A., argomentando sulla base delle norme statutarie, ed in specie con riguardo agli artt. 5 e 15. Pertanto, ne ha dedotto che «i soci pubblici possiedono la maggioranza dei voti sia in assemblea che nel consiglio di amministrazione e possono in tal modo condizionare l'andamento complessivo della gestione della società»; ha inoltre ritenuto che «la frammentazione delle quote di partecipazione in capo ad una pluralità di amministrazioni non osti alla configurabilità del controllo pubblico» ed in tal senso ha richiamato l'atto di orientamento in data 15 febbraio 2018 della Struttura di controllo e monitoraggio prevista dall'art. 15 del Tusp. Il predetto organo statale, al fine di enucleare la corretta nozione di società a controllo pubblico, si è basato su un'asserita interpretazione letterale del combinato disposto delle lett. b) e m) dell'art. 2, comma 1, evidenziando come «alla luce dello stesso deve ritenersi che il legislatore del TUSP abbia voluto ampliare le fattispecie del controllo talché, in coerenza con la ratio della riforma volta all'utilizzo ottimale delle risorse pubbliche e al contenimento della spesa, al controllo esercitato dalla Pubblica Amministrazione sulla società appaiono riconducibili non soltanto le fattispecie recate dall'art. 2, comma 1, lett. b), del TUSP, ma anche le ipotesi in cui le fattispecie di cui all'art. 2359 c.c. si riferiscono a più Pubbliche Amministrazioni, le quali esercitano tale controllo congiuntamente e mediante comportamenti concludenti, pure a prescindere dall'esistenza di un coordinamento formalizzato», e concludendo che «sia l'interpretazione letterale sia la ratio sottesa alla riforma nonché una interpretazione logico-sistematica delle disposizioni citate, inducono a ritenere che la Pubblica Amministrazione, quale ente che esercita il controllo, sia stata intesa dal legislatore del TUSP come soggetto unitario, a prescindere dal fatto che, nelle singole fattispecie, il controllo di cui all'art. 2359, comma 1, nn. 1), 2) e 3), faccia capo ad una singola Amministrazione o a più Amministrazioni cumulativamente».
Ritiene il Collegio che il richiamo alla predetta nota di orientamento non sia risolutivo, e che l'accertamento della sussistenza della qualità di società a controllo pubblico non possa essere desunto dai meri indici costituiti dalla maggioranza di azioni e di consiglieri nel C.d.A., ma richieda precipua attività istruttoria volta a verificare se, nel caso concreto, sussistano le condizioni richieste dall'art. 2, lett. b), del Tusp.
3.2. Contrariamente a quanto affermato dalla Procura, né la ratio né la lettera dell'art. 2, lett. b) ed m), sono sufficienti a sostenere che il Tusp abbia introdotto una nozione di controllo funzionale totalmente disarticolata al concetto di controllo civilistico, consentendo di configurarlo in presenza di una mera, frammentaria, partecipazione pubblica maggioritaria.
Al riguardo è necessario ricordare che ai sensi dell'art. 1, comma 3, del Tusp, "per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali di diritto privato".
La norma, quindi, richiede deroghe espresse al codice civile e introduce una vera e propria clausola di salvaguardia a garanzia dell'omogeneità della disciplina di diritto comune, a fronte della disciplina speciale dettata per le società a partecipazione e a controllo pubblico.
3.3. Ciò premesso si osserva che il Tusp prevede due grandi gruppi di norme, alcune, applicabili a società (e pubbliche amministrazioni intestatarie delle quote e azioni) per il semplice fatto della partecipazione, altre in relazione alla riconoscibilità della qualità del controllo pubblico, come nel caso della norma che è stata applicata nell'ambito dell'accertamento compito dalla Sezione regionale di controllo (l'art. 11 Tusp).
Il concetto di controllo pubblico, in effetti, viene elaborato dal legislatore ai fini della determinazione dell'ambito soggettivo di applicazione del Tusp (art. 2, comma 1), eppur tuttavia la peculiarità del concetto elaborato non può arrivare a porsi in totale disarmonia col concetto civilistico di controllo, che presuppone la capacità di un soggetto o di un gruppo organizzato di esercitare un dominio sulla governance societaria.
Tanto si afferma in ragione della citata clausola di salvaguardia dell'art. 1, comma 3; in virtù del rinvio alla disciplina codicistica dell'art. 2359; nonché, sulla base della lettera dell'art. 2, lett. b), del Tusp medesimo.
3.4.1. Contrariamente a quanto affermato dalla Procura, infatti, la disposizione da ultimo citata non costituisce una conferma della interpretazione resa dalla Sezione, ma esattamente il suo contrario.
Segnatamente l'art. 2, lett. m), del Tusp, definisce "«società a controllo pubblico» le società in cui una o più amministrazioni pubbliche esercitano poteri di controllo ai sensi della lettera b)" e quest'ultima, a sua volta, definisce come "controllo: la situazione descritta nell'articolo 2359 del codice civile". Si tratta cioè di un rinvio pieno e tuttavia la stessa norma, nel secondo inciso, precisa che "Il controllo può sussistere anche quando, in applicazione di norme di legge o statutarie o di patti parasociali, per le decisioni finanziarie e gestionali strategiche relative all'attività sociale è richiesto il consenso unanime di tutte le parti che condividono il controllo" (enfasi aggiunta).
Proprio questo secondo inciso costituisce un elemento di specialità rispetto alla disciplina civilistica: la norma consente di ritenere sufficiente a determinare l'influenza dominante un patto parasociale debole tra più amministrazioni. Si tratta di una tipologia di sindacato di voto noto in dottrina come patto di controllo plurimo disgiunto. Questi patti non sono sufficienti, nel diritto comune, ad integrare una situazione di dominio e di influenza dominante sulla società ai sensi degli artt. 2341-bis e 2359 c.c. Infatti, in tale particolare forma, il patto di sindacato non funziona secondo logiche maggioritarie, ma conferisce ad ogni socio la possibilità di interporre un potere di veto alla decisione degli altri.
Il Tusp, dunque, in deroga all'art. 2359 c.c., consente di ritenere rilevante e determinante di una influenza dominante anche patti siffatti, non solo privi di rilevanza esterna, come gli altri patti parasociali, ma altresì deboli a livello interno, per una diminuita capacità di conformare il comportamento dei singoli soci.
Per tutti gli altri effetti rimangono ferme le norme di diritto comune, comprese la necessità di forme di coordinamento istituzionalizzato e le altre regole di validità. Lo stesso Tusp (art. 9, comma 6), infatti, ricorda che per il valido esercizio del voto o la legittimità delle deliberazioni, nella gestione delle partecipazioni pubbliche si deve fare riferimento alle norme generali di diritto privato e laddove la capacità di indirizzo si esercita a mezzo di patti parasociali (comma 6) e non in forma individuale (commi 1-5), la violazione degli impegni non determina l'invalidità delle deliberazioni degli organi della società partecipata.
3.4.2. Quanto all'art. 2359 c.c. (e il presupposto di forme di coordinamento istituzionalizzato) si rammenta, che le tre ipotesi ivi previste sono classificate in dottrina ed in giurisprudenza come «controllo di diritto» ("società in cui un'altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell'assemblea ordinaria"), «controllo di fatto» ("le società in cui un'altra società dispone di voti sufficienti per esercitare un'influenza dominante nell'assemblea ordinaria") nonché come controllo c.d. «esterno» ("società che sono sotto influenza dominante di un'altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa").
Tutte e tre le ipotesi presuppongono strumenti giuridici istituzionali (partecipazione di maggioranza assoluta o relativa, ovvero strumenti negoziali di coordinamento), che consentano ad un partecipante o ad un gruppo di essi di imporre alla rimanente compagine un comportamento uniforme. Cioè l'art. 2359 c.c., da coordinare con l'art. 2341-bis c.c., presuppone che la società si possa definire controllata quanto esiste un centro, anche plurimo, ma organizzato, di decisione strategica.
L'art. 2359 c.c., infatti, come correttamente ricorda il ricorrente, tratta del controllo di una società su un'altra società.
Tutte le ipotesi considerate dal codice civile, compresa quella aggiunta in deroga dal Tusp, presuppongono dunque un'organizzazione giuridica unitaria da parte [di] chi esercita il dominio, in modo da potere imprimere un'unità di indirizzo strategico al soggetto partecipato.
Anche la specificazione del secondo inciso della lett. b) dell'art. 2 Tusp, infatti, presuppone che più amministrazioni (lett. m), siano comunque tra loro coordinate in base a norme di legge, statutarie o ad atti negoziali con i quali più soci sono tenuti ad assumere un comportamento unitario determinando un'influenza dominante nell'ambito degli organi sociali: è infatti evidente che, ove più soggetti, nessuno dei quali singolarmente considerato può definire la strategia e assumere decisioni aziendali, il controllo può sussistere solo se gli stessi, o un gruppo di essi, riescono a far prevalere la lor[o] volontà giuridica sugli altri, attraverso forme di coordinamento istituzionalizzato, anche debole (seconda parte dell'art. 2, comma [1], lett. b, Tusp). Siffatto coordinamento deve cioè sussistere, necessariamente, ex iure (cioè in modo giuridicamente vincolante per i soci coinvolti); diversamente l'esistenza di un comportamento conforme tra più soci rileva solo come una mera regolarità statistica e non come "controllo".
3.4.3. In tal senso, la forma di coordinamento in grado di raccordare le partecipazioni frammentarie e diffuse di più pubbliche amministrazioni è il patto parasociale (2341-bis c.c.), anche in ragione della necessità di conferire interesse funzionale al mantenimento della partecipazione ai sensi dell'art. 4 Tusp (che vieta partecipazioni diverse da quelle strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali), pena l'obbligo di dismissione ai sensi dell'art. 20 e 24 Tusp.
La validità e la capacità di tali patti di concorrere all'integrazione del requisito del controllo, dopo una prima tormentata fase di ricognizione per via giurisprudenziale, è stata riconosciuta anche a livello legislativo (art. 122 d.lgs. n. 58/1998, recante il Testo unico finanziario e gli artt. 2341-bis e s. c.c.).
Si tratta di uno schema contrattuale la cui causa è di stabilizzare gli assetti proprietari o il governo della società (art. 2341-bis c.c.). La stessa norma codicistica ricorda che i patti parasociali sono validi "in qualunque forma stipulati", assumendone la forma libera.
L'esistenza dei patti parasociali può dunque essere provata, anche nell'ambito e per gli effetti di legge nei procedimenti di controllo, con qualsiasi mezzo, salvo i limiti previsti dall'art. 2721, comma 2, c.c. e dall'art. 2729 c.c.
3.4.4. Detto in altri termini, la verifica del rispetto delle norme del Tusp può portare ad esiti dicotomici, nel senso di rilevare un "controllo pubblico" istituzionalizzato, con le conseguenze di legge, ovvero configurare una situazione rilevante ai fini della verifica dei presupposti di razionalizzazione della partecipazione ai sensi degli artt. 20 e 24 Tusp. In assenza di patti parasociali o di altre forme di coordinamento istituzionalizzato, difficilmente sarà configurabile un interesse al mantenimento di una partecipazione pulviscolare.
3.4.5. Nell'ambito di questa verifica, non si può peraltro affermare che la mera partecipazione pubblica maggioritaria, pulviscolare, possa far presumere ex lege (art. 2728 c.c.) il controllo della società, per il sol fatto che tutti o la maggioranza dei soci appartengono al bacino della pubblica amministrazione, poiché, vista la regola generale del libero convincimento del giudice, le presunzioni legali sono governate dal principio di tassatività e costituiscono quindi un numerus clausus.
Giova inoltre evidenziare che il nostro sistema pubblico è improntato al principio della autonomia, competenza e della separazione; sicché l'appartenenza alla pubblica amministrazione latamente intesa (art. 2, comma 1, lett. a), Tusp) non implica ex lege la capacità delle varie pubbliche amministrazioni soci di coordinarsi né di imporre, con una supremazia speciale, la volontà di un organo o di un soggetto su un altro. Il principio di gerarchia, infatti, riguarda le articolazioni di una stessa amministrazione e può essere intersoggettiva nei soli casi espressi di legge.
In definitiva, tanto l'art. 2359 c.c. che l'art. 2 Tusp, presuppongono una direzione e un coordinamento unitari, intesi come capacità di porre un indirizzo omogeneo (dover essere) e non come regolarità (coordinamento come mera situazione statistica). L'esistenza di comportamenti coordinati può rilevare solo come post-fatto, nell'ambito di altre fattispecie normative, a carattere sanzionatorio, come per esempio in materia di intese antitrust (art. 2 l. n. 287/1990, ad esempio con riguardo ai c.d. gentlemen's agreements anticoncorrenziali).
4. Per altro verso, a queste Sezioni riunite è noto l'orientamento giurisprudenziale formatosi antecedentemente all'emanazione del Tusp in relazione alla nozione pubblicistica di controllo congiunto (C.d.S., sez. I, parere 4 giugno 2014, n. 1801) elaborato sulla scorta delle Direttive 2014/24/UE e 2014/25/UE del 26 febbraio 2014 rispettivamente sugli appalti pubblici e sulle procedure di appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali; tale nozione - secondo il Consiglio di Stato - "va calata all'interno della fattispecie civilistica di controllo societario, affinché possa dirsi integrato il controllo sulla società da parte di una pluralità di soggetti pubblici, ciascuno dei quali non si trovi in alcuna delle situazioni contemplate dall'art. 2359 c.c.".
Tuttavia, anche detta interpretazione giurisprudenziale rilevante ad altri fini, in ogni caso, presuppone l'esistenza di ulteriori indici aggiuntivi rispetto alla partecipazione maggioritaria o totale (art. 5, comma 5, del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50).
Nel Tusp, del resto non viene mai utilizzata l'espressione controllo congiunto (coniata dalla giurisprudenza amministrativa e che evoca la possibilità di accordi più o meno formali tra pubbliche amministrazioni) mentre è previsto il "controllo analogo congiunto" che si realizza tutte le volte in cui "l'amministrazione esercita congiuntamente ad altre amministrazioni su una società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi".
Peraltro, sotto il profilo normativo, nessuna disposizione prevede espressamente che gli enti detentori di partecipazioni debbano provvedere alla gestione delle partecipazioni in modo associato e congiunto: l'interesse pubblico che le stesse sono tenute a perseguire, infatti, non è necessariamente compromesso dall'adozione di differenti scelte gestionali o strategiche che ben possono far capo a ciascun socio pubblico in relazione agli interessi locali di cui sono esponenziali.
5. Semmai, come già accennato, la sussistenza di una partecipazione pulviscolare senza paralleli strumenti statutari o comunque giuridici che consentano di trasformare la stessa partecipazione in un mezzo di partecipazione effettiva alla governance societaria, per la sua incapacità di fornire vantaggi finanziari o di servizio, difficilmente supererebbe il test di interesse al mantenimento della partecipazione medesima (art. 4, comma 1, Tusp), con conseguente necessità di dismissione ai sensi dell'art. 20 e 24 Tusp.
6. Per altro verso, il controllo pubblico di cui alla lett. b) ed m) dell'art. 2 Tusp, è un concetto di relazione, nel senso che si qualifica in connessione alla eventuale assenza o partecipazione ininfluente di soggetti di privati.
Si può pertanto affermare che sebbene la mera partecipazione maggioritaria e proteiforme di soci pubblici disorganizzati non sia indice sufficiente a presumerne legalmente un controllo pubblico, in assenza di soci privati, o di prove della loro influenza dominante, tale partecipazione diffusa, unita ad altri indici di prova, possa integrare una presunzione semplice, ai sensi dell'art. 2729 c.c.
In buona sostanza, la partecipazione pubblica diffusa, frammentata e maggioritaria non costituisce ex se prova o presunzione legale dell'esistenza di coordinamento tra i soci pubblici, che deve invece essere accertato in concreto; può, invece costituire una presunzione semplice, la cui valutazione ex art. 2729 c.c. è rimessa al prudente apprezzamento del giudice, che ammetterà solo quelle gravi, precise e concordanti ed in mancanza di prova contraria diretta.
Ciò è tanto più vero in presenza di partecipazione private, anche ai soli fini del Tusp (art. 1, comma 5).
In concreto, assume rilievo decisivo lo scrutinio delle disposizioni statutarie e dei patti parasociali per verificare in che termini le pubbliche amministrazioni che detengono partecipazioni azionarie sono in grado di influire sulle decisioni finanziarie e gestionali strategiche relative all'attività sociale e solo in mancanza di questi potrà avere rilevanza un coordinamento di fatto, espressione di comportamenti concludenti, il cui apprezzamento è rimesso alla prudente valutazione della Sezione di controllo. Tuttavia, solo la valutazione complessiva delle circostanze consente di desumere il controllo mediante il sistema delle presunzioni, che si ribadisce deve basarsi su indici "gravi, precisi e concordanti".
In definitiva, l'art. 2359 c.c., richiamato dall'art. 2 Tusp, non richiede la mera partecipazione pubblica maggioritaria e proteiforme, ma una capacità rilevante iure di incidere sull'indirizzo societario. Ciò è confermato dalla disposizione contenuta nell'art. 2 Tusp, lett. b), secondo la quale il coordinamento si ritiene sussistente "anche quando" realizzato in forma debole.
6.1. La situazione di controllo pubblico, in definitiva, non può essere presunta ex lege (né juris tantum, né tantomeno juris et de jure) in presenza di una partecipazione maggioritaria di più amministrazioni pubbliche, né si può automaticamente desumere da un coordinamento di fatto; esso deve risultare esclusivamente da norme di legge, statutarie o da patti parasociali (la cui esistenza può in determinate circostanze desumersi da comportamenti concludenti) che, richiedendo il consenso unanime o maggioritario di alcune delle pubbliche amministrazioni partecipanti, determina la capacità di tali pubbliche amministrazioni di incidere sulle decisioni finanziarie e strategiche della società.
In nessun modo, del resto, il Tusp, con il sistema di definizioni dell'art. 2, ha sganciato il concetto di controllo dalla sua connotazione fondamentale che consente di distinguerlo dalla mera partecipazione, ovvero la capacità di una parte dei soci di imporre la propria volontà sugli altri. Ciò non solo in quanto la lettera della legge non lo autorizza, per il sistema di rinvio al codice civile realizzato dall'art. 2, comma 1, lett. b) ed m), ma anche perché, altrimenti, si consumerebbe una rottura con la logica di coerenza del Tusp con il diritto privato (art. 1, comma 3, e art. 9, comma 6) e con la stessa precomprensione linguistica di controllo, fermo restando che la partecipazione pubblica maggioritaria può essere valutata come un indice di prova di "controllo" ai sensi dell'art. 2729 c.c.
La riscontrata mancanza di controllo pubblico, per contro, può essere altresì valutata dalla Sezione di controllo ai sensi degli artt. 4, 20 e 24 TUSP.
7. In conclusione, il Collegio, coerentemente col precedente costituto dalla sentenza n. 16/2019/EL, pubblicata nelle more della redazione della presente decisione, ritiene che dalla lettura di siffatte disposizioni possano evincersi due rilevanti conseguenze, ai fini del giudizio di cui è causa: la prima attiene alla inapplicabilità delle disposizioni dell'art. 2359 c.c. alla società Marche Multiservizi S.p.A. per il solo fatto della partecipazione pubblica maggioritaria, la seconda è che dal riscontro dei fatti emerge in modo chiaro ed univoco che il socio privato concorre in modo determinante alla governance della società, escludendo il controllo pubblico.
7.1. Dalla documentazione versata in atti dalla ricorrente emerge che il capitale sociale di Marche multiservizi S.p.A. è attualmente detenuto dal socio privato Hera S.p.A. per il 46,2%, dal comune di Pesaro per il 25,3%, dalla provincia di Pesaro e Urbino per l'8,6% e per la restante parte da partecipazioni pulviscolari di un gruppo di comuni delle Marche, senza un coordinamento cogente per le parti pubbliche, di tipo negoziale, rilevante ai sensi dell'art. 2359 c.c.
7.2. La stessa Hera S.p.A. - che dai pubblici registri risulta partecipata per il 47,9% da soci pubblici, mentre per il 51,1% da flottante - è una società quotata in borsa, ragione per la quale ad essa si applica la disciplina in deroga di cui all'art. 1, comma 5, del Tusp.
Ai sensi di tale disposizione, come modificata dall'art. 1, comma 721, della l. 30 dicembre 2018, n. 145, le disposizioni del Tusp: «si applicano, solo se espressamente previsto, alle società quotate, come definite dall'articolo 2, comma 1, lettera p), nonché alle società da esse controllate».
In definitiva, ai fini del Tusp, la società Hera, nonostante la notevole e determinate partecipazione pubblica che la caratterizza, ai fini del Tusp, ed in ragione della sua quotazione in borsa, deve considerarsi un socio privato, sicché la sua partecipazione in Marche Multiservizi e la sua capacità di incidere sulla governance societaria vanno considerate irrilevanti sul versante della influenza notevole o della maggioranza pubblica, e valutate alla stregua di una partecipazione privata.
7.3. In terzo luogo, dall'analisi dello statuto vigente emerge che la società è amministrata da un consiglio di amministrazione composto da nove membri, compreso il Presidente, di cui due nominati dal Comune di Pesaro, uno dal Comune di Urbino, uno dalla Provincia di Pesaro e Urbino e uno da una serie di piccoli comuni del marchigiano, mentre i restanti quattro componenti sono espressione del socio privato (art. 15); l'assemblea straordinaria che è richiesta per le modificazioni statutarie, delibera in ogni sua convocazione con la maggioranza superiore all'85% del capitale sociale (art. 13), pertanto, il voto favorevole del socio privato è necessario per qualsiasi modificazione statutaria. Ciò comporta che, in assenza del voto favorevole dell'azionista privato, non possono essere modificati il numero dei componenti del Consiglio di amministrazione, né l'attribuzione delle deleghe al consigliere nominato dall'azionista privato. Inoltre (art. 18) è necessario il quorum di otto consiglieri su nove per l'adozione delle principali delibere del Consiglio di amministrazione (quali la designazione dei componenti degli organi sociali delle società controllate e/o partecipate; le proposte di fusioni, scissioni, incorporazioni in altre società; le proposte di modifica dello statuto; le operazioni di acquisizione, dismissione, conferimenti, scorpori di attività, rami aziendali; il conferimento e la modifica di poteri all'Amministratore delegato, scelto tra i soci non pubblici ai sensi dell'art. 21, l'approvazione del budget annuale preventivo e del piano industriale proposto dall'Amministratore delegato, la nomina dei consiglieri cooptati, l'attribuzione di compensi agli amministratori investiti di particolari cariche, la proposta di distribuzione di dividendi e riserve, la modifica ai contratti con le società degli asset).
7.4. L'analisi dell'assetto statutario è sufficiente per escludere la concreta possibilità che tutti i soci pubblici possano incidere sulle "decisioni finanziarie e gestionali strategiche relative all'attività sociale" ai sensi dell'art. 2, lett. b), Tusp, senza il consenso del socio privato. Conseguentemente, la decisione di ridurre il numero degli amministratori, come richiesto dalla Sezione di controllo delle Marche con le deliberazioni impugnate, non è nella disponibilità dei soci pubblici che per tale scopo necessitano del consenso del socio privato.
A tale quadro statutario si aggiunge l'esistenza di un patto parasociale sottoscritto in data 28 luglio 2015, con efficacia quinquennale, stipulato tra il socio privato Hera S.p.A. e il comune di Pesaro, che insieme detengono oltre l'80% del capitale sociale, in base al quale per una serie di deliberazioni di rilievo societario è richiesto il voto favorevole di almeno un consigliere di ciascuno dei soci.
8. Da quanto sopra esposto, risulta evidente che, in base alla vigente disciplina normativa, non è configurabile alcun controllo pubblico sulla società Marche Multiservizi, in quanto, per effetto dei poteri del socio privato, anche il consenso unanime degli enti pubblici non è sufficiente per le decisioni finanziarie e gestionali strategiche, configurandosi un controllo congiunto pubblico-privato.
La circostanza che tutti i soci pubblici, pur volendo convergere verso una logica di riduzione dell'apparato amministrativo, non dispongano degli strumenti statutari per operare la riduzione del numero dei consiglieri senza il consenso del socio privato, costituisce la controprova dell'insussistenza di un controllo pubblico (in sé logicamente incompatibile con la contemporanea presenza di un controllo privato o congiunto).
Si ritiene dunque acclarato che Marche multiservizi S.p.A. non ha le caratteristiche per essere annoverata tra le società a controllo pubblico e che alla stessa, conseguentemente, non si applicano tutte le disposizioni normative che richiedono, quale presupposto, detto status, trattandosi, semplicemente, allo stato degli atti, di società a partecipazione pubblica maggioritaria.
Discende, come logica conseguenza, l'accoglimento del ricorso e l'annullamento della deliberazione impugnata.
9. Le spese possono ritenersi compensate alla luce dell'assoluta novità e della complessità delle questioni giuridiche sottoposte a questo Collegio.
P.Q.M.
La Corte dei conti, a Sezioni riunite in speciale composizione, accoglie i ricorsi e per l'effetto annulla la deliberazione n. 60/2018/VSG del 19 dicembre 2018.
Spese compensate.
Note
V. anche Corte dei conti, sezioni riunite, sentenza 29 luglio 2019, n. 25.