Corte di cassazione
Sezione II penale
Sentenza 22 marzo 2019, n. 27816

Presidente: Cervadoro - Estensore: Cianfrocca

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di Appello di Ancona, con sentenza dell'8 luglio 2016 ha confermato quella con cui il Tribunale di Pesaro aveva riconosciuto Giulio R. responsabile dei reati di violazione di domicilio pluriaggravata ed estorsione aggravata in concorso sicché, esclusa la ipotesi di cui all'art. 116 c.p., ritenute altresì le circostanze attenuanti generiche giudicate equivalenti alle contestate aggravanti ed il vincolo della continuazione tra le varie ipotesi di reato, lo aveva condannato alla pena finale di anni 5 e mesi 9 di reclusione ed Euro 800 di multa, oltre al pagamento delle spese processuali; aveva inoltre applicato le pene accessorie di legge e revocato l'indulto concesso in data 19 luglio 2007 dalla Corte di Appello di Roma ed in data 14 febbraio 2007 dal Tribunale di Milano.

2. Ricorre per Cassazione il R. con ricorso sottoscritto dall'Avv. Enrico Cipriani lamentando:

2.1. violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento agli artt. 210 e 530 c.p.p.: rileva come i coimputati per i fatti del 2 agosto 2009 in danno di Paolo A. risultano giudicati in separato procedimento nel quale, in conseguenza di una sua denuncia, rispondono anche di fatti di estorsione ai suoi danni; segnala, quindi, come le dichiarazioni di costoro, acquisite ai sensi dell'art. 210 c.p.p., fossero in realtà prive di alcuna effettiva valenza riproponendo, in questa sede, la propria versione dei fatti secondo cui egli sarebbe stato in realtà vittima di un "tranello" ordito da costoro per "incastrarlo" e ricattarlo essendo egli del tutto ignaro delle reali intenzioni con cui i malviventi si erano con lui recati presso l'A. dove avevano agito in maniera così repentina da non consentirgli alcuna reazione; segnala che la Corte di Appello, pur avendo sostanzialmente condiviso questa ricostruzione, ha tuttavia, in maniera evidentemente illogica, avallato e confermato la decisione del Tribunale;

2.2. violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento agli artt. 393 e 629 c.p.: richiama, sul punto, le censure difensive articolate con l'atto di appello in merito alla affermazione del Tribunale secondo cui egli non poteva vantare alcun diritto nei confronti dell'A. aggiungendo che la Corte territoriale ha preferito escludere il reato di cui all'art. 393 c.p. sotto altro e diverso profilo rispetto a quanto ritenuto dal Tribunale; richiama, a tal fine, la deposizione dell'A. e la ricostruzione della vicenda contrattuale intervenuta tra costui e la ditta Fra.Rovi., il cui legale rappresentante è il di lui figlio, con la promessa di vendita rimasta inadempiuta dalla persona offesa sicché la riconsegna dell'immobile non poteva in alcun modo essere considerato un ingiusto profitto corrispondendo, invece, al pieno diritto di esso ricorrente; ribadisce, ancora, l'insussistenza del delitto di estorsione sotto il profilo dell'elemento psicologico che aveva animato la sua condotta, finalizzata semplicemente al soddisfacimento ed alla realizzazione di un proprio preciso diritto;

2.3. violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento agli artt. 116 e 629 c.p.: ribadisce come la stessa ricostruzione offerta dai coimputati (con particolare riferimento alle dichiarazioni di Marco S.) conferma che la spedizione punitiva nei confronti dell'A. era stata organizzata da costoro al fine di poterlo successivamente ricattare e che egli non era certamente consapevole né si era prefigurato quale fosse la loro effettiva intenzione, sussistendo pertanto tutte le condizioni per riconoscere l'attenuante di cui all'art. 116 c.p. sollecitata dallo stesso Pubblico Ministero anche al fine di adeguare la pena alla effettiva gravità del fatto;

2.4. violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento agli artt. 629 e 614 c.p.: sottolinea che la condotta di violazione di domicilio, esprimendo la natura minatoria e violenta del fatto di cui al capo b), doveva necessariamente ritenersi assorbita in quest'ultimo.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I fatti sono stati ricostruiti dalle due sentenze di merito con valutazione conforme delle medesime emergenze processuali e sull'impulso offerto dalla denuncia dello stesso odierno ricorrente.

2. Il ricorso è in gran parte (ovvero relativamente ai primi tre motivi) inammissibile perché del tutto generico in quanto le censure ivi articolate riproducono e reiterano (in termini persino letterali) gli argomenti già prospettati nell'atto di appello, ai quali la Corte territoriale ha dato adeguate e argomentate risposte, esaustive in fatto e corrette in diritto, che il ricorrente tuttavia non ha in alcun modo considerato e di cui non ha in sostanza tenuto conto al fine di confrontarsi criticamente con gli argomenti utilizzati nel provvedimento impugnato limitandosi, in maniera per l'appunto inammissibilmente generica, a lamentare una presunta ma inesistente carenza o illogicità della motivazione (cfr., per la inammissibilità del ricorso in quanto genericamente riproduttivo delle doglianze spese in appello, Cass. pen., 3, 18 luglio 2014, n. 44882, Cariolo; Cass. pen., 2, 29 gennaio 2014, n. 11951, Lavorato; Cass. pen., 6, 11 marzo 2009, n. 20377, Arnone).

2.1. Quanto al primo ed al terzo motivo, infatti, la Corte (cfr., pagg. 9-10 della sentenza in verifica) ha risposto all'omologa censura articolata con l'atto di appello richiamando, da un lato, le dichiarazioni dei coimputati ma, per altro verso, e soprattutto, gli esiti della attività di captazione delle conversazioni intercorse tra costoro e che sono state ritenute - nel loro contenuto - pienamente in grado di corroborare la ipotesi ricostruttiva formulata dalla pubblica accusa con riguardo al ruolo ricoperto, alla iniziativa assunta ed alle finalità perseguite dall'odierno ricorrente.

Il ricorso, dal canto suo, si è del tutto disinteressato della motivazione offerta dalla Corte con riguardo a questo profilo, essendosi la difesa limitata a ribadire la illogicità delle conclusioni cui i giudici di appello erano pervenuti partendo dalle dichiarazioni rese dai coimputati e di cui si è dedotta la inattendibilità senza, in realtà, tener conto del fatto che la verifica sul punto, imposta comunque dall'art. 192, comma 3, c.p.p., era stata correttamente operata dai giudici di secondo grado che, a tal fine, avevano valorizzato proprio il dato desunto dalla attività di intercettazione del quale, tuttavia, il ricorso si è completamente disinteressato.

Il terzo motivo è egualmente reiterativo di argomentazioni già spese con l'atto di appello e sulle quali, ancora una volta, la Corte di Appello ha motivato in maniera esaustiva e coerente con le emergenze fattuali di cui ha dato puntualmente conto laddove il ricorso si è nuovamente limitato a riproporre la tesi difensiva senza tener conto in alcun modo delle considerazioni svolte nella sentenza impugnata.

2.2. In merito al secondo motivo non è inutile richiamare l'orientamento tuttora prevalente nella giurisprudenza di questa Corte secondo cui il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alla persona e quello di estorsione si distinguono non per la materialità del fatto, che può essere identica, ma per l'elemento intenzionale che, qualunque sia stata l'intensità e la gravità della violenza o della minaccia, integra la fattispecie estorsiva soltanto quando abbia di mira l'attuazione di una pretesa non tutelabile davanti all'autorità giudiziaria (cfr., Cass. pen., 2, 20 dicembre 2016, n. 1901, Di Giovanni; Cass. pen., 2, 8 maggio 2017, n. 24478, Salute, secondo cui integra il delitto di estorsione, e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, l'azione violenta o minacciosa che, indipendentemente dall'intensità e dalla gravità della violenza o della minaccia, abbia di mira l'attuazione di una pretesa non tutelabile davanti all'autorità giudiziaria; Cass. pen., 2, 28 giugno 2016, n. 46288, Musa; Cass. pen., 2, 15 maggio 2015, n. 23765, PM in proc. Pellicori; Cass. pen., 2, 25 settembre 2014, n. 42940, Conte).

A fronte di tale ricostruzione vi è, poi, l'indirizzo che ritiene di poter distinguere le due figure di reato in relazione alla condotta tenuta dall'agente sostenendo che finisce con l'integrare il delitto di estorsione, e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la condotta minacciosa che si estrinsechi in forme di tale forza intimidatoria da andare al di là di ogni ragionevole intento di far valere un preteso diritto, con la conseguenza che la coartazione dell'altrui volontà assume di per sé i caratteri dell'ingiustizia, trasformandosi in una condotta estorsiva (cfr., Cass. pen., 2, 8 giugno 2017, n. 33712, Michelini; Cass. pen., 6, 7 febbraio 2017, n. 11823, PM in proc. Maisto; Cass. pen., 2, 21 ottobre 2016, n. 51013, Arcidiacono, secondo cui integra il delitto di estorsione, e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la condotta minacciosa che si estrinsechi in forme di tale forza intimidatoria da andare al di là di ogni ragionevole intento di far valere un preteso diritto, con la conseguenza che la coartazione dell'altrui volontà assume di per sé i caratteri dell'ingiustizia, trasformandosi in una condotta estorsiva; Cass. pen., 19 luglio 2016, n. 41452, Stillitano; Cass. pen., 2, 27 aprile 2016, n. 41433, Bifulco).

Non è questa la sede né l'occasione per approfondire il problema e di sottolineare come, in realtà, le diverse soluzioni sopra indicate siano conseguenza, spesso, della diversità della fattispecie concreta esaminata; nel caso di specie, infatti, mentre il Tribunale aveva privilegiato la prima tesi, la Corte di Appello ha insistito sulla impossibilità di ricondurre l'azione violenta posta in essere in danno dell'A., alla luce delle sue modalità e caratteristiche estrinseche, all'esercizio di un diritto.

Trattandosi di questioni di diritto concernenti la interpretazione della norma incriminatrice, la Corte di cassazione, come è desumibile dal disposto di cui all'art. 619, comma 1, c.p.p. (su cui cfr., Cass., Sez. un., 24 giugno 1998, n. 9973, Kremi), ha senz'altro la possibilità di adottare una soluzione anche diversa da quella privilegiata nella motivazione della sentenza sottoposta al suo vaglio purché siano tenuti fermi i presupposti fattuali accertati dai giudici di merito.

Partendo da questa premessa, è pacifico, allora, che l'iniziativa nei confronti dell'A. fosse stata adottata da chi, ovvero l'odierno ricorrente, non era in alcun modo titolare del diritto derivante dal contratto preliminare sottoscritto con la persona offesa e che, infatti, era stato concluso con la società di cui, peraltro, il R. non era nemmeno legale rappresentante e, per quel che consta, socio.

Questa Corte ha avuto allora modo di chiarire che il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni rientra, diversamente da quello di estorsione, tra i cosiddetti reati propri esclusivi o di mano propria, per questa ragione configurabili soltanto laddove la condotta tipica sia stata posta in essere da colui che ha la titolarità del preteso diritto (cfr., in tal senso, Cass. pen., 2, 28 giugno 2016, n. 46288, Musa).

Vero che la Corte di Appello ha privilegiato il secondo orientamento: vero che, anche in tal caso, il ricorso ha omesso totalmente di confrontarsi con la argomentazione dei giudici di merito preferendo insistere sulla tesi della esistenza e titolarità del preteso diritto, certamente infondata essendo emerso, in maniera peraltro incontroversa, che il diritto vantato era riferibile ad un soggetto "terzo" e che mai egli avrebbe avuto la possibilità, come tale, di farlo valere personalmente in giudizio.

2.3. Il quarto motivo, che denuncia violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento agli artt. 629 e 614 c.p. è invece giuridicamente fondato; la difesa, infatti, sottolinea che la condotta di violazione di domicilio, esprimendo la natura minatoria e violenta propria delle modalità di commissione del fatto autonomamente ascritto al capo b), doveva per questa ragione ritenersi assorbita in quest'ultimo.

È opportuno allora ricordare che il R. era stato rinviato a giudizio per rispondere, al capo a), del delitto di cui all'art. 614 c.p. in quanto, in concorso con Marco S. ed altri, si sarebbe introdotto clandestinamente nella abitazione di Paolo A. trattenendovisi contro la volontà di chi aveva il diritto di escluderlo ed utilizzando violenza fisica e verbale nei confronti del predetto A. così realizzando il fatto di reato di estorsione autonomamente contestato al capo b).

Come è noto, con la l. 94 del 2009, il legislatore ha inserito, nel terzo comma dell'art. 628 c.p., il n. 3-bis) che definisce e descrive la aggravante (speciale ed ad effetto speciale) dell'aver commesso il fatto nei luoghi di cui all'art. 624-bis c.p., ovvero nei luoghi di privata dimora qual è, indubbiamente, quello nel quale si è consumata la condotta estorsiva contestata al ricorrente.

È pacifico, inoltre, che il rinvio operato dal secondo comma dell'art. 629 c.p. all'ultimo comma dell'art. 628 c.p., quanto alle circostanze aggravanti applicabili al delitto di estorsione, deve qualificarsi di natura formale o "dinamica", e deve intendersi riferito, dopo le modifiche apportate dalla l. n. 94 del 15 luglio 2009, all'attuale terzo comma della disposizione normativa prevista per il delitto di rapina (cfr., Cass. pen., 5, 23 ottobre 2013, n. 2907, Cammarota; cfr., anche, Cass. pen., 2, 23 marzo 2016, n. 13239, Ciancimino; Cass. pen., 2, 17 gennaio 2014, n. 18742, Zubcic) nella formulazione conseguente all'intervento del 2009 e, dunque, anche alla aggravante di cui al n. 3-bis del comma terzo dell'art. 628 c.p.

Ebbene, con riferimento al delitto di rapina, questa Corte ha in più occasioni avuto modo di chiarire che la realizzazione della condotta incriminata all'interno di un edificio o di un altro luogo destinato a privata dimora configura, dopo l'introduzione del n. 3-bis del comma terzo dell'art. 628 c.p., un "reato complesso", nel quale rimane assorbito il delitto di violazione di domicilio, che costituisce reato-mezzo, legato da nesso di strumentalità a quello di rapina (cfr., Cass. pen., 2, 17 luglio 2014, n. 40382, Farfaglia; conf., Cass. pen., 2, 28 marzo 2018, n. 17147, Audolina che ha osservato come analoga questione era stata affrontata con riguardo al furto aggravato nel periodo antecedente l'introduzione della specifica ipotesi di cui all'art. 624-bis c.p. segnalando che "... questa Corte ha avuto modo di statuire che il delitto di violazione di domicilio è assorbito nell'aggravante del furto ex art. 625 c.p., n. 1 (Sez. 2, n. 7089 del 18 marzo 1988, Rv. 178620); che il furto aggravato dall'introduzione in edificio abitativo è reato complesso, unificandosi in esso, quale circostanza aggravante, la violazione di domicilio consumata, poiché questa costituisce reato-mezzo, legato da nesso di strumentalità a quello di furto (Sez. 2, n. 8790 del 15 maggio 1987, Rv. 176473)..."; nella medesima decisione si è spiegato che "su questa scia, ricorrendo la eadem ratio, deve ritenersi che, dopo l'introduzione, ad opera della l. n. 94 del 2009, dell'apposita aggravante di cui all'art. 628 c.p., comma 3, n. 3-bis, la commissione di una rapina nei luoghi di cui all'art. 624-bis c.p. (edificio o altro luogo destinato a privata dimora), quando la introduzione in tali luoghi abbia avuto il fine esclusivo di impossessarsi con violenza o minaccia della cosa mobile altrui, dia luogo ad un "reato complesso" (art. 84 c.p.), quale deve ritenersi il delitto di cui all'art. 628 c.p., comma 1 e comma 3, n. 3-bis, ossia ad una figura criminosa nella quale convergono gli elementi costituitivi di altri reati" ovvero che "... si verifica un concorso apparente di norme, per cui più sono le fattispecie criminose che sembrano applicabili, ma una soltanto di esse è in realtà applicabile, perché gli elementi costitutivi di una o più fattispecie criminose vanno a convergere nella fattispecie del reato complesso sotto forma di elemento costitutivo o di circostanza aggravante"; in definitiva, si è detto, "... in questi casi, come stabilisce l'art. 84 c.p., non si applicano le norme sul concorso dei reati, col conseguente cumulo delle pene, ma si applica la sola pena prevista per il reato complesso (Sez. 2, 40382/2014, Rv. 260322)").

Alla stessa conclusione, dunque, sarebbe necessario pervenire con riguardo al delitto di estorsione laddove, come nel caso di specie, la condotta sia stata consumata nei luoghi predetti, circostanza che, per l'appunto, aveva giustificato la contestazione della autonoma ipotesi di reato di cui al capo a) della rubrica, ovvero del reato di violazione di domicilio aggravata.

Se non ché, si deve prendere atto della circostanza secondo cui i fatti di cui si discute risalgono e sono stati commessi il 2 agosto 2009, ovvero in data antecedente la entrata in vigore della l. n. 94 del 2009, pubblicata in G.U. in data 27 luglio 2009 ed entrata in vigore il successivo 8 agosto 2009.

Si pone, allora, il problema della individuazione della normativa applicabile al caso di specie, se quella vigente al momento del fatto ovvero quella sopravvenuta, alla luce del principio generale di cui al quarto comma dell'art. 2 c.p., dovendo a tal fine previamente essere individuata la disciplina più favorevole per l'imputato.

A tal proposito, allora, non è allora inutile ribadire che, in caso di successione di leggi nel tempo, l'individuazione del regime di maggior favore per il reo ai sensi dell'art. 2 c.p. deve essere operata in concreto, comparando le diverse discipline sostanziali succedutesi nel tempo (cfr., così, ad esempio, Cass. pen., 24 ottobre 2014, n. 50047, Ferrante che ha riaffermato tale principio in materia di norme sugli stupefacenti spiegando che, in relazione alla fattispecie di lieve entità di cui all'art. 73, comma quinto, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, trasformata da circostanza attenuante a reato autonomo dall'art. 2 d.l. 23 dicembre 2013, n. 146, convertito con modificazioni dalla l. 21 febbraio 2014, n. 10, novellato con riguardo al trattamento sanzionatorio dal d.l. 20 marzo 2014, n. 36, convertito con modificazioni dalla l. 16 maggio 2014, n. 79, per le droghe pesanti risulta di maggior favore la precedente disciplina, laddove la circostanza attenuante di cui al citato comma quinto sia stata giudicata prevalente rispetto ad una circostanza ad effetto speciale che comporti un aumento di pena in misura superiore alla metà come la recidiva reiterata aggravata di cui all'art. 99, comma quarto, secondo periodo, c.p.; conf., Cass. pen., 3, 17 novembre 2016, n. 3385, A.).

Il principio espresso da queste pronunce è dunque quello secondo cui, nel caso in cui una ipotesi di reato autonoma sia "trasformata" (ovvero, come nel caso di specie, "assorbita" da una circostanza aggravante) ovvero, all'opposto, quando una aggravante sia "trasformata" in reato autonomo, la individuazione della normativa più favorevole debba avvenire "in concreto", ovvero sulla scorta della soluzione che, nella fattispecie specifica, il giudice di merito abbia ritenuto di dover perseguire nel giudizio di bilanciamento.

In via di principio, infatti, la qualificazione del "fatto" (nel caso che ci occupa l'aver consumato la condotta estorsiva introducendosi, contro la volontà dell'avente diritto, in un luogo di privata dimora) in termini di circostanza aggravante consente se non altro di operare il giudizio di bilanciamento e, dunque, di "annullarne" la ricaduta sanzionatoria.

Per altro verso, però, soprattutto nella ipotesi, quale quella che ci occupa, di aggravanti speciali o ad effetto speciale, potrà accadere che l'inquadramento normativo del "fatto" in una circostanza aggravante, laddove questa non venga "annullata" in conseguenza dell'esito del giudizio di bilanciamento, possa sortire un effetto addirittura più penalizzante, in termini sanzionatori, di quello conseguente alla applicazione dell'aumento operato ex art. 81 c.p. per il concorso formale.

In definitiva, quindi, è corretta la impostazione che si ritrae dalle decisioni sopra richiamate secondo cui la individuazione della disciplina più favorevole va fatta "in concreto", ovvero in conseguenza dell'esito del giudizio di bilanciamento poiché soltanto laddove il giudice di merito ritenga, nella sua discrezionalità, di dover "bilanciare" la aggravante (che, si badi, è ad effetto speciale, comportando un aumento di pena ben superiore al terzo) con le concorrenti circostanze attenuanti, la disciplina sopravvenuta potrà essere in effetti giudicata "concretamente" più favorevole.

Si tratta, però, di una valutazione, quella di "bilanciare" o meno la aggravante, che è all'evidenza riservata al giudice di merito il quale, pertanto, dovrà per l'appunto, alla luce del risultato del giudizio di bilanciamento, verificare quale disciplina sia nel caso di specie più favorevole all'imputato, se quella vigente al momento del fatto ovvero quella sopravvenuta in quanto entrata in vigore qualche giorno dopo.

L'accoglimento del quarto motivo comporta allora l'annullamento della sentenza con esclusivo riguardo al profilo del trattamento sanzionatorio (nel quale, evidentemente, è compreso quello dell'"assorbimento" del delitto di violazione di domicilio aggravata nella estorsione aggravata ai sensi dell'art. 628, comma 3, n. 3-bis, c.p.).

Indipendentemente dalla soluzione che sarà adottata dal giudice del rinvio, resta comunque definitivamente accertata la responsabilità dell'imputato quanto ai "fatti" di estorsione commessi in luogo di privata dimora.

P.Q.M.

annulla la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio e rinvia per nuovo giudizio sul punto alla Corte di Appello di Perugia; dichiara inammissibile il ricorso nel resto.

Depositata il 24 giugno 2019.