Corte di cassazione
Sezione V penale
Sentenza 7 maggio 2019, n. 32862

Presidente: Sabeone - Estensore: Tudino

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 6 marzo 2018, la Corte d'appello di Milano ha confermato la decisione del Tribunale in sede del 26 giugno 2015, con la quale è stata affermata la penale responsabilità di Mario Borghezio per il reato di diffamazione, aggravata dalla finalità di discriminazione etnica e razziale, in tale condotta continuata ritenuto assorbito il reato di propaganda di idee fondate sull'odio razziale, contestato sub 2).

1.1. I fatti riguardano le dichiarazioni dell'imputato, all'epoca dei fatti membro del Parlamento europeo, nel corso di un'intervista resa nell'ambito della trasmissione "La Zanzara", andata in onda sulle frequenze di Radio24 l'8 aprile 2013 avente ad oggetto l'incontro tenutosi, nello stesso giorno, presso la Camera dei deputati tra il Presidente ed esponenti delle comunità Rom e Sinti italiane.

In particolare, l'iniziativa del Presidente della Camera veniva chiosata con espressioni del seguente tenore «la giornata della demagogia e del fancazzismo, poi con contorno di festival dei ladri», mentre agli ospiti veniva riservata la definizione «quelle facce di cazzo che qualche Presidente della Camera riceve...», concludendo con l'auspicio «speriamo non si portino via gli arredi della Camera, perché lì è pieno di quadri di pregio, di soprammobili..., un esamino con l'elenco di tutto quello che c'era prima della visita e di quello che è rimasto lo farei prudenzialmente... l'esperienza insegna».

Siffatta formulazione ottativa veniva preceduta dall'evidenziazione di «una certa cultura tecnologica nello scassinare gli alloggi della gente onesta [che] indubbiamente molti Rom ce l'hanno», «non tutti i Rom sono ladri ma molti ladri sono Rom... una bella percentuale», «i Rom neanche si propongono di lavorare, perché come l'acqua con l'olio loro con il lavoro, in generale... poi c'è qualcuno che lavora, ma come termine generale», «penso quello che pensano tutti: mano alla tasca del portafogli per evitare che te lo portino via, è un riflesso pavloviano, dettato da un'esperienza secolare» fino a concludere «un saluto al popolo Rom glielo mando con una certa tranquillità, e con una certa preoccupazione perché non sono in casa e quindi spero in bene».

1.2. Il Tribunale ha ritenuto assorbito nel delitto - continuato ed aggravato dalla finalità di discriminazione razziale - di diffamazione il reato di cui all'art. 3, comma 1, lett. a), l. 654/1975, in applicazione della clausola di riserva espressa, che risolve - in presenza dell'idem factum - il concorso apparente di norme incriminatrici, mentre le conformi sentenze di merito hanno escluso la sussistenza della causa di giustificazione dell'esercizio del diritto di manifestazione del pensiero, sub specie di espressione, in forma satirica, di un'opinione sorretta da intendimento provocatorio, nonché l'esimente dell'immunità ex art. 68 Cost.

2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso l'imputato, per mezzo del difensore, Avv. Mauro Anetrini, articolando quattro motivi.

2.1. Con il primo motivo, deduce violazione di legge e correlato vizio della motivazione in riferimento alla mancata applicazione della causa di giustificazione del diritto di satira, alla carenza del soggetto passivo del reato ed ai connotati della trasmissione radiofonica e dell'intervista.

La corte territoriale ha erroneamente escluso l'invocata scriminante ritenendo le espressioni censurate manifestazione di una personale convinzione, non supportata da dati statistici e priva di fondamento di verità, omettendo di considerare specifici elementi sottolineati nell'appello in riferimento ai connotati della trasmissione radiofonica, notoriamente satirica, e dell'intervista resa, impropriamente richiamando il principio di verità in relazione ad un contesto palesemente inverosimile, iperbolico e dissacrante, nonché il ricorso a luoghi comuni, in presenza di un lessico essenzialmente simbolico.

Risulta, inoltre, sottovalutato l'argomento difensivo finalizzato alla esclusione di una parte lesa soggettivamente intesa, riferendosi le espressioni ad una generalizzante entità popolo, categoria sociologica priva di soggettività giuridica.

2.2. Con il secondo motivo, deduce analoga censura in relazione all'applicazione dell'aggravante di cui all'art. 3, comma 1, l. 205/1993, erroneamente ritenuta alla stregua della volontà di diffusione del messaggio di superiorità della razza italiana, invece esclusa dalla giurisprudenza di legittimità, omettendo la necessaria valutazione del contesto in riferimento alla peculiarità della trasmissione radiofonica nel cui ambito l'intervista è stata resa ed alla qualità di esponente politico dell'opposizione e parlamentare dell'intervistato, secondo i principi declinati dalla Corte EDU, che impongono il bilanciamento tra i beni in conflitto.

2.3. Con il terzo motivo, lamenta manifesta illogicità della motivazione, sub specie di travisamento della prova, in merito all'applicabilità dell'immunità parlamentare ex art. 68 Cost., esclusa omettendo di valutare il contenuto delle pregresse dichiarazioni rese dall'onorevole Borghezio nel contesto parlamentare, di cui era stata richiesta l'acquisizione ex art. 603 c.p.p. (intervento del 20 maggio 2008 relativo alla situazione dei Rom in Italia; intervento dell'8 marzo 2011 relativo a misure sanzionatorie dei comportamenti antisociali delle comunità Rom; partecipazione dell'imputato ad una delegazione ufficiale del Parlamento europeo in visita ai campi Rom di Roma), invece indicative di una identità sostanziale tra le dichiarazioni nelle diverse sedi rese.

2.4. Con il quarto motivo, deduce violazione di legge e mancanza di motivazione in riferimento alla richiesta di esclusione di aumenti di pena a titolo di continuazione, erroneamente disposti pur in presenza di un unico reato.

CONDIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso è solo in parte fondato.

1. Sono infondate le censure sviluppate nel primo motivo di ricorso in punto di (in)sussistenza della causa di giustificazione del diritto di libera manifestazione del pensiero, sotto forma di satira.

1.1. Il ricorrente rivendica l'intenzionale ricorso ad una modalità di espressione irridente e paradossale, finalizzata ad evidenziare caratteristiche comuni alla popolazione Rom sorrette, da un lato, da veridicità, quantomeno per la statistica ricorrenza di imputazioni per reati contro il patrimonio riferibili a soggetti della predetta etnia e, dall'altro, espresse in forma tanto palesemente provocatoria da depotenziarne la portata lesiva dell'onore e della reputazione di soggetti determinati.

Sennonché ad escludere la ricorrenza dell'invocata scriminante basti rilevare come le contestate espressioni non siano state profferite a chiosa di un'indagine giudiziaria, avente ad oggetto fatti illeciti ascritti ad esponenti della predetta etnia, tali da rappresentare - nella prospettiva del dichiarante - la concreta dimostrazione di un dato ricorrente, bensì in corrispondenza di un'iniziativa finalizzata a promuovere il senso di appartenenza e l'integrazione sociale delle comunità Rom e Sinti. In presenza di tale dato di contesto, opportunamente valorizzato nelle conformi sentenze di merito, è lo stesso interesse pubblico di quel tipo di esternazioni (§ 1.1. del ritenuto in fatto) che viene a mancare, finendo per porsi la notizia di cronaca quale mero pretesto per l'esternazione di una intenzionale e pervicace invettiva, espressiva di un esplicito disprezzo razziale, affatto ammantata da un "sipario dalla predominante componente ironica", manifestato da un esponente politico nei confronti di una minoranza etnica, di cui invece l'iniziativa tendeva alla promozione.

Non risulta, pertanto, censurabile l'argomentazione rassegnata sul punto nella sentenza impugnata, che ha opportunamente sottolineato la standardizzazione di un lapidario e definitivo giudizio negativo, espresso con toni tali da non essere depotenziato dal contesto satirico e pungente che lo stesso titolo della trasmissione è inteso ad evocare.

Invero, l'esimente del diritto di critica nella forma satirica può ritenersi sussistente quando l'autore presenti in un contesto di leale inverosimiglianza, di sincera non veridicità finalizzata alla critica e alla dissacrazione delle persone di alto rilievo, una situazione e un personaggio trasparentemente inesistenti, senza proporsi alcuna funzione informativa e non quando si diano informazioni che, ancorché presentate in veste ironica e scherzosa, si rivelino false, generalizzanti o, comunque, inconferenti e siano, pertanto, tali da non escludere la rilevanza penale (Sez. 5, n. 4695 del 15 dicembre 2016 - dep. 2017, Zappa, Rv. 269095; n. 3676 del 2011, Rv. 249700; n. 7715 del 2015, Rv. 264064).

1.2. Il lessico utilizzato, inoltre, si pone all'evidenza oltre i limiti della continenza, anche alla stregua dello standard valutativo che si impone nella delibazione dell'espressione satirica.

Anche sul punto la sentenza impugnata resiste alle critiche mosse dal ricorrente, facendo corretta applicazione del principio per cui ai fini del riconoscimento dell'esimente prevista dall'art. 51 c.p., qualora l'esternazione rappresenti una critica formulata con modalità proprie della satira, il giudice, nell'apprezzare il requisito della continenza, deve tener conto del linguaggio essenzialmente simbolico e paradossale dello scritto satirico, rispetto al quale non si può applicare il metro consueto di correttezza dell'espressione, restando, comunque, fermo il limite del rispetto dei valori fondamentali, che devono ritenersi superati quando la persona pubblica, oltre che al ludibrio della sua immagine, sia esposta al disprezzo (Sez. 5, n. 37706 del 23 maggio 2013, P.C. in proc. Rumiz, Rv. 257255; n. 13563 del 1998, Rv. 212994).

Deve, pertanto, essere ribadito il principio per cui in materia di diffamazione a mezzo stampa, se può affermarsi, in via di principio, che la aperta inverosimiglianza dei fatti espressi in forma satirica esclude la loro capacità di offendere la reputazione e che la satira è incompatibile col metro della verità, nondimeno essa non si sottrae invece al limite della continenza, poiché comunque rappresenta una forma di critica caratterizzata da particolari mezzi espressivi. Ne consegue che, come ogni altra critica, la satira non sfugge al limite della correttezza, onde non può essere invocata la scriminante ex art. 51 c.p. per le attribuzioni di condotte illecite o moralmente disonorevoli, gli accostamenti volgari o ripugnanti, la deformazione dell'immagine in modo da suscitare disprezzo e dileggio. Peraltro, pur dovendosi valutare meno rigorosamente le espressioni della satira sotto il profilo della continenza, non di meno la satira stessa, al pari di qualsiasi altra manifestazione del pensiero, non può infrangere il rispetto dei valori fondamentali, esponendo la persona al disprezzo e al ludibrio della sua immagine pubblica (Sez. 5, n. 2128 del 2 dicembre 1999 - dep. 2000, Vespa, Rv. 215475).

Nella delineata prospettiva, né il richiamo al riflesso pavloviano - quale forma di autotutela in risposta ad uno stimolo condizionato - né la riserva di onestà di cui ha beneficiato, per artifizio retorico, una quota minoritaria del popolo Rom appaiono idonei a depotenziare il reiterato e progressivo dileggio, indirizzato alla generalità dei Rom e, di riflesso, agli ospiti in visita alla Camera dei deputati.

È, pertanto, infondato l'argomento difensivo che, alla stregua della natura della trasmissione, notoriamente satirica, pretende di dimostrare l'inoffensività dell'esternazione, trattandosi di espressioni chiaramente esplicative di disprezzo nei confronti dei componenti, soggettivamente determinati, della delegazione ricevuta presso la Camera dei deputati, oltre che dell'Istituzione ospitante.

2. Il primo motivo di ricorso è, invece, fondato nella parte in cui censura la ritenuta sussistenza del delitto di diffamazione in danno dell'etnia Rom e Sinti, indistintamente considerata.

2.1. Il reato di diffamazione è, invero, costituito dall'offesa alla reputazione di una persona determinata e non può essere, quindi, ravvisato nel caso in cui vengano pronunciate o scritte frasi offensive nei confronti di una o più persone appartenenti ad una categoria, anche limitata, se le persone cui le frasi si riferiscono non sono individuabili (Sez. 5, n. 24065 del 23 febbraio 2016, P.O. in proc. Toscani, Rv. 266861; n. 10307 del 1993; n. 51096 del 2014, Rv. 261422).

Non integrano, pertanto - come rilevato dal ricorrente - il delitto di diffamazione le espressioni riportate nella seconda parte del § 1.1. del ritenuto in fatto.

2.2. Le invettive riferite in genere al popolo Rom integrano, invece, il reato previsto dall'art. 3, comma primo, lett. a), prima parte, l. 13 ottobre 1975, n. 654, originariamente contestato ed erroneamente ritenuto escluso in virtù della clausola di riserva.

Invero, nel caso in disamina la condotta dichiarativa dell'imputato si è articolata in diversi fatti offensivi, parte dei quali rivolti ai membri della delegazione ricevuta dal Presidente della Camera dei deputati, e parte rivolta indistintamente al popolo Rom.

Di guisa che non ricorre l'unitarietà del fatto ed il concorso apparente di norme, rispetto al quale trova applicazione la clausola di riserva contenuta nella norma evocata, ma ci si trova in presenza di una pluralità di reati che concorrono tra loro, e che possono trovare unitaria riconduzione solo nei termini di cui all'art. 81 cpv. c.p.

Invero, la reiterata insistenza sulla pericolosità sociale di una razza, ribadita da un noto esponente politico persino in conclusione di un'intervista che, per popolarità e audience, risulta seguita da un numero considerevole di persone, s'appalesa del tutto idonea a fomentare ed acuire un generalizzato sentimento di diffidenza e discriminazione.

Palese e reiterato è il richiamo al timore di furti, in abitazione e sulla persona, riferiti esclusivamente all'etnia insistentemente richiamata e tali da ingenerare e rafforzare diffidenza e sospetto presso un numero indeterminato di ascoltatori, anche in ragione della popolarità e dell'autorevolezza dell'intervistato.

In tal senso, l'invettiva contro la popolazione Rom costituisce una "propaganda di idee", in quanto divulgazione di opinioni finalizzata ad influenzare il comportamento o la psicologia di un vasto pubblico ed a raccogliere adesioni, manifestando una forma di "odio razziale o etnico", che non si limita alla propalazione di un sentimento di generica antipatia, insofferenza o rifiuto riconducibile a motivazioni attinenti alla razza, alla nazionalità o alla religione, bensì disvela un atteggiamento interiore idoneo a determinare il concreto pericolo di comportamenti discriminatori, intendendosi per "discriminazione per motivi razziali" quella fondata sulla qualità personale del soggetto e non - invece - sui suoi comportamenti (Sez. 3, n. 36906 del 23 giugno 2015, Salmè, Rv. 264376).

E, nel caso in disamina, il contesto richiamato s'appalesa del tutto concludente in punto di accertamento della concreta pericolosità del fatto, alla stregua di una interpretazione degli enunciati elementi normativi che rende evidente la prevalenza dei principi di pari dignità e di non discriminazione rispetto a quello di libertà di espressione.

Il fatto deve essere, pertanto, qualificato ai sensi dell'art. 3, comma primo, lett. a), prima parte, l. 13 ottobre 1975, n. 654.

2.3. Siffatta corretta qualificazione giuridica del fatto non è preclusa a questa Corte.

Invero, nel giudizio di legittimità, l'esercizio del potere della Corte di cassazione di attribuire al fatto una qualificazione giuridica diversa da quella contenuta nel capo di imputazione è condizionato alla preventiva instaurazione del contraddittorio tra le parti sulla relativa questione di diritto (Sez. 4, n. 9133 del 12 dicembre 2017 - dep. 2018, Giacomelli, Rv. 272263-01; n. 36323 del 2008, Rv. 244974-01; n. 45807 del 2008, Rv. 241754-01; n. 3716 del 2016, Rv. 266953-01; n. 2340 del 2017, Rv. 271758-01; n. 41767 del 2017, Rv. 271391-01), in conformità agli artt. 111, comma 3, della Costituzione e 6, comma 3, lett. a), della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali - come interpretato dalla Corte europea diritti dell'uomo nella sentenza 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia; contraddittorio nella specie esperito non solo alla stregua dell'originaria, conforme, contestazione, bensì nell'ampia latitudine della discussione che ha investito l'omogenea aggravante di cui all'art. 3 d.l. n. 122 del 1993, conv. con l. n. 205 del 1993, con conseguente piena esplicazione del diritto di difesa anche rispetto al prevedibile epilogo decisorio sul punto, peraltro direttamente discendente dall'accoglimento della censura sviluppata nel primo motivo di ricorso.

3. Sono inconducenti le censure sviluppate nel secondo motivo di ricorso in riferimento all'aggravante di cui all'art. 3, comma primo, l. 205/1993 del reato di diffamazione sub 1).

3.1. A fronte dell'incontestabile tenore delle espressioni rese da Mario Borghezio nell'intervista radiofonica in disamina, incentrata sulla visita di una delegazione di esponenti delle etnie Rom e Sinti alla Presidenza della Camera dei deputati, il ricorrente ha criticato la ritenuta sussistenza dell'aggravante, richiamando il principio secondo cui non costituisce elemento necessario della fattispecie che la manifestazione d'odio razziale sia destinata o, quantomeno, potenzialmente idonea a rendere percepibile all'esterno il riprovevole sentimento o, comunque, il pericolo di comportamenti discriminatori o di atti emulativi, inferendone il difetto di volontà di diffusione di un sentimento di odio razziale, a tal fine censurando la mancata contestualizzazione delle dichiarazioni sia in riferimento alle caratteristiche, esplicitamente provocatorie e dissacranti, della trasmissione, che del ruolo politico dell'imputato e della funzione rilevante che la critica - secondo la giurisprudenza sovranazionale richiamata - riveste nell'ambito di una democrazia matura.

Trattasi di rilievi infondati.

3.2. Secondo il consolidato insegnamento di questa Corte, la circostanza aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico, razziale o religioso - configurabile nel caso di ricorso ad espressioni ingiuriose che rivelino l'inequivoca volontà di discriminare la vittima del reato in ragione della sua appartenenza etnica o religiosa (Sez. 5, n. 43488 del 13 luglio 2015, Maccioni, Rv. 264825-01) sussiste non solo quando l'azione, per le sue intrinseche caratteristiche e per il contesto in cui si colloca, risulta intenzionalmente diretta a rendere percepibile all'esterno e a suscitare in altri analogo sentimento di odio e comunque a dar luogo, in futuro o nell'immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori, ma anche quando essa si rapporti, nell'accezione corrente, ad un pregiudizio manifesto di inferiorità di una razza (Sez. 5, n. 7859 del 2 novembre 2017 - dep. 2018, A., Rv. 272278).

In tal senso, deve essere affermato come, ai fini della configurabilità dell'aggravante, sia necessario che l'azione manifesti un esplicito pregiudizio di inferiorità di una razza, potendo eventualmente declinarsi anche nell'intenzionale esternazione del medesimo sentimento ed alla volontaria provocazione in altri di analogo sentimento di odio fino a dar luogo, in futuro o nell'immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori.

In altri termini, il fine specifico di un incitamento all'odio razziale non è condizione essenziale dell'aggravante in disamina, per la cui integrazione è sufficiente la esternazione di una condizione di inferiorità o di indegnità, attribuita a soggetti determinati e fatta derivare all'appartenenza ad una determinata razza, con conseguente natura di pericolo dell'elemento circostanziale di cui all'art. 3, comma primo, l. 205/1993.

3.3. Nel caso in esame, l'irridente e volgare espressione (riportata in esordio nella prima parte del § 1.1. del ritenuto in fatto) rivolta ai membri della delegazione ricevuta dal Presidente della Camera dei deputati, e l'esplicito ed insistito appellativo di ladri, è stata fondata esclusivamente sulla appartenenza dei medesimi all'etnia Rom e Sinti, come risulta dall'ampio e reiterato richiamo alla generalizzata condizione di illegalità condivisa, per via genetica, dall'intero popolo.

E siffatta valutazione risulta operata - nelle conformi sentenze di merito - proprio valorizzando il contesto complessivo delle dichiarazioni, rese nell'ambito di una trasmissione radiofonica intrinsecamente accessibile ad un numero indeterminato di persone, avente ad oggetto il commento di una iniziativa svolta, ad altissimo livello istituzionale, con evidenti finalità di integrazione della comunità Rom, e non già nell'ambito di una discussione suggerita da eventi criminosi, riferibili a soggetti appartenenti alla medesima etnia.

4. In tal senso, anche il riferimento alle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo in tema di hate speech - richiamate nel ricorso in correlazione al ruolo di parlamentare rivestito dall'imputato, asseritamente svalutato - si appalesa del tutto inconferente, ed anzi di segno decisamente opposto rispetto a quanto asserito dal ricorrente.

4.1. In via generale, la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo si esprime nel senso che la incriminazione della diffamazione costituisce una interferenza con la libertà di espressione e quindi contrasta, in principio, con l'art. 10 CEDU, a meno che non sia «prescritta dalla legge», non persegua uno o più degli obiettivi legittimi ex art. 10, par. 2, e non sia «necessaria in una società democratica».

E la necessità dell'incriminazione di ogni forma di incitamento all'odio è stata costantemente ribadita dai giudici di Strasburgo.

Invero, mentre la Convenzione non offre un'espressa definizione di «incitamento all'odio», la Raccomandazione n. (97)20 del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, adottata il 3 ottobre 1997, definisce l'hate speech come riferito a «tutte le forme di espressione che diffondono, incitano, promuovono o giustificano l'odio razziale, la xenofobia, l'antisemitismo o altre forme di odio basate sull'intolleranza».

Partendo da tale dato enunciativo, la consolidata giurisprudenza della Corte in tema di hate speech si esprime, innanzitutto, nel senso che l'istigazione all'odio non richiede necessariamente il riferimento ad atti di violenza o delitti già consumati in danno del ricorrente, in quanto i pregiudizi rivolti alle persone ingiuriando, ridicolizzando o diffamando talune frange della popolazione e isolandone gruppi specifici - soprattutto se deboli - o incitando alla discriminazione, sono sufficienti perché le autorità interne privilegino la lotta contro il discorso razzista, a fronte di una libertà di espressione irresponsabilmente esercitata e che provoca offesa alla dignità e alla sicurezza di queste parti o gruppi della popolazione (Corte Edu, Féret c. Belgio, ric. n. 15615/07, 16 luglio 2009, § 73).

In secondo luogo, l'identificazione in concreto dell'incitamento alla violenza, secondo la giurisprudenza della Corte Edu, passa attraverso il riscontro di diversi indicatori, tra i quali assume particolare rilevanza il modo in cui la comunicazione è effettuata, il linguaggio usato nell'espressione aggressiva, il contesto in cui è inserita, il numero delle persone cui è rivolta l'informazione, la posizione e la qualità ricoperta dall'autore della dichiarazione e la posizione di debolezza o meno del destinatario della stessa.

4.2. Quanto al fondamento normativo in cui ricade il contrasto all'hate speech nella giurisprudenza della Corte Edu, un approccio risalente suggeriva che le problematiche attinenti alla libertà di parola potessero essere adeguatamente trattate sulla base dell'art. 17.

Secondo tale approccio, la libertà di parola non può essere considerata senza limiti, se esercitata da membri di organizzazioni o partiti che si propongono la distruzione di valori e principi protetti dalla Convenzione, costituendo siffatte condotte un abuso del diritto che giustifica l'ingerenza statuale (Corte Edu, Schimanek c. Austria, ric. n. 32307/96, 1° febbraio 2000; Corte Edu, Ivanov c. Russia, ric. n. 35222/04, 20 febbraio 2007, in tema di antisemitismo; Corte Edu, Norwood c. Regno Unito, ric. n. 23131/03, 16 novembre 2004, in tema di istigazione all'odio religioso).

Nella delineata prospettiva si pone il significativo filone di decisioni di inammissibilità per contrasto con l'art. 17 in tema di ricorsi proposti per allegata violazione dell'art. 10 in materia di istigazione all'odio razziale.

Già la decisione della Commissione europea dei diritti dell'uomo Glimmerveen (Commissione europea dei diritti dell'uomo, Glimmerveen e Hagenbeek c. Olanda, ricc. nn. 8348/78 e 8406/78, 11 ottobre 1979) aveva escluso che la condanna per un caso di istigazione alla discriminazione tra i cittadini di diverse etnie costituisse un'indebita interferenza nella loro libertà di espressione, apparendo anzi la condanna, con riferimento all'art. 10, proporzionata e necessaria in una società democratica alla luce dell'art. 17.

Un diverso e più recente approccio suggerisce, invece, che tutti i casi di libertà di espressione siano trattati alla luce dell'art. 10, § 1, e che ogni ingerenza con il diritto sia vagliata alla luce del test di necessità dell'art. 10, § 2.

Seguendo questo secondo schema, la Corte ha statuito che espressioni concrete di incitamento all'odio, offensive per individui e particolari gruppi sociali, non ricadono nello scopo dell'art. 10 della Convenzione e, con riferimento agli standard del secondo paragrafo dell'articolo, ha evidenziato come «la tolleranza e il rispetto per la uguale dignità di tutti gli esseri umani costituisce il fondamento di una società democratica e pluralista. In considerazione di ciò, può essere necessario come questione di principio in determinate società democratiche sanzionare o anche precludere ogni forma di espressione che diffonda, istighi, promuova o giustifichi il livore basato sull'intolleranza (inclusa quella religiosa)» (Corte Edu, Gunduz c. Turchia, ric. n. 35071/97, 4 dicembre 2003, §§ 40-41).

Nel già citato caso Féret, relativo alla condanna penale di un politico per aver tenuto discorsi attinenti ai fenomeni migratori istiganti all'odio verso le comunità musulmane, la Corte ha ribadito che è cruciale, per i politici che si esprimono in pubblico, evitare commenti che possano favorire l'intolleranza, e ha concluso che, nel caso concreto, a sostegno dell'interferenza con la libertà di espressione era riconoscibile un bisogno sociale impellente di proteggere l'ordine pubblico e i diritti della comunità degli immigrati, per evitare disordini e sfiducia verso le istituzioni.

Ancora, in applicazione dell'art. 10, la Corte ha dichiarato che, in generale, le eccezioni alla libertà di espressione vanno interpretate in senso restrittivo, e la necessità di ogni restrizione dev'essere adeguatamente motivata, come ribadito in molti casi coinvolgenti la Turchia. In essi, la Corte ha escluso il bisogno di restringere la libertà di espressione in una società democratica e ha negato che anche articoli di stampa o creazioni di fantasia letteraria costituissero istigazione all'odio, anche quando vi fosse offerta un'immagine particolarmente negativa delle atrocità commesse dalle autorità interne, al punto da provocare un forte risentimento nel lettore (Corte Edu, Alinak c. Turchia, ric. n. 34520/97, 29 marzo 2005), ma senza ricadere in istigazione all'odio nel senso sopra delineato.

4.3. In estrema sintesi, può affermarsi che la Corte EDU esclude il bisogno di restringere la libertà di espressione in una società democratica quando si tratti della promozione di valori coessenziali alla tutela dei diritti dell'uomo, soprattutto in presenza della loro minaccia o restrizione, ritenendo, invece, legittima e necessaria l'ingerenza statuale punitiva in presenza di manifestazioni d'odio funzionali proprio alla compressione dei principi di uguaglianza e di libertà.

Ne deriva cha l'argomentazione difensiva rassegnata sul punto nel secondo motivo di ricorso è inconferente anche sotto tale profilo, in presenza di una mirata, insistita e crescente accentuazione di caratteristiche peculiari di una determinata razza, unitariamente associata all'illegalità mediante un'esplicita equazione disvaloriale, che costituisce espressione di disprezzo ed inferiorità e, in sostanza, di un generalizzato discredito fondato sulla razza.

Come tale integrante l'aggravante contestata.

5. Non è, infine, rilevante nella specie l'invocata applicazione dell'art. 68 Cost.

5.1. Va, al riguardo, rimarcato, alla luce di quanto desumibile dai principi esposti dalla sentenza n. 379 del 1996 della Corte costituzionale, come l'immunità costituisca lo strumento principe per assicurare l'autonomia e la libertà delle Camere e come dunque essa, correlativamente, non possa considerarsi espressione di un privilegio spettante alla persona del parlamentare, ma lo strumento di cui il parlamentare si avvale nell'esercizio e nei limiti dell'esercizio delle relative funzioni, sul quale riposa la relativa ratio giustificativa (sul punto si rinvia anche a Corte cost. n. 81 del 1975, che affronta il tema connesso dell'immunità riconosciuta dall'art. 122 Cost. in relazione alle attribuzioni dei Consigli Regionali).

Tale individuata ratio giustificativa è stata, con costante indirizzo, confermata dalla Corte costituzionale, anche al fine di definire i limiti dell'immunità, in relazione a manifestazioni suscettibili di più incerta classificazione.

Dopo le sentenze n. 10 e n. 11 del 2000, la Consulta ha avuto modo di ribadire le proprie valutazioni anche a seguito dell'entrata in vigore della legge 140 del 2003, avente la funzione di dare più concreta attuazione al principio sancito dall'art. 68 Cost. Il richiamo, ivi espresso, a varie tipologie di attività parlamentari si è accompagnato al riferimento ad attività non specificamente tipizzate, qualificate dalla connessione alla funzione di parlamentare, comunque espletata anche al di fuori del Parlamento.

In tal senso, è stato da un lato rilevato come la legge 140 del 2003 non si pone al di fuori dei limiti costituzionali nella misura in cui dà attuazione al principio espresso dall'art. 68 Cost., incentrato sullo stretto collegamento con le funzioni (Corte cost. 120 del 2004) e, dall'altro, affermato che l'insindacabilità è «... una "qualità" che caratterizza, in sé e ovunque, la opinione espressa dal parlamentare, la quale, proprio per il fondamento costituzionale che la assiste, è necessariamente destinata ad operare, oggettivamente e soggettivamente, erga omnes» (sentenza n. 194 del 2011).

In altri termini, dalla riscontrata sussistenza del nesso funzionale ad opera della deliberazione assembleare consegue, quale «deroga eccezionale [...] alla normale esplicazione della funzione giurisdizionale (sentenza n. 265 del 1997), l'insindacabilità di quell'opinione, quale che sia la sede in cui il parlamentare sia (o eventualmente sarà) chiamato a risponderne» (da ultimo Corte cost. n. 59 del 2018).

Nel segnalare come la legge ordinaria non possa creare ex novo prerogative a vantaggio del parlamentare, diverse ed ulteriori rispetto a quelle risultanti dal vigente assetto delineato dalla Costituzione, la Corte costituzionale (Corte cost. n. 262 del 2009) ha avuto modo di sottolineare che le immunità si inquadrano nel genus degli istituti diretti a tutelare lo svolgimento delle funzioni di organi costituzionali, sostanziandosi nella protezione di persone munite di status costituzionale, tale da sottrarle all'applicazione delle regole ordinarie: tali prerogative, che possono assumere diverse forme e denominazioni, sono comunque dirette a garantire l'esercizio della funzione derogando al regime giurisdizionale comune.

5.2. Su tali basi l'inquadramento giuridico dell'immunità non può prescindere dal più ampio percorso compiuto dalla Corte costituzionale al fine di delineare la sfera di autonomia delle Camere anche nella classificazione dell'attività del parlamentare, al di fuori delle categorie del diritto comune.

Considerando che l'immunità riguarda non solo la sfera di operatività del diritto penale, ma più in generale concerne l'ambito della responsabilità, sia essa penale, civile o disciplinare, la classificazione dogmatica dell'istituto non risulta agevole.

Appare infatti nel contempo arduo parlare da un lato in termini totalizzanti di incapacità penale, a fronte di un ambito comunque più esteso di irresponsabilità, e dall'altro in termini riduttivi di mera causa di non punibilità, riflettente il dato dell'esonero da sanzione penale (v. ampiamente Sez. 6, n. 40347 del 2 luglio 2018, Berlusconi, Rv. 273792-273791).

In tal senso «la nozione di incapacità penale, intesa quale incapacità di divenire centro di imputazione di situazioni giuridiche rilevanti nel sistema penale, non esprime adeguatamente il fenomeno delineato dalla Corte costituzionale, che inerisce all'esercizio delle funzioni e non coinvolge di per sé la persona del parlamentare, il quale può nondimeno essere soggetto a sindacato ove operi all'esterno di quelle funzioni o in violazione dei limiti ad esse inerenti. D'altronde la nozione di causa di non punibilità non coglie il complesso fenomeno che è alla base di tale non punibilità, non costituente mero esonero da pena, ma convergente risultato di due profili diversi, cioè, da un lato, l'agire con libertà dei fini e senza vincolo di mandato e, dall'altro, l'agire in un quadro costituzionale che non tollera la sua classificazione secondo le regole del diritto comune, ove non emergano frazioni esterne di quell'agire ovvero il coinvolgimento di beni ulteriori o di terzi. Ciò significa che la immunità costituisce in primo luogo il risultato di una causa di imperscrutabilità dell'attività del parlamentare, la quale solo ove posta in essere in violazione dei limiti ad essa propri, in quanto parimenti di rango costituzionale, ovvero tale da non esaurire in sé l'esercizio della funzione o da coinvolgere beni ulteriori, ad essa esterni, risulta classificabile secondo il diritto comune e dunque anche secondo il diritto penale» (ibidem).

In ogni caso, l'effetto finale risulta quello dell'esonero da responsabilità.

In tal senso può condividersi quanto costituisce il risultato di una lunga elaborazione della giurisprudenza di legittimità in sede civile (Cass. civ., Sez. un., n. 5756 del 12 aprile 2012, Rv. 622041/6220467-01; Cass. civ., Sez. un., n. 153 del 18 marzo 1999, 524235-01) secondo cui l'immunità dà luogo ad una causa personale di esonero da responsabilità, ma con la precisazione che tale esonero ha alla sua origine l'esercizio di funzioni che sono intrinsecamente insindacabili e non classificabili, salvo il coinvolgimento di funzioni o beni ulteriori.

Sotto il profilo penale si registra in prevalenza l'affermazione che l'immunità dà luogo ad una causa di non punibilità (Cass., Sez. 5, n. 2384 del 26 novembre 2010, dep. nel 2011, Napoli, Rv. 249501; Cass., Sez. 5, n. 43090 del 19 settembre 2007, Vendola, Rv. 238494; Cass., Sez. 5, n. 8742 del 21 aprile 1999, Sgarbi, Rv. 214649), solo in un caso essendosi affermato che ricorrerebbe una causa di giustificazione (Cass., Sez. 5, n. 38944 del 27 ottobre 2006, Boccassini, Rv. 235332), incidente sull'illiceità del fatto.

In tal senso è venuto in rilievo il riferimento alla causa di non punibilità, che non impedisce di valutare il contenuto di illiceità insito nell'azione esterna all'esercizio delle funzioni parlamentari, le quali al di là della non punibilità del soggetto, non possono dirsi a priori immuni dal riscontro di offensività (anche se in concreto potrà talvolta operare l'ulteriore scriminante dell'esercizio del diritto di cronaca: sul punto si rinvia a quanto osservato da Cass., Sez. un., n. 37140 del 30 maggio 2001, Galiero, Rv. 219651).

Di guisa che non sarà mai predicabile di insindacabilità tale frazione esterna, ma solo il contenuto inerente all'esercizio della funzione, con la conseguenza che, ove tale frazione esterna possa dirsi integrare un fatto illecito, classificabile dal diritto comune, il parlamentare non potrà andare immune da pena: in tal caso, assume rilievo non tanto l'immunità in sé, quanto l'autonomia delle Camere, cui anche l'immunità va ricondotta, imponendo l'insindacabilità e la non classificabilità della condotta, che rientri nell'esercizio della funzione, ma non precludendo la classificazione e l'eventuale perseguibilità della frazione esterna, in primo luogo a carico del soggetto estraneo alle funzioni parlamentari.

In tal senso, va rimarcato come la stessa Corte costituzionale nella fondamentale sentenza n. 379 del 1996, abbia rilevato che «nel sistema costituzionale, in conclusione, si delinea in maniera immediata e certa il confine tra l'autonomia del Parlamento e il principio di legalità. Allorché il comportamento di un componente di una Camera sia sussumibile, interamente e senza residui, sotto le norme del diritto parlamentare e si risolva in una violazione di queste, il principio di legalità ed i molteplici valori ad esso connessi, quali che siano le concorrenti qualificazioni che nell'ordinamento generale quello stesso comportamento riceva (illegittimità, illiceità, ecc.), sono destinati a cedere di fronte al principio di autonomia delle Camere e al preminente valore di libertà del Parlamento che quel principio sottende e che rivendica la piena autodeterminazione in ordine all'organizzazione interna e allo svolgimento dei lavori. Se viceversa un qualche aspetto di tale comportamento esuli dalla capacità classificatoria del regolamento parlamentare e non sia per intero sussumibile sotto la disciplina di questo (perché coinvolga beni personali di altri membri delle Camere o beni che comunque appartengano a terzi), deve prevalere la "grande regola" dello Stato di diritto ed il conseguente regime giurisdizionale al quale sono normalmente sottoposti, nel nostro sistema costituzionale, tutti i beni giuridici e tutti i diritti (artt. 24, 112 e 113 della Costituzione)».

Nel quadro così delineato, si è ritenuto come l'immunità parlamentare ex art. 68, comma primo, Cost., essendo limitata agli atti e alle dichiarazioni che presentano un chiaro nesso funzionale con il concreto esercizio dell'attività parlamentare, operi, quanto alle dichiarazioni extra moenia, solo quando queste presentino una sostanziale coincidenza di contenuti con quelle rese in sede parlamentare e siano cronologicamente successive alle dichiarazioni cosiddette "interne" (Sez. 5, n. 21320 del 6 maggio 2014, P.C. in proc. Gasparri, Rv. 259878), e dunque un nesso funzionale con il concreto esercizio delle funzioni, anche se svolte in forme non tipiche o extra moenia, purché identificabili come espressione dell'esercizio funzionale (Sez. 5, n. 2384, Rv. 249501, cit.) a tanto non essendo sufficiente né la comunanza di argomenti, né un mero contesto politico cui possano riferirsi (Sez. 5, n. 22716 del 4 maggio 2010, Marengo, Rv. 247968).

5.4. Alla luce delle evidenziate premesse, del tutto inconducente s'appalesa il preteso vizio di motivazione prospettato dal ricorrente in riferimento agli interventi effettuati dall'Onorevole Borghezio nel Parlamento europeo il 20 maggio 2008 in riferimento alla presenza dei Rom in Italia e l'8 marzo 2011 in riferimento alle iniziative intese a sanzionare i comportamenti antisociali delle comunità Rom, ponendosi le esternazioni in disamina - per occasione, contenuto, tono e forma - del tutto al di fuori dei temi trattati in sede parlamentare europea. In quella sede, invero, gli interventi di cui si lamenta la sottovalutazione erano effettivamente orientati - con toni peraltro del tutto congrui - ad affiancare al dibattito sull'inclusione le concorrenti tematiche della sicurezza, mentre è evidente l'eccentricità rispetto a quei temi delle invettive in contestazione, ai primi accomunate solo dall'etnia interessata.

La decisione impugnata s'appalesa, pertanto, incensurabilmente argomentata anche al riguardo.

6. Alla luce delle rassegnate argomentazioni, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Milano perché proceda alla determinazione del trattamento sanzionatorio in riferimento ai diversi reati concorrenti, con assorbimento nella relativa statuizione del quarto motivo di ricorso.

P.Q.M.

Riqualificato il fatto ascritto nei confronti dell'etnia Rom nell'originaria contestazione di cui al capo 2 dell'imputazione, annulla la sentenza impugnata limitatamente alla determinazione della pena, con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Milano; rigetta nel resto il ricorso.

Depositata il 22 luglio 2019.