Corte di cassazione
Sezione V penale
Sentenza 15 aprile 2019, n. 39999
Presidente: Vessichelli - Estensore: Brancaccio
RITENUTO IN FATTO
1. Con la decisione indicata in epigrafe, datata 19 maggio 2017, la Corte d'Appello di Milano, ha confermato la sentenza emessa dal Tribunale di Milano il 17 giugno 2014, con cui Ruggero Antonio R. è stato condannato alla pena di anni due di reclusione e alla multa di 50.000 euro, oltre alle spese processuali, nonché alla interdizione dai pubblici uffici e dalle funzioni direttive di persone giuridiche ed imprese oltre all'incapacità di contrattare con la P.A. per la durata di due anni, in relazione al reato di abuso di informazioni privilegiate (insider trading) previsto dall'art. 184, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 58 del 1998, commesso con l'utilizzazione indebita di informazioni nel compimento di operazioni di compravendita di strumenti finanziari.
In particolare, secondo l'ipotesi di accusa, R., in virtù della sua qualità di dirigente e socio anziano (senior) dell'area Transaction Services della Deloitte Financial Advisory Services (FAS), società dedita ad attività di consulenza finanziaria, sarebbe entrato in possesso di informazioni riservate sui progetti di Offerte Pubbliche di Acquisto di azioni della s.p.a. Marrazzi Group e della s.p.a. Guala Closures, nonché sul programma di acquisizione del controllo della s.p.a. Parmasteelisa, e si sarebbe avvalso di tali conoscenze acquisite in occasione dell'esercizio della sua attività professionale per acquistare azioni di dette società (15.000 della prima; 53.388 della seconda; 84.868 della terza), le cui quotazioni, alla luce delle suddette informazioni, avrebbero ragionevolmente avuto incrementi.
La condanna di primo grado, confermata in appello, prevedeva, altresì, la confisca della somma in sequestro, pari all'equivalente del profitto del reato e dei beni utilizzati per commetterlo (e cioè non solo le plusvalenze realizzate ma anche l'ammontare del capitale investito per ottenerle), e, tra l'altro, il risarcimento dei danni alla parte civile Consob quantificati in 100.000 euro oltre alla rifusione delle spese.
In primo grado erano stati assolti per insussistenza del fatto (e la sentenza è stata confermata anche su questo punto) i coimputati Z. Antonio e D.P. Enzo per i reati loro contestati e specificamente, il primo, al capo b), per il reato di comunicazione di informazioni privilegiate quanto alla OPA su Marazzi Group e su Guala Closures, ed entrambi, in concorso, per il reato di abuso di informazioni privilegiate concernenti il progetto di acquisizione del controllo di Permasteelisa s.p.a.
2. Avverso tale sentenza propone ricorso l'imputato tramite i propri difensori, avv. Olivo e Gualtieri, deducendo otto motivi di ricorso.
2.1. Con il primo motivo si eccepisce violazione di legge in relazione all'art. 606, comma 1, lett. c), e 125, comma 3, c.p.p. data la nullità della sentenza per mancanza di motivazione, ritenuta meramente apparente, nonché vizio di motivazione riferito alla lett. e) del medesimo art. 606 c.p.p. per mancata risposta ai motivi d'appello.
La sentenza impugnata - si dice - non avrebbe assolto al proprio onere motivazionale autonomo; si sarebbe pedissequamente riportata alla sentenza di primo grado, ripresa in ampi stralci e ricalcata nella stessa struttura argomentativa; non avrebbe risposto effettivamente ai motivi d'appello, molto specifici, riproducendo, invece, la decisione del primo giudice con la tecnica del "copia e incolla" e aderendovi in modo apodittico, con mere parafrasi delle ragioni della sentenza confermata.
Il vizio motivazionale sarebbe evidente già dal mero confronto delle due sentenze: quella d'appello per le prime quaranta pagine riproduce in maniera identica il provvedimento di primo grado, mentre le pagine dedicate alla sua autonoma valutazione (da 40 a 54) si compongono di affermazioni apodittiche che si risolvono in meri apprezzamenti adesivi alla sentenza appellata (la difesa cita singoli passaggi motivazionali che sarebbero prova di tale difetto motivazionale).
2.2. Il secondo motivo di ricorso deduce violazione di legge ex art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p. e vizio di motivazione ai sensi della lett. e) della medesima disposizione in relazione all'art. 533 c.p.p., poiché non si sarebbe raggiunta prova della previa conoscenza da parte dell'imputato dell'incarico di due diligence sulla società Marazzi.
Mancherebbe la prova che l'imputato sia stato in possesso dell'informazione privilegiata relativa al progetto di OPA sul titolo "Marazzi" (che costituirebbe nell'impostazione difensiva elemento costitutivo della fattispecie di reato) e della stessa conoscenza da parte sua dell'incarico di due diligence conferito alla Deloitte FSA con riferimento alla società predetta.
La mera concomitanza temporale tra l'incarico di due diligence conferito alla società di consulenza finanziaria di cui il ricorrente è socio senior e gli investimenti da lui posti in essere non costituirebbero prova del previo possesso dell'informazione privilegiata sul progetto di OPA per il titolo "Marazzi Group" in contestazione.
Anzi, vi sarebbe prova contraria, poiché i testimoni sentiti in dibattimento hanno chiarito, fornendo diversi dettagli, l'estrema segretezza dell'informazione relativa alla operazione all'interno della società di consulenza finanziaria e la circostanza che nessuno ne aveva riferito all'imputato.
In particolare, si è accertato che il socio responsabile dell'incarico di consulenza - M. - ha tenuto riservata la notizia, non parlandone all'imputato né inserendola nello stesso planning di lavoro del gruppo di consulenza appositamente formato, proprio per evitare fughe di notizie (si cita in proposito la testimonianza di N., presidente e amministratore delegato della società Deloitte), sicché la motivazione delle due sentenze di merito sul punto, che collega la conoscenza dell'informazione proprio all'inserimento di tutti gli incarichi di consulenza dello studio nella rete intranet aziendale, è frutto di un travisamento della prova.
Al tempo stesso è stato violato il canone dell'oltre ogni ragionevole dubbio per l'affermazione di colpevolezza dell'imputato, agganciando la prova di quest'ultima ad una mera supposizione di possibile conoscenza dell'informazione privilegiata in ragione del suo ruolo nella società di consulenza.
2.3. Il terzo motivo di ricorso deduce violazione di legge e vizio di motivazione (artt. 606, comma 1, lett. b ed e, c.p.p.) quanto alla affermazione di colpevolezza relativa alla quota di contestazione per l'abuso di informazioni privilegiate riferito alla OPA su azioni della Guala Closures s.p.a. ed alla mancata prova della conoscenza dell'incarico di consulenza in corso per detta società da parte dell'imputato ricorrente.
Le argomentazioni a fondamento dell'eccezione difensiva sono in parte analoghe a quelle già esaminate nel precedente motivo di ricorso (il travisamento della prova testimoniale), in parte legate alla constatazione della incompatibilità temporale tra la tempistica delle operazioni di investimento contestate a R. ed il possesso di informazioni privilegiate relative all'OPA in corso da parte sua: infatti, l'imputato ha continuato ad acquistare titoli della Guala Closures anche quando la società di consulenza di cui era socio aveva oramai cognizione che l'offerta pubblica non avrebbe avuto un esito positivo.
La Corte d'Appello non ha sciolto la contraddittorietà motivazionale tra le conclusioni di colpevolezza raggiunte nei confronti del ricorrente e quelle adottate nei confronti dei coimputati D.P. e Z. che sono stati assolti sulla base di sovrapponibili considerazioni logiche e di fatto.
2.4. Il quarto motivo di ricorso argomenta, analogamente ai precedenti due motivi, violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all'affermazione di colpevolezza dell'imputato quanto all'abuso di informazioni privilegiate riferito all'acquisto delle azioni Permasteelisa s.p.a.; allo stesso modo che nei riguardi delle altre due società coinvolte, non vi sarebbe prova che il ricorrente fosse a conoscenza del progetto di acquisizione del controllo di detta società e dell'OPA imminente nei suoi riguardi, né dell'incarico di due diligence affidato alla Deloitte FSA di cui era socio senior.
In particolare, si evidenzia che l'incarico di consulenza, benché inserito nel planning della Deloitte, era riservato e mascherato con un nome convenzionale (Monnalisa) non corrispondente a quello reale; anche in relazione ad esso, peraltro, le testimonianze raccolte nel processo si indirizzano nel senso di escludere la consapevolezza dell'incarico di consulenza in capo a R.
Inoltre, gli acquisti delle azioni da parte sua sarebbero avvenuti ben prima dell'incarico di consulenza affidato alla Deloitte, a riprova della loro non ricollegabilità ad un utilizzo indebito di informazioni privilegiate acquisite in ragione del proprio ruolo.
Non risponde al vero, infatti, quanto affermato nelle sentenze di merito che l'incarico di consulenza sarebbe stato conferito nel luglio 2008, poiché a tale data esso era stato solo ipotizzato, mentre la due diligence sarebbe partita solo tra febbraio e marzo 2009, quando addirittura gli acquisti di R. erano terminati, sicché, anche in tal caso, vi è stato un travisamento della prova.
Del resto, varrebbero per il ricorrente le stesse considerazioni che hanno condotto la Corte d'Appello a confermare l'assoluzione degli imputati Z. e D.P. per la medesima operazione, proprio in ragione della mancata prova della sua conoscenza dell'informazione privilegiata, e la circostanza che l'operatività del ricorrente sul mercato si colloca in un periodo temporale del tutto al di fuori del lancio dell'OPA su Permasteelisa.
2.5. Il quinto motivo di ricorso argomenta illogicità della motivazione in relazione alla diversa valutazione operata dalla Corte d'Appello quanto alle vicende processuali, invece sovrapponibili, del ricorrente rispetto agli altri due coimputati assolti.
Il vizio motivazionale del provvedimento impugnato, ereditato dalla sentenza di primo grado in tutto richiamata, sarebbe evidente e legato alla insufficienza dell'unico canone di differenziazione delle posizioni individuato dai provvedimenti di merito, e cioè il diverso ruolo di R. - socio anziano e di maggiore esperienza della società di consulenza Deloitte - rispetto agli altri due coimputati, entrambi giovani ed inesperti, per quanto competenti; Z., infatti, era tutt'altro che in posizione "sminuita" di conoscenza, poiché anzi egli lavorava per la Deloitte stessa e proprio nel gruppo di lavoro per la due diligence nei confronti delle società di cui alla contestazione di reato; D.P., invece, amico di Z., è soggetto molto esperto in transazione di titoli ed è stato coinvolto direttamente nell'operazione Permesteelisa come operatore, una volta ottenuta l'informazione privilegiata utile.
2.6. Il sesto motivo di ricorso deduce violazione di legge in relazione agli artt. 181, commi 1 e 3, e 184 d.lgs. n. 58 del 1998.
La Corte d'Appello ha rigettato la prospettiva interpretativa proposta dalla difesa secondo cui l'abuso di informazioni privilegiate potrebbe configurarsi solo in presenza di una prossimità ravvicinata tra la condotta materiale di sfruttamento dell'informazione privilegiata ed il momento in cui viene lanciata l'operazione oggetto dell'informazione stessa (l'OPA sulle società di cui alla contestazione di reato, nel caso di specie).
Ciò ha fatto non soltanto interpretando erroneamente la giurisprudenza di legittimità, ma anche dimenticando che la dottrina più recente lega la configurabilità del reato di insider trading alla elisione del margine di rischio nell'operazione su titoli (tipico degli altri operatori "disinformati"), che si ottiene proprio grazie alla conoscenza ed all'utilizzo indebito dell'informazione privilegiata: elisione del rischio che non si sarebbe verificata nel caso di specie, poiché la natura dell'incarico di due diligence non consente alcuna formulazione prognostica o previsione sul buon esito finale dell'operazione di OPA.
Inoltre, la Corte d'Appello ha sostanzialmente valorizzato il fatto che, in ogni caso, l'incarico di due diligence rientrerebbe tra quelle operazioni intermedie che, alla luce delle nuove indicazioni fornite dal Regolamento UE n. 596 del 2014 (c.d. MAR), entrato in vigore il 3 giugno 2016, hanno inteso la nozione di informazione privilegiata come inglobante, appunto, anche le tappe intermedie del processo che porta alla determinazione della circostanza o dell'evento futuro cui volge l'informazione stessa (in questo caso l'OPA).
Ebbene, tale interpretazione estensiva violerebbe il principio di irretroattività della legge penale, poiché detta nozione estesa di informazione privilegiata e, in particolare, del suo carattere necessario di "precisione", non potrebbe essere applicata ai fatti commessi in epoca antecedente all'entrata in vigore del citato Regolamento europeo.
Oltre alla deduzione di inapplicabilità retroattiva della disciplina europea sfavorevole, il motivo obietta, altresì, anche l'impossibilità in concreto di ritenere che un incarico di due diligence conferito ad una società di consulenza integri una fase intermedia idonea ad essere considerata rilevante come informazione privilegiata.
Il diciassettesimo Considerando del Regolamento MAR, infatti, suggerisce le tipologie di situazioni riconducibili allo schema della fase intermedia e in questo elenco non si rinviene alcuna nozione esemplificativa che possa riferirsi all'incarico di consulenza in esame.
2.7. Il settimo motivo di ricorso argomenta violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all'interpretazione degli artt. 184, comma 1, e 187-bis, comma 4, d.lgs. n. 58 del 1998, che sarebbe stata piegata sino a riferire al ricorrente la qualifica soggettiva di insider primario laddove egli invece sarebbe un mero insider secondario, per tale motivo sottoposto alla sola responsabilità amministrativa prevista dall'art. 187-bis cit.
Infatti, il ricorrente non avrebbe avuto mai diretta conoscenza degli incarichi in ragione del proprio ruolo di socio senior della Deloitte FAS, né sarebbe stato mai iscritto in registri insider delle società coinvolte o della società di consulenza di cui fa parte.
Sarebbe poi solo formalistico l'argomento utilizzato dalla Corte d'Appello secondo cui l'incarico di due diligence era svolto dalla società di consulenza nel suo complesso, sicché tutti coloro che prestano in essa attività lavorativa o professionale, i quali vengano in possesso dell'informazione privilegiata, non possono che essere considerati insider primari dal momento che dette informazioni non sono state carpite casualmente ed in contesto avulso da quello lavorativo ma proprio in ragione di esso e della professione svolta a favore della società di consulenza incaricata.
In sintesi, si sostiene che il ricorrente non avesse un incarico istituzionale o funzionale che lo legittimava alla conoscenza degli incarichi di consulenza della Deloitte nella loro totalità, sicché seppur avesse carpito realmente le informazioni privilegiate contestate, in relazione ad esse egli sarebbe un insider solo secondario (un tippee o insider occasionale), escluso dal novero dei soggetti attivi della disposizione di cui all'art. 184 TUF.
Infatti, secondo le indicazioni del legislatore leggibili dalla novella attuata con la l. n. 62 del 2005, si è voluto sanzionare penalmente non qualsiasi asimmetria informativa, ma soltanto l'indebito sfruttamento di una "posizione qualificata" dell'agente rispetto all'informazione privilegiata, come dimostrano gli indici lessicali della citata disposizione penale che sanzionano l'insider che abbia conosciuto la notizia "... in ragione dell'esercizio di un'attività lavorativa...".
2.8. Un ultimo motivo, infine, eccepisce l'illegittimità costituzionale dell'art. 187, comma 2, TUF in relazione agli artt. 3 e 27 Cost., nella parte in cui prevede la confisca obbligatoria per equivalente dei mezzi strumentali a commettere il reato, nonché chiede venga sollevata questione pregiudiziale ex art. 267 TFUE sempre in relazione a tale previsione.
Deve segnalarsi che la questione di costituzionalità è stata già proposta dal ricorrente, in sede di giudizio di legittimità dinanzi a questa stessa Sezione, allorquando ha subito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente delle medesime somme in contestazione, nell'ambito della fase cautelare del presente procedimento: la questione, all'epoca, è stata dichiarata manifestamente infondata (Sez. 5, n. 28486 del 13 marzo 2012, Respigo, Rv. 252989).
Oggi la difesa eccepisce che, anche in ragione della avvenuta adozione della Direttiva UE 257/2014 e del Regolamento UE 596/2014, nonché della legge-delega 9 luglio 2015, n. 114, la situazione sarebbe modificata, né si potrebbe in ogni caso ritenere sufficiente la risposta fornita al relativo motivo d'appello dalla Corte milanese, riferita al fatto che già in passato, sotto l'aspetto specifico del procedimento in esame ed in via generale, sono state sempre dichiarate inammissibili dal giudice delle leggi analoghe questioni di costituzionalità (cfr. ord. n. 186 del 2010 e n. 252 del 2012 Corte cost.).
Invero, le due pronunce passate sono state dichiarate inammissibili per carenza di determinatezza ed univocità del petitum (n. 186 del 2010 Corte cost.) ovvero perché si chiedeva alla Corte costituzionale una pronuncia non "a rime obbligate" che coinvolgeva le prerogative del legislatore (evocando una graduabilità delle ipotesi di confisca per equivalente dei mezzi utilizzati per commettere il reato, piuttosto che l'obbligatorietà tout court).
Pertanto, vi sarebbe spazio, secondo la difesa per sollevare la questione sotto il profilo della alternativa "obbligatorietà"-"facoltatività" della confisca prevista dall'art. 187, comma 2, TUF, chiedendo quest'ultima scelta alla Corte costituzionale, coerentemente alla sua giurisprudenza in materia di natura sanzionatoria della confisca per equivalente, nonché al suo orientamento nel senso della necessità che ogni sanzione penale risponda ai canoni della proporzionalità rispetto al disvalore del fatto illecito ed alla finalità rieducativa.
La questione sarebbe ancor più fondata in considerazione della previsione contenuta nell'art. 30, comma 2, lett. h), del Regolamento UE 596/2014 che ha sostanzialmente previsto l'applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie nella materia in esame solo con riguardo al profitto del reato, non citando mai i mezzi strumentali a commetterlo, che, pertanto, devono ritenersi esclusi dal novero dei beni confiscabili; d'altra parte, la confliggenza della disciplina interna con la citata norma regolamentare dell'Unione europea, fonda la richiesta di rinvio pregiudiziale alla CGUE.
Nel caso di specie è macroscopico come si sia in presenza di una sanzione penale sproporzionata rispetto al disvalore del fatto concreto ascritto all'imputato, nei cui confronti la pena principale è stata tenuta entro i limiti edittali; sono state riconosciute le attenuanti generiche ed è stato concesso il beneficio della sospensione condizionale, mentre, di contro, egli, per effetto della disposizione di cui all'art. 187, comma 2, TUF, è stato privato di quasi tutto il suo patrimonio.
3. La parte civile Consob ha depositato memoria difensiva in data 12 giugno 2019 per rispondere alle deduzioni del difensore dell'imputato, in relazione a ciascun motivo.
3.1. Quanto ai primi cinque motivi di ricorso della difesa R., la Consob obietta la loro manifesta infondatezza e l'argomentare in fatto, facendo leva, inoltre, per valorizzare la tenuta logica e la legittimità della sentenza impugnata, sulla giurisprudenza della Cassazione in tema di doppia pronuncia conforme di merito e deducendo, altresì, la non rispondenza al vero dei deficit motivazionali censurati al giudice di secondo grado, il quale - a dispetto di quanto dedotto dal ricorrente - non ha respinto apoditticamente i motivi d'appello, bensì ha analizzato e valutato autonomamente gli elementi di prova; né li ha travisati e neppure ha utilizzato argomenti contraddittori per "risolvere" le posizioni processuali del ricorrente e degli altri due coimputati. Si mettono in risalto le omissioni del ricorso che ha evitato di citare gli elementi che provano i fatti (in particolare, quanto alla consapevolezza in capo all'imputato dell'operazione di OPA sulla Permasteelisa, si fa riferimento alla testimonianza S.).
3.2. Con riferimento al sesto motivo della difesa del ricorrente, la parte civile deduce la manifesta infondatezza e, dunque, anche in tal caso, l'inammissibilità: le informazioni utilizzate in concreto contestate rivestono natura "privilegiata", avendo i caratteri della precisione, e sono ricomprese nel dettato dell'art. 181, comma 1, TUF, che fa riferimento non soltanto all'evento venuto ad esistenza come oggetto dell'informazione abusata, ma anche all'evento che ragionevolmente si verificherà, coinvolgendo, pertanto, nell'elenco dei fatti penalmente rilevanti anche le vicende intermedie, pericolose proprio perché prodromiche al delinearsi dell'informazione privilegiata.
La disposizione e la sua interpretazione sono conformi alla direttiva 2003/6 ed alla direttiva 2003/124, nell'interpretazione della giurisprudenza della CGUE fornita nella causa C-19/11, Markus Gelti c. Daimler AG, del 28 giugno 2012, mentre non ha pregio la tesi difensiva che restringe l'ambito di operatività della previsione di reato alle condotte di abuso di informazioni privilegiate che siano ravvicinate all'atto di illecito acquisto degli strumenti finanziari.
3.3. Quanto al settimo motivo di ricorso, egualmente la difesa Consob lo ritiene manifestamente infondato poiché dall'istruttoria processuale è emerso con chiarezza che la conoscenza delle informazioni privilegiate è stata acquisita dall'imputato proprio per effetto di dinamiche riconducibili alla sua peculiare posizione lavorativa.
3.4. Infine, sull'eccezione di illegittimità costituzionale e sulla ulteriore richiesta di rinvio pregiudiziale alla CGUE riferita alla confisca per equivalente dei mezzi strumentali a commettere il reato, la Consob ne rileva l'inammissibilità per irrilevanza.
La questione sarebbe, altresì, inammissibile perché manifestamente infondata, basata su una erronea interpretazione dell'art. 30, comma 2, lett. h), del Regolamento UE n. 596/2014, che prevede la possibilità di applicazione da parte degli Stati membri di sanzioni amministrative e altre misure amministrative adeguate, preoccupandosi, in relazione all'adeguatezza, soltanto di stabilire un livello "minimo" della misura "massima" della sanzione, espressamente indicato dal Regolamento, senza porre alcuna limitazione al legislatore interno che voglia eventualmente prevedere misure più gravose per i casi più allarmanti.
Inoltre, la disposizione invocata si riferisce solo alle sanzioni amministrative pecuniarie e non alla confisca, chiaramente distinguendo tra le prime e "le altre misure amministrative".
4. In data 9 giugno 2018 la difesa del ricorrente ha depositato una memoria contenente un motivo nuovo riferito al passaggio in giudicato della delibera Consob n. 18070 del 2 gennaio 2012, con la quale sono state emesse sanzioni amministrative sostanzialmente penali ai sensi dell'art. 187-bis d.lgs. n. 58 del 1998 (TUF), chiedendo dichiararsi il divieto di bis in idem e di disapplicare la norma penale in ossequio all'art. 50 CDFUE, dichiarando l'improcedibilità dell'azione penale ex art. 529 c.p.p.
La difesa rappresenta che in data 7 novembre 2017 la Seconda Sezione Civile della Corte di cassazione ha emesso sentenza di inammissibilità dell'impugnazione proposta dall'imputato avverso la decisione della Corte d'Appello di Milano n. 2278 del 2014 di conferma delle sanzioni comminate nei suoi confronti con la delibera Consob n. 18070 del 2012, con conseguente irrevocabilità delle sanzioni amministrative disposte nei suoi confronti.
Tali sanzioni consistono in:
- sanzione amministrativa pecuniaria di euro 150.000 ai sensi dell'art. 187-bis TUF (vicenda OPA Marazzi Group);
- sanzione amministrativa pecuniaria di euro 150.000 ai sensi dell'art. 187-bis TUF (vicenda OPA Guala Closures);
- sanzione amministrativa pecuniaria di euro 225.000 ai sensi dell'art. 187-bis TUF (vicenda acquisizione controllo Permasteelisa);
- sanzione amministrativa accessoria, ai sensi dell'art. 187-quater, comma 1, TUF per un periodo di mesi nove;
- confisca dei beni oggetto di sequestro, per 1.193.914 euro, ai sensi dell'art. 187-sexies d.lgs. n. 58 del 1998, già in sequestro ai sensi dell'art. 187-octies comma 3, lett. d), dello stesso decreto legislativo.
Alla luce della entità delle predette sanzioni amministrative, la difesa del ricorrente ne deduce la natura sostanzialmente penale, in ossequio ai principi consolidati dettati dalla giurisprudenza europea (i c.d. Engel criteria), e chiede che il Collegio dichiari l'improcedibilità dell'azione penale nel processo in corso, in base all'art. 50 CDFUE.
Si argomenta, in proposito, l'identità dei fatti oggetto dei due procedimenti sanzionatori - amministrativo e penale - avvalorata dalla identità formale delle contestazioni mosse nei confronti dell'imputato.
La difesa ricostruisce l'evoluzione della giurisprudenza costituzionale, europea e della Corte di cassazione sui principali temi interpretativi connessi al doppio binario sanzionatorio previsto dal Testo Unico per i reati finanziari e, in relazione a tali parametri interpretativi ritiene che le doppie sanzioni nei confronti dell'imputato siano state inflitte in maniera indipendente, per la mancanza di meccanismi di raccordo che garantiscano una portata afflittiva di esse "proporzionata nel quadro di una strategia unitaria". La Corte europea, infatti, ha ricordato che il cumulo di sanzioni penali e "amministrative sostanzialmente penali" è consentito solo se, nell'irrogare la seconda sanzione, le autorità competenti si assicurino che la severità dell'insieme delle sanzioni inflitte non ecceda la gravità del reato.
Il motivo nuovo di ricorso, pertanto, conclude per la sussistenza di un tasso di afflittività e gravità tale delle sanzioni amministrative "sostanzialmente penali", divenute definitive nei confronti del ricorrente nel caso concreto, da adempiere in modo efficace alle funzioni repressive e dissuasive proprie delle sanzioni penali, soprattutto perché l'onere afflittivo in parola non è stato preso affatto in considerazione dai giudici penali nel merito per parametrare a questo la loro sanzione, nonostante la notevolissima misura della confisca per equivalente deliberata da Consob.
Una nuova sanzione penale, pertanto, violerebbe il divieto di ne bis in idem.
5. La Consob, in risposta al motivo "nuovo" depositato dal ricorrente, riferito alla sussistenza di una ipotesi di bis in idem, ha depositato ulteriore memoria in data 22 giugno 2018 con cui evidenzia i caratteri sulla base dei quali il cumulo di sanzioni penali ed amministrative sostanzialmente penali non determina violazione del divieto di bis in idem, sottolineando che le sentenze Garlsson e Menci della Corte di giustizia hanno affermato che l'art. 50 CDFUE "osta" a una normativa nazionale che consente di celebrare un procedimento riguardante una sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale per condotte illecite integranti una manipolazione del mercato, in relazione alle quali è già stata pronuncia una condanna penale definitiva, nei limiti in cui tale condanna, tenuto conto del danno causato alla società dal reato commesso, sia idonea a reprimere tale reato in maniera efficace, proporzionata e dissuasiva: tale valutazione di idoneità spetta al giudice nazionale.
La Consob, pertanto, sottopone al Collegio indici fattuali dai quali si evince la proporzionalità complessiva, rispetto al disvalore del fatto, della sanzione derivante dal cumulo di quella amministrativa sostanzialmente penale già irrevocabile e della sanzione penale inflitta nel presente processo.
A tale conclusione di proporzionalità complessiva si arriverebbe anche analizzando i contenuti della Direttiva n. 2014/57/UE in materia di abusi di mercato.
Nel caso di specie, sussisterebbe detta "gravità", che determina la necessità di irrogare la sanzione detentiva ai sensi della Direttiva citata, in ragione: dell'entità della lesione all'integrità del mercato causata dall'imputato; della quantità e del valore complessivo degli strumenti finanziari negoziati; del profitto e delle plusvalenze conseguiti (pari a 12.500 euro con riguardo alle azioni Marazzi; a 24.715 euro per operazioni concluse su Guala Closures; a 130.845 euro per la plusvalenza realizzata sulle azioni Permasteelisa).
Infine, la doppia sanzione inflitta in concreto corrisponde anche ai criteri di verifica della non operatività del divieto di bis in idem dettati dalla giurisprudenza della Corte EDU con la sentenza A e B contro Norvegia del 2016.
6. In data 10 aprile 2019 il ricorrente, infine, ha depositato, a sua volta, note di replica alla memoria della Consob, valorizzando i motivi che dovrebbero indurre ad accogliere il ricorso nel merito, all'esito di una verifica dei vizi motivazionali già denunciati sotto il profilo della assenza di reale risposta all'atto di appello proposto, sostanzialmente ribadendo i primi quattro argomenti di ricorso.
Si evidenzia, in particolare, che mancherebbe la prova del possesso delle informazioni privilegiate in capo al ricorrente: la mera coincidenza temporale tra gli incarichi assunti da Deloitte FAS e gli investimenti effettuati da R. non può assurgere ad elemento idoneo a dimostrare il possesso delle relative informazioni privilegiate.
La Corte d'Appello, inoltre, ha equivocato il passaggio normativo dell'art. 184 TUF che individua l'insider primario come colui che ha avuto conoscenza dell'informazione privilegiata in ragione dell'esercizio di una attività lavorativa, confondendo tale requisito con la mera prossimità lavorativa che sussista con i soggetti i quali hanno effettivamente un legame funzionale con la notizia riservata.
La memoria difensiva, quindi, si dedica ad illustrare meglio la questione di costituzionalità dell'art. 187, comma 2, TUF ed evidenzia che una questione di legittimità costituzionale analoga, benché relativa all'art. 187-sexies TUF ed alla confisca amministrativa, è stata sollevata da un'ordinanza della Seconda Sezione civile della Corte di cassazione (la n. 54 del 2018 allegata al ricorso), per contrarietà agli artt. 3, 42 e 117, comma primo, Cost. con riferimento all'art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla CEDU nonché all'art. 49 CDFUE.
Tale ordinanza convince delle buone ragioni del ricorrente anche quanto alle sue richieste attinenti all'art. 187 TUF ed alla confisca penale, tanto più che l'art. 187-sexies è stato di recente modificato dal d.lgs. n. 107 del 2018, che ha espunto dalla disposizione sospettata di incostituzionalità proprio il riferimento alla confisca dei beni utilizzati per commettere l'illecito, previsione, viceversa, ancora vigente nel testo non modificato dell'art. 187 TUF.
L'argomento principale dell'ordinanza è riferito al difetto di proporzione e ragionevolezza della confisca così come congegnata dalle disposizioni richiamate, che non si commisura al profitto illecito generato dal vantaggio conoscitivo presupposto del reato di insider trading bensì colpisce in maniera obbligata e non modulabile le ricchezze utilizzate per le illecite operazioni di mercato, indipendentemente dal profitto che le speculazioni hanno generato.
Nel caso del ricorrente, a fronte di un profitto lordo del reato pari a 168.060 euro, è stata disposta la confisca penale ex art. 187 dei beni utilizzati per commettere il reato per 1.324.736 euro.
La difesa chiede, pertanto, anche il rinvio dell'udienza di trattazione del processo dinanzi al Collegio per attendere le decisioni della Corte costituzionale.
Si argomentano, quindi, ulteriormente rispetto a quanto esposto con il motivo nuovo di ricorso, le ragioni sulla base delle quali si chiede di pronunciarsi per la sussistenza di una ipotesi di bis in idem.
La nota si chiude ribadendo in sequenza subordinata le richieste della difesa: annullare la pronuncia impugnata con o senza rinvio in accoglimento dei motivi principali di ricorso; annullare la medesima pronuncia senza rinvio una volta riconosciuto il carico afflittivo sostanzialmente penale delle sanzioni Consob come già assorbente l'intero disvalore del fatto; rimettere la questione di legittimità costituzionale della confisca per equivalente dei beni strumentali alla commissione del reato prevista dall'art. 187 TUF ovvero sollevare in relazione [a] tale norma questione pregiudiziale ai sensi dell'art. 267 CDFUE per valutarne la compatibilità con l'art. 30, lett. h, della direttiva UE n. 596/2014 in materia di abusi di mercato; annullare con rinvio il provvedimento impugnato ai sensi dell'art. 187-terdecies TUF e rideterminare in senso favorevole al ricorrente la pena inflitta.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso proposto da Ruggero R. deve essere accolto, nei termini che si esporranno di seguito, con riferimento al trattamento sanzionatorio, in ordine al quale è necessario un nuovo vaglio del giudice di merito, mentre nel resto delle numerose questioni proposte deve essere rigettato.
Anzitutto saranno trattati i motivi di ricorso orientati ad ottenere una rivalutazione del merito della vicenda delittuosa ascritta all'imputato; quindi gli altri motivi e le altre questioni sollevate che non meritano accoglimento.
Infine, sarà esaminato il problema del ne bis in idem indicando sin d'ora il piano sanzionatorio come quello su cui ricostruire la soluzione più idonea a risolvere il tema del doppio binario di intervento legislativo previsto dal suddetto Testo Unico.
Ruggero R., infatti, è stato contemporaneamente sottoposto al processo penale, tuttora in corso, ed al procedimento amministrativo, promosso per primo dalla Consob in relazione alla stessa vicenda ai sensi dell'art. 187-bis, che prevede l'illecito amministrativo rubricato «Abuso e comunicazione illecita di informazioni privilegiate»; all'esito del procedimento amministrativo, gli è stata inflitta una sanzione definitiva di notevole afflittività, di cui si dirà poi nel dettaglio, divenuta definitiva dopo il passaggio in giudicato successivo all'esito negativo del ricorso in cassazione.
2. I primi quattro motivi di ricorso sono infondati e possono essere trattati insieme, attenendo, in sostanza, il primo, al vizio di motivazione della sentenza complessivamente intesa, gli altri tre a stigmatizzare per parti la valutazione della Corte di merito e del giudice di prime cure sul percorso ricostruttivo della prova della responsabilità del ricorrente e sulla idoneità della piattaforma probatoria a fondare la sua condanna per il reato di abuso di informazioni privilegiate in relazione a ciascuna delle operazioni di insider trading contestate.
Ebbene, la motivazione della sentenza impugnata non si sottrae all'obbligo di dar conto in via autonoma delle ragioni argomentative che l'hanno condotta a confermare la pronuncia di condanna emessa in primo grado sol perché si riporta a quest'ultimo provvedimento, condividendone l'impostazione in una materia, peraltro, alquanto tecnica, che unisce la necessità di ricostruire dettagliatamente le condotte materiali ed i contesti di accadimento di esse con l'esigenza di rapportarsi non soltanto alla disciplina penale dettagliata e specialistica del Testo Unico del 1998, ma anche a nozioni di natura economica nonché relative al funzionamento dei mercati e delle operazioni finanziarie.
Sulla scia, dunque, della giurisprudenza che ammette la motivazione per relationem purché siano rispettate alcune condizioni (Sez. 6, n. 53420 del 4 novembre 2014, Mairajane, Rv. 261839; Sez. 6, n. 48428 del 8 ottobre 2014, Barone, Rv. 261248; Sez. un., n. 17 del 21 giugno 2000, Primavera, Rv. 216664), la Corte d'Appello di Milano si è adeguatamente rapportata alla pronuncia di primo grado, richiamandone la motivazione ampia e logica nella ricostruzione del reato di insider trading in generale e nella sua concreta manifestazione nella fattispecie di interesse.
I giudici di secondo grado non si sono, peraltro, limitati ad un esercizio motivazionale di richiamo con l'aggiunta di propri ed autonomi spunti argomentativi, ma hanno esposto in maniera soddisfacente la vicenda affatto complessa che si ascrive all'imputato e si snoda nel solco di ben tre diverse condotte contestate ai sensi dell'art. 184 TUF, per l'abuso di informazioni privilegiate relative alle OPA ovvero alla acquisizione di controllo di tre diverse società quotate in borsa.
La sentenza impugnata ha ricostruito le successive fasi nel corso delle quali il ricorrente, in virtù della sua qualità di dirigente e socio anziano (senior) dell'area Transaction Services della Deloitte Financial Advisory Services (DFAS) - società dedita ad attività di consulenza finanziaria di rilievo per enti quotati in borsa - è stato accertato che abbia acquisito le informazioni privilegiate sulle tre operazioni di finanza straordinaria di impresa riferite all'OPA sulle società Marazzi Group e Guala Closures, nonché alla acquisizione del pacchetto di controllo della società Permasteelisa, e le abbia utilizzate per fini di profitto personale.
La Corte d'Appello, infatti - e in tal modo si risponde anche ai motivi da due a quattro del ricorso - ha messo in relazione, così come aveva fatto anche la prima sentenza di merito, gli investimenti effettuati dall'imputato sui tre titoli di interesse, analizzandone modi e tempi, con i periodi e le fasi di evoluzione degli incarichi di consulenza (la c.d. due diligence o financial due diligence) - necessariamente affidati ad un soggetto terzo rispetto all'offerente ed ai soggetti interessati all'acquisto societario - volti ad investigare ed approfondire dati ed informazioni relativi all'oggetto delle trattative di OPA e acquisizione del pacchetto di controllo, per verificare la convenienza delle operazioni, negoziare termini e condizioni del contratto, predisporre strumenti di garanzia ed identificare eventuali rischi e problemi connessi: all'esito del confronto, si è concordemente concluso, in primo ed in secondo grado, che gli investimenti effettuati ed i periodi e le fasi cognitive ed evolutive degli incarichi di due diligence fossero in diretta rapportabilità e che i loro "tempi" fossero certamente sovrapponibili.
Tale convinzione deduttiva e logica, sommata ad una serie notevole di ulteriori e significativi indizi, esaminati per ciascuna delle tre operazioni finanziarie in modo specifico e circostanziato, ha convinto i giudici di merito della bontà della ricostruzione prospettata dall'accusa nelle contestazioni e della responsabilità del ricorrente per i delitti a lui ascritti, in qualità di socio senior di Deloitte, con prerogative di conoscenza singolari e direttamente correlabili alla acquisizione della notizia delle operazioni finanziarie oggetto di trattative e di due diligence.
Viceversa, sulla base degli stessi elementi di fatto e di altri specifici, i giudici d'appello si sono convinti dell'insufficienza del quadro indiziario a carico dei coimputati D.P. e Z., il primo, esperto in operazioni finanziarie borsistiche ed amico di vecchia data del secondo; quest'ultimo, dirigente nei team incaricati della consulenza in tutte e tre le operazioni finanziarie (in sostanza, gruppi di lavoro costituiti appositamente, come da prassi, all'interno dell'Area Transaction Services di DFAS). Entrambi i predetti coimputati anche in primo grado erano stati assolti dai reati di insider trading loro ascritti.
Numerosi sono, dunque, gli elementi che hanno costruito la piattaforma indiziaria del processo.
2.1. In particolare, quanto all'incarico relativo all'OPA sulla società Marazzi Group s.p.a., correttamente la Corte d'Appello, sulla scia della motivazione di primo grado, ha rilevato alcuni dati incontrovertibili che segnalano, quasi già di per sé, la responsabilità del ricorrente per il reato di abuso di informazioni privilegiate: l'incarico di due diligence in questo caso, infatti, era stato ottenuto e portato a termine da DFAS nell'arco di pochissimi giorni (dal 6 maggio al 13 maggio 2008, con inizio dei contatti tra la società target e quella di consulenza il 1° maggio 2008) e proprio il giorno 12 maggio 2008 - e cioè il giorno prima che l'OPA venisse ufficializzata e resa pubblica al mercato borsistico - R. ha acquistato 15.000 azioni della Marazzi Group, pari al 20,40% del controvalore del suo portafoglio, che risultava il secondo titolo più importante tra i suoi investimenti (secondo solo ad uno degli altri due titoli oggetto della contestazione di reato: quello Guala Group), ricavando dalla successiva rivendita una plusvalenza di 12.500 euro.
La Corte d'Appello mette in risalto, altresì, come logico e inequivoco dato che ricollega l'operatività dell'imputato sul titolo Marazzi all'abuso di un'informazione privilegiata in merito, il fatto che su tale titolo l'imputato, nel periodo dal 28 dicembre 2007 all'8 giugno 2009, non ha mai effettuato investimenti tranne che nella data del 12 maggio 2008, sfruttando l'impennata di valore che è conseguita all'annuncio dell'OPA il giorno dopo.
2.2. Identica sequenza di collegamento tra incarico di due diligence ed investimenti sul titolo si ritrova nel caso dell'OPA su Guala Group: il 20 dicembre 2007 DFAS ha avuto notizia dell'incarico; il giorno successivo esso è stato iscritto in planning (un pannello accessibile a tutti in Deloitte, in cui venivano annotati periodicamente gli incarichi in corso dalla segretaria S.), con il nome della società target in chiaro; dal 28 dicembre 2007 al 23 gennaio 2008 R. ha acquistato - per l'unica volta in un non breve periodo - numerose azioni del titolo, che è divenuto il primo del suo portafogli.
2.3. Infine, anche rispetto all'operazione di acquisto del pacchetto di controllo della società Permasteelisa s.p.a., si riscontra l'evidente coincidenza tra incarico di due diligence acquisito da DFAS e operatività sul titolo da parte del ricorrente (il 23 luglio 2008 si è avuta notizia in società dell'incarico, con successivo inserimento in planning con nome non in chiaro - Monnalisa - e segnalazione di inizio attività a settembre; dall'8 agosto 2008 a settembre 2008 sono stati effettuati gli acquisti di azioni del titolo da R., proseguiti sino al marzo 2009, anche per la tipologia borsistica peculiare di esso).
2.4. È rilevante evidenziare come in un lasso temporale consistente (il periodo, già citato, dal 28 dicembre 2007 all'8 giugno 2009) gli unici titoli scambiati dal ricorrente sono stati quelli in relazione ai quali la società di cui era socio senior aveva ricevuto incarichi di consulenza.
Ai significativi dati di fatto sopradetti (coincidenze temporali tra investimenti e incarichi; profitto ricavato; assenza di altri investimenti oltre quelli frutto dell'abuso di informazioni privilegiate), che non possono essere rapportati alla mera attività della figura dell'investitore ragionevole ed esperto, il quale lecitamente conti sulle proprie conoscenze tecniche per effettuare determinate operazioni speculative in borsa, la Corte d'Appello aggiunge:
- la prova orale, dalla quale è emerso, attraverso l'esame di impiegati ed altri soci di DFAS, che i soci anziani, date anche le dimensioni della società di consulenza, condividevano di fatto le informazioni principali relative agli incarichi "strategici", per importanza delle operazioni e possibile fatturato a favore della società stessa, a prescindere dal loro, singolo diretto coinvolgimento nell'incarico (tanto che gli incarichi, per la gran parte, erano indicati in planning con nome in chiaro e, quindi, noti a tutti; inoltre, il socio anziano N. ha riferito di riunioni mensili tra i senior per fare il punto sull'andamento della società, riunioni nel corso delle quali essi venivano messi al corrente delle operazioni più rilevanti in corso). Si è anche accertato dalle testimonianze (di N. in particolare) che R. aveva insistentemente fatto domande all'altro socio anziano, M., ed allo stesso Z., sugli incarichi Marrazzi e Guala. La segretaria alle risorse, S., ha evidenziato, poi, come la soglia di riservatezza che ella utilizzava nei confronti dei soci anziani era molto diversa da quella ordinaria, trovando naturale che - per la loro esperienza ed il loro ruolo - essi fossero messi a conoscenza sostanzialmente di tutto ciò che di rilevante era in corso in DFAS, riferendo anche, specificamente, di aver partecipato ad una conversazione tecnico-operativa sull'operazione Permasteelisa in cui era presente Ruggero R. Anche M. ha fornito testimonianza molto rilevante e diretta di conversazioni delle quali è stato partecipe e dalle quali era evidente che R. fosse a conoscenza dei tre incarichi di due diligence in relazione ai quali vi è contestazione di reato;
- la prova documentale costituita da molte e-mail estrapolate dai computer della Deloitte ed in uso ai soggetti coinvolti, dalle quali si evince l'interesse spasmodico di R. per gli incarichi oggetto dell'abuso di informazioni privilegiate e la circostanza che Z. lo considerasse un "maestro" e non avesse problemi a condividere con lui gli sviluppi delle operazioni di consulenza (soprattutto per quella relativa alla società Guala sono presenti significativi scambi di e-mail). L'uso di alcune espressioni nelle e-mail da parte di Z. è certamente sintomatico di quanto R. fosse un punto di riferimento, per lui ed in generale della società di consulenza, e di come questi, nella sua qualità di socio senior, era comunque in possesso di informazioni costanti sull'andamento di tutti i rapporti di consulenza gestiti dalla DFAS, a prescindere dal suo diretto coinvolgimento in ciascun singolo incarico.
In sintesi, anche la prova documentale, secondo la logica deduzione dei giudici di merito, conferma che non vi fossero problemi particolari in DFAS ad informare i soci anziani e, per quel che qui interessa, Ruggero R., degli incarichi di consulenza in atto e della loro finalizzazione, dandosi quasi per scontato che essi non potessero che esserne già a conoscenza per il loro ruolo direttivo nella società.
È evidente, dunque, che il ricorrente, soggetto certamente rispondente al paradigma del reasonable investitor (investitore razionale o ragionevole), che la disciplina euro unitaria e quella interna utilizzano per individuare la nozione di informazione privilegiata rispetto al criterio di price sensitive, e cioè rispetto alla capacità di tale informazione di influire in modo sensibile sui prezzi di strumenti finanziari, non si sarebbe determinato ad effettuare le operazioni speculative che gli vengono contestate se non avesse avuto nel proprio bagaglio di conoscenze le notizie che gli derivavano dal suo ruolo in Deloitte.
3. Il quinto motivo di ricorso è egualmente infondato.
Si lamenta la differente valutazione della prova che i giudici di merito hanno svolto nei confronti dei coimputati Z. e D.P. rispetto al ricorrente, pur in presenza di elementi di fatto e logici sostanzialmente reciproci e analoghi.
In realtà, sia il primo che il secondo giudice hanno evidenziato lungamente e con motivazione ineccepibile sul piano logico la distanza che separa la posizione probatoria dei due iniziali coimputati da quella di R. (nel provvedimento d'appello vi è il richiamo meditato alle parti principali della pronuncia di primo grado relative).
Anzitutto deve essere chiarito che Z. non ha mai realizzato investimenti sui titoli per i quali è processo e gli è stato contestato solo di aver "passato" l'informazione privilegiata all'amico D.P., il quale, invece, ha operato sui titoli (per le OPA Marrazi e Guala) ovvero di aver investito tramite lui.
Tuttavia, nessun contatto specifico relativo all'OPA per il titolo Marazzi è risultato tra Z. e D.P.; l'elargizione di denaro sospetta, avvenuta tra D.P. e Z., è risultata, in realtà, dovuta ad un regalo per il figlio di quest'ultimo, che D.P. aveva organizzato anche per conto di altri amici; l'indizio riferito alla conoscenza dell'operazione Guala è labile (una sola e-mail tra i due amici, dal tenore abbastanza oscuro) e non tiene conto del fatto che D.P., soggetto esperto del settore, aveva già cominciato ad investire sui titoli stessi venti giorni prima dell'inoltro di detta e-mail.
Quanto all'operazione Permasteelisa, la spiegazione alternativa alla ricostruzione accusatoria è credibile (D.P. era soggetto molto preparato dal punto di vista professionale e spesso "puntava" un titolo per intuito e conoscenza, chiedendo solo all'amico un supporto tecnico, ma non informazioni) e tiene conto, di fatto, del canone valutativo necessario alla affermazione di colpevolezza del superamento dell'oltre ogni ragionevole dubbio, nel caso di specie non configurabile, anche alla luce della circostanza di non contestualità temporale tra gli investimenti effettuati da D.P. con denaro di Z. e l'incarico di due diligence che vedeva coinvolto quest'ultimo, cominciato solo tempo dopo alcune delle operazioni svolte dai due amici.
Dalle e-mail scambiate tra i due ed acquisite, peraltro, si evidenzia l'inconciliabilità tra la loro preoccupazione per gli investimenti ed il possesso di informazioni privilegiate.
4. Anche la sesta eccezione difensiva è infondata.
Si è dedotta la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione al fatto che la Corte d'Appello ha inteso ricondurre l'incarico di due diligence a quelle operazioni intermedie, previste solo dall'art. 7 del Regolamento UE n. 596 del 2014 MAR, entrato in vigore il 3 giugno 2016 (e recepito nel nuovo testo dell'art. 180 TUF, introdotto dall'art. 4 del d.lgs. n. 107 del 2018, che ha abrogato il precedente art. 181 TUF, dedicato espressamente alla nozione autonoma di informazione privilegiata secondo il diritto interno, e lo ha sostituito con un richiamo - indicato nella nuova lett. b-ter) aggiunta all'art. 180 TUF - alla nozione di informazione privilegiata contemplata dallo stesso art. 7, paragrafi da 1 a 4, del citato Regolamento MAR).
Ma tale indicazione della Corte di merito, tuttavia, non si risolve in una interpretazione della legge penale che potrebbe determinare una questione di violazione del principio di irretroattività, per l'abbinamento dei fatti contestati ad una nozione successiva e più estesa di informazione privilegiata e del suo carattere necessario di "precisione".
Piuttosto, la Corte di merito ha utilizzato una nozione di informazione privilegiata già presente, oltre che nell'ordinamento interno, anche nella giurisprudenza della CGUE (cfr. la più volte richiamata sentenza Daimler del 2012) e ritenuta da questa conforme alla Direttiva 2003 giugno CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 28 gennaio 2003, relativa all'abuso di informazioni privilegiate e alla manipolazione del mercato (abusi di mercato), ed alla direttiva 2003/124/CE della Commissione del 22 dicembre 2003; volendo piuttosto sottolineare - con il richiamo al Regolamento MAR del 2014 - che la lettura della nozione normativa di informazione privilegiata e delle sue ricadute sulla configurabilità del reato di cui all'art. 184 TUF, già presente nella migliore giurisprudenza di Lussemburgo e legata alle previgenti Direttive, è stata avallata anche dalla legislazione europea successiva.
Ed infatti, l'interpretazione del requisito della precisione dell'informazione è sempre stata orientata nel senso adottato dalla Corte d'Appello, a prescindere dal Regolamento UE n. 596 del 2014 (c.d. MAR), che ha inteso espressamente indicare che la nozione di informazione privilegiata ingloba anche le tappe intermedie del processo che porta alla determinazione della circostanza o dell'evento futuro cui volge l'informazione stessa (in questo caso l'OPA).
Come anche la Consob nella sua difesa di parte civile ha ritenuto di evidenziare, le informazioni utilizzate in concreto e contestate a R. rivestono natura "privilegiata", avendo il carattere della precisione che ne determina l'inclusione nel dettato già vigente dell'art. 181 TUF, oggi abrogato per effetto dell'art. 4 del d.lgs. n. 107 del 2018.
Invero, ai fini del citato Regolamento, all'art. 7, per informazione privilegiata si intende: a) un'informazione avente un carattere preciso, che non è stata resa pubblica, concernente, direttamente o indirettamente, uno o più emittenti o uno o più strumenti finanziari, e che, se resa pubblica, potrebbe avere un effetto significativo sui prezzi di tali strumenti finanziari o sui prezzi di strumenti finanziari derivati collegati; b) in relazione agli strumenti derivati su merci, un'informazione avente un carattere preciso, che non è stata comunicata al pubblico, concernente, direttamente o indirettamente, uno o più di tali strumenti derivati o concernente direttamente il contratto a pronti su merci collegato, e che, se comunicata al pubblico, potrebbe avere un effetto significativo sui prezzi di tali strumenti derivati o sui contratti a pronti su merci collegati e qualora si tratti di un'informazione che si possa ragionevolmente attendere sia comunicata o che debba essere obbligatoriamente comunicata conformemente alle disposizioni legislative o regolamentari dell'Unione o nazionali, alle regole di mercato, ai contratti, alle prassi o alle consuetudini, convenzionali sui pertinenti mercati degli strumenti derivati su merci o a pronti; c) in relazione alle quote di emissioni o ai prodotti oggetto d'asta correlati, un'informazione avente un carattere preciso, che non è stata comunicata al pubblico, concernente, direttamente o indirettamente, uno o più di tali strumenti e che, se comunicata al pubblico, potrebbe avere un effetto significativo sui prezzi di tali strumenti o sui prezzi di strumenti finanziari derivati collegati; d) nel caso di persone incaricate dell'esecuzione di ordini relativi a strumenti finanziari, s'intende anche l'informazione trasmessa da un cliente e connessa agli ordini pendenti in strumenti finanziari del cliente, avente un carattere preciso e concernente, direttamente o indirettamente, uno o più emittenti o uno o più strumenti finanziari e che, se comunicata al pubblico, potrebbe avere un effetto significativo sui prezzi di tali strumenti finanziari, sul prezzo dei contratti a pronti su merci collegati o sul prezzo di strumenti finanziari derivati collegati.
Al comma 2 del medesimo art. 7 si considera che un'informazione ha un carattere preciso se essa fa riferimento a una serie di circostanze esistenti o che si può ragionevolmente ritenere che vengano a prodursi o a un evento che si è verificato o del quale si può ragionevolmente ritenere che si verificherà e se tale informazione è sufficientemente specifica da permettere di trarre conclusioni sul possibile effetto di detto complesso di circostanze o di detto evento sui prezzi degli strumenti finanziari o del relativo strumento finanziario derivato, dei contratti a pronti su merci collegati o dei prodotti oggetto d'asta sulla base delle quote di emissioni.
Nel caso di un processo prolungato che è inteso a concretizzare, o che determina, una particolare circostanza o un particolare evento, tale futura circostanza o futuro evento, nonché le tappe intermedie di detto processo che sono collegate alla concretizzazione o alla determinazione della circostanza o dell'evento futuri, possono essere considerate come informazioni aventi carattere preciso.
Al comma terzo del medesimo art. 7, una tappa intermedia in un processo prolungato è considerata un'informazione privilegiata se risponde ai criteri fissati nel presente articolo riguardo alle informazioni privilegiate.
Al comma quarto è chiarito che, per informazione che, se comunicata al pubblico, avrebbe probabilmente un effetto significativo sui prezzi degli strumenti finanziari, degli strumenti finanziari derivati, dei contratti a pronti su merci collegati o dei prodotti oggetto d'asta sulla base di quote di emissioni, s'intende un'informazione che un investitore ragionevole probabilmente utilizzerebbe come uno degli elementi su cui basare le proprie decisioni di investimento.
Se si confronta il testo dell'art. 7 MAR citato con quello dell'art. 181 TUF, vigente al momento della commissione dei fatti, non può che rilevarsi la sostanziale e quasi totale corrispondenza di quest'ultimo al primo, fatta salva la aggiunta, nell'art. 7 MAR, delle informazioni relative a quote di emissioni o ai prodotti oggetto d'asta correlati e l'ipotesi della trasmissione dell'informazione dal cliente alla persona incaricata dell'esecuzione di ordini relativi a strumenti finanziari.
Non può condividersi quanto sostenuto, pertanto, da una parte della dottrina, all'indomani della novella di cui al d.lgs. n. 107 del 2018, circa la non sovrapponibilità tra i contenuti delle due norme predette quanto alla inclusione solo successiva alla riformulazione dell'art. 180 TUF della formazione progressiva dell'informazione all'interno di un processo prolungato: la c.d. informazione intermedia.
Sia il precedente testo dell'art. 181 TUF che l'attuale testo dell'art. 180 TUF, che "vive", quanto alla nozione di informazione privilegiata, del richiamo diretto all'art. 7 del Regolamento MAR, fanno riferimento, infatti, non soltanto all'evento venuto ad esistenza come oggetto dell'informazione abusata, ma anche all'evento che ragionevolmente si verificherà, coinvolgendo, pertanto, nell'elenco dei fatti penalmente rilevanti anche le vicende - poi definite formalmente "intermedie" dal sedicesimo considerando del Regolamento MAR del 2014 e dall'art. 7 del Regolamento stesso -, pericolose proprio perché prodromiche al delinearsi dell'informazione privilegiata (cfr. il comma 3 dell'art. 181 TUF abrogato con il nuovo comma 2 dell'art. 7 Regolamento MAR).
Una siffatta interpretazione dell'art. 181 TUE oggi abrogato risulta conforme alla direttiva 2003/6 ed alla direttiva 2003/124, nell'interpretazione della giurisprudenza della Corte di Lussemburgo fornita nella causa C-19/11, Markus Gelti c. Daimler AG, del 28 giugno 2012.
È noto, infatti, che la Corte di giustizia europea già in quella sentenza ha chiarito che gli artt. 1, punto 1, della direttiva 2003 giugno CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 28 gennaio 2003, relativa all'abuso di informazioni privilegiate e alla manipolazione del mercato (abusi di mercato), e 1, paragrafo 1, della direttiva 2003/124/CE della Commissione del 22 dicembre 2003, recante modalità di esecuzione della direttiva 2003/6 per quanto riguarda la definizione e la comunicazione al pubblico delle informazioni privilegiate e la definizione di manipolazione del mercato, devono essere interpretati nel senso che in una fattispecie a formazione progressiva diretta a realizzare una determinata circostanza o a produrre un certo evento possono costituire informazioni aventi un carattere preciso ai sensi di tali disposizioni non solo la detta circostanza o il detto evento, bensì anche le fasi intermedie di tale fattispecie collegate al verificarsi di questi ultimi.
Dunque, nessun dubbio che la nozione di informazione privilegiata abbia sempre contemplato anche quella di informazione intermedia privilegiata direttamente riferibile ad una fase di prognosi in cui la precisione dell'informazione si ricollega (anche) a circostanze o ad eventi che si possono ragionevolmente prevedere che verranno ad esistenza.
Secondo la difesa, inoltre, vi sarebbe possibilità di configurare il reato di cui all'art. 184 TUF solo quando sussista un rapporto di prossimità ravvicinata tra la condotta materiale di sfruttamento dell'informazione privilegiata ed il momento in cui viene lanciata l'operazione oggetto dell'informazione stessa (l'OPA sulle società di cui alla contestazione di reato, nel caso di specie).
La prospettiva difensiva non può essere accolta.
L'interpretazione della nozione di informazione privilegiata fornita negli anni dalla giurisprudenza di legittimità (per tutte cfr. Sez. 5, n. 49362 del 7 dicembre 2012, Consorte, Rv. 254063), coerentemente all'indicazione fornita dalla Corte di giustizia europea (cfr. la citata sentenza Daimler del 2012), infatti, evidenzia, quanto al carattere della "precisione", che un'informazione si ritiene di carattere preciso se, come detto:
a) si riferisce ad un complesso di circostanze esistente o che si possa ragionevolmente prevedere che verrà ad esistenza o ad un evento verificatosi o che si possa ragionevolmente prevedere che si verificherà;
b) è sufficientemente specifica da consentire di trarre conclusioni sul possibile effetto del complesso di circostanze o dell'evento di cui alla lett. a) sui prezzi degli strumenti finanziari.
La comunicazione di informazioni privilegiate è punibile, cioè, con riferimento ad eventi accaduti o a circostanze che siano in atto «esistenti», oppure in relazione a circostanze od eventi ragionevolmente prevedibili nel futuro, rimanendo esclusa solo quando ha ad oggetto un complesso di circostanze inesistenti, falsamente date come attuali, poiché in tal caso la fattispecie concreta esula dal modello descrittivo tracciato dalla norma.
Quanto al carattere di price sensitive delle informazioni in tal modo fornite, il criterio dettato dal terzo comma, lett. b, e dal quarto comma del citato art. 181 d.lgs. n. 58 del 1998 - vigente all'epoca dei fatti e riprodotto sostanzialmente per intero dall'art. 7, commi 2 e 4, Regolamento MAR - è perfettamente applicabile al caso di specie: non può che convenirsi, infatti, sul punto che un ragionevole investitore, raggiunto dalla notizia che sono in corso OPA o acquisizioni di posizioni privilegiate in relazione ad importanti aziende quotate in borsa, di tal che è prevedibile un verosimile rialzo della loro quotazione sul mercato, sia portato a trarne elementi di valutazione sui quali fondare le proprie decisioni di investimento.
Il piano di intervento repressivo, dunque, voluto dal legislatore euro unitario e da quello interno non è quello invocato dalla difesa della prossimità ravvicinata tra la condotta di sfruttamento dell'informazione privilegiata e il momento in cui viene lanciata l'operazione borsistica riservata oggetto dell'informazione stessa, bensì quello della prevedibilità per un investitore ragionevole che una determinata operazione societaria produca effetti sui prezzi degli strumenti finanziari e, dunque, sia capace di indurre a decisioni di investimento che potremmo dire esse stesse "privilegiate" poiché si avvalgono di notizie riservate e sconosciute agli altri operatori di mercato.
Del resto, come noto, la disposizione dell'art. 184 TUE configura un reato di pericolo che punisce, di per sé, l'utilizzazione dell'informazione privilegiata da parte del suo possessore per compiere investimenti (acquisto, vendita o altre operazioni su strumenti finanziari), giocando sulla sua conoscenza delle dinamiche finanziarie che stanno per coinvolgere l'ente ed il suo patrimonio azionario, circostanza che l'ordinamento presume integri un pericolo per il corretto andamento dei mercati borsistici e la tutela degli investitori.
Non è necessario, come invece sostenuto dalla difesa, che, al fine di ritenere sussistente il reato di insider trading, si arrivi alla elisione del margine di rischio nell'operazione su titoli (margine di rischio che sarebbe, invece, "tipico" degli altri operatori "disinformati"), né tantomeno rileva che detta elisione del rischio non si sia verificata nel caso di specie.
Non è vero, infatti, che la disposizione penale di cui all'art. 184 TUE richiede una simile forma di certezza del buon fine dell'attività di investimento come portato dell'informazione privilegiata: la certezza di assenza del rischio borsistico, data anche la irrequietezza e le complicate dinamiche dei mercati, oramai strutturali all'epoca che viviamo, potrebbe essere abbinata solo a capacità divinatorie e non già al possesso di informazioni pur sempre di natura "tecnico-finanziaria", per quanto riservate.
Piuttosto, la norma configura un tipico reato di pericolo e di mera condotta, che realizza una tutela anticipata dei beni giuridici protetti (la stabilità e la trasparenza dei mercati, nonché ovviamente, la tutela degli investitori), a prescindere dal danno arrecato e, dunque, del vantaggio eventualmente conseguito dall'insider, il quale, dunque, sarà punito anche se con la sua condotta non abbia guadagnato quanto in prognosi si sarebbe aspettato grazie alla conoscenza privilegiata relativa all'investimento effettuato ed anche se, dunque, non abbia del tutto evitato i rischi connessi fisiologicamente alle operazioni speculative borsistiche.
Del resto, ancora una volta soccorre a conferma di quanto si è argomentato la Corte di Lussemburgo nella citata sentenza Daimler del 2012, in cui si è stabilito anche che l'art. 1, paragrafo 1, della direttiva 2003/124 deve essere interpretato nel senso che la nozione di «un complesso di circostanze (...) di cui si possa ragionevolmente ritenere che verrà ad esistere o (...) un evento (...) di cui si possa ragionevolmente ritenere che si verificherà» riguarda le circostanze o gli eventi futuri di cui appare, sulla base di una valutazione globale degli elementi già disponibili, che vi sia una concreta prospettiva che essi verranno ad esistere o che si verificheranno. Tuttavia, tale nozione non va interpretata nel senso che deve essere presa in considerazione l'ampiezza delle conseguenze di tale complesso di circostanze o di tale evento sul prezzo degli strumenti finanziari in questione: in altre parole, non è rilevante la misura del prodotto o del profitto del reato che si è "guadagnati" né, tantomeno, il margine di rischio che si è evitato.
Neppure corrisponde alla realtà economico-finanziaria l'assunto secondo cui la natura dell'incarico di due diligence non consente alcuna formulazione prognostica o previsione sul buon esito finale dell'operazione di OPA, essendo evidente, invece, che la elevata professionalità di una così nota società di consulenza e l'impegno meticoloso che, nel prestare ausilio all'operazione di finanza privata, mette chi lavora al team per il progetto di OPA (o di acquisizione di posizione di controllo) pongano questi ultimi, e comunque tutti quelli che, in ragione del loro ruolo interno alla società, abbiano conoscenza dei contenuti principali e rilevanti degli incarichi in atto, in una condizione tale da essere certamente in grado di valutare le conseguenze sui mercati di quanto si ha in progetto di realizzare.
Si eccepisce, infine, anche l'impossibilità in concreto di ritenere che un incarico di due diligence conferito ad una società di consulenza integri una fase intermedia idonea ad essere considerata rilevante come informazione privilegiata.
Il diciassettesimo Considerando del Regolamento MAR, infatti, suggerisce le tipologie di situazioni riconducibili allo schema della fase intermedia e in questo elenco non si rinviene alcuna nozione esemplificativa che possa riferirsi all'incarico di consulenza in esame.
L'obiezione è manifestamente infondata.
È evidente - per stessa ammissione difensiva - che l'elenco contenuto nel diciassettesimo considerando del Regolamento MAR non ha valore tassativo, ma solo esemplificativo (è inequivoco il riferimento lessicale alla formula "ad esempio"), sicché il mancato, esplicito inserimento in esso dell'operazione di due diligence come operazione qualificabile di natura intermedia non determina alcuna automatica esclusione di questa dal novero di tali operazioni.
5. Il settimo argomento eccepito si rapporta direttamente a quanto già si è esposto nei primi quattro motivi di ricorso ed è anch'esso infondato.
Si contesta il ruolo di insider primario del ricorrente e si riferisce la sua posizione, al più, a quella di un insider secondario, con esclusione della configurabilità della responsabilità penale, quindi, e riduzione dell'illecito ad una natura solo di violazione amministrativa (ai sensi dell'art. 187-bis TUF).
Le argomentazioni addotte dalla difesa rasentano l'inammissibilità, sia per la loro infondatezza evidente rispetto alla motivazione del provvedimento impugnato ed alla logica ricostruzione dei giudici d'appello che ha portato all'affermazione di colpevolezza, sia per la tendenziale proposizione della questione con ragioni di fatto.
È vero che si rappresenta la differenza - tutta giuridica - tra i ruoli di insider primario e secondario, ricostruendone la differente nozione, la diversa struttura ed il non coincidente regime giuridico; tuttavia, tale prospettazione sottende un ribaltamento della ricostruzione di fatto svolta dalla sentenza impugnata coerentemente alla omologa decisione di primo grado e nega, in sintesi, la qualità di insider primario sulla base di una asserita diversa lettura degli elementi di fatto analizzati nel processo di merito.
Ebbene, la rilettura difensiva non può trovare ingresso nel giudizio di legittimità e, in ogni caso, si scontra con la realtà probatoria da cui emerge che la conoscenza delle informazioni privilegiate è stata acquisita dall'imputato proprio per effetto di dinamiche riconducibili alla sua peculiare posizione lavorativa, poiché socio "anziano", che svolge un ruolo particolarmente rilevante nell'ambito della società di consulenza di cui fa parte e, per tale ragione, disponeva di un accesso facilitato agli elementi informativi attinenti agli incarichi conferiti a quest'ultima.
Non è vero, dunque, quanto argomenta la difesa sulla sussistenza di un vizio di violazione di legge (cui corrisponde un analogo vizio di motivazione) in relazione all'interpretazione degli artt. 184, comma 1, e 187-bis che sarebbe stata piegata sino a riferire al ricorrente la qualifica soggettiva di insider primario laddove egli invece sarebbe un mero insider secondario, per tale motivo sottoposto alla sola responsabilità amministrativa prevista dall'art. 187-bis cit.
Non è necessaria, infatti, ai fini della configurabilità della fattispecie penale prevista dall'art. 184 TUF una diretta conoscenza dei contenuti degli incarichi in ragione di un ruolo formale rivestito nella loro trattazione (con relativa iscrizione del nominativo dell'autore della condotta nei registri insider delle società coinvolte nelle attività di due diligence) perché si abbia la possibilità di essere definiti insider primari: un tale requisito non è richiesto dalla disposizione incriminatrice e neppure può desumersi in via interpretativa.
Se è vero che non in ogni attività lavorativa prestata, in qualsiasi forma più o meno coinvolgente, all'interno di una società di consulenza che operi per attività di due diligence, potrebbe ravvisarsi quel rapporto qualificato richiesto dalla norma per fondare il formarsi di una conoscenza privilegiata ed individuare un ruolo di insider primario, tuttavia, è indubbio che tale ruolo possa essere riconosciuto in capo a colui il quale rivesta in una tale società una qualifica di spicco - come è quella di socio senior - e, per tale condizione, assuma una speciale autorevolezza e visibilità tra i colleghi, con conseguente capacità di divenire recettore e collettore delle vicende di singole attività di consulenza delle quali la società abbia ricevuto incarico ed alle quali pure non participi direttamente, tanto da esserne messo al corrente dallo staff di professionisti specificamente ad esse nominati, pur in presenza di ordinarie forme di riservatezza interne tipiche di tali operazioni.
In sintesi, non può considerarsi certo un tippee (e cioè un soggetto che abbia ottenuto direttamente o indirettamente informazioni privilegiate da un insider primario) ovvero un insider occasionale colui il quale abbia acquisito l'informazione privilegiata in ragione del suo ruolo interno alla società di consulenza, particolarmente qualificato, ed anzi esclusivamente per tale qualità, non essendo egli destinatario dello specifico incarico.
Sarebbe illogico, peraltro, ritenere che proprio le condotte più pericolose, poste in essere da chi abusi del suo ruolo primario interno e della sua peculiare attività lavorativa per carpire subdolamente ed in modo occulto l'informazione privilegiata, siano escluse dal novero di quelle alle quali si riferisce la disposizione di cui all'art. 184 TUF, né la formalizzazione dell'incarico di staff interno può essere dirimente al riguardo, dovendo sempre procedersi alla verifica in concreto del nesso esistente tra l'acquisizione dell'informazione privilegiata ed il ruolo professionale e la qualità del lavoro svolto.
Nel caso del ricorrente, si rientra perfettamente, quindi, in quella che lo stesso difensore definisce "asimmetria informativa" punibile, configurabile nel caso in cui vi sia stato l'indebito sfruttamento di una "posizione qualificata" dell'agente per ottenere l'informazione privilegiata.
6. L'ottavo motivo di ricorso, in cui si è eccepita l'illegittimità costituzionale dell'art. 187, comma 2, TUF in relazione agli artt. 3 e 27 Cost., nella parte in cui detta norma prevede la confisca obbligatoria per equivalente dei mezzi strumentali a commettere il reato, e, al contempo, si è chiesto di sollevare questione pregiudiziale ex art. 267 TFUE sempre in relazione a tale previsione, non può trovare accoglimento.
La confisca per equivalente dei mezzi strumentali a commettere il reato, disposta dall'art. 187, comma 2, TUF, è sanzione che spetta al legislatore decidere di tenere in vita o meno, secondo la sua discrezionalità ribadita dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 252 del 2012 e dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. Sez. 5, n. 28486 del 13 marzo 2012, Respigo, Rv. 252989) ed avvalorata da una constatazione attuale: il d.lgs. n. 108 del 2017 ha modificato l'art. 187-sexies TUF, che prevede la confisca per equivalente di natura amministrativa come conseguenza dell'illecito amministrativo di cui all'art. 187-bis TUF, eliminando dall'oggetto del suo fuoco di apprensione i beni utilizzati per commettere l'illecito e limitando tale oggetto al solo profitto derivato da tale illecito (ed al prodotto di esso: quest'ultimo, tuttavia, da ritenersi oggi escluso dalla disposizione alla luce di una pronuncia recentissima della Corte costituzionale, la n. 112 del 2019, di cui si dirà di qui a poco).
Altrettanto non è stato previsto in relazione all'art. 187 TUF - che costituisce la disposizione equivalente, sul piano penalistico, a quella modificata nell'universo sanzionatorio amministrativo - sicché pare difficile negare che il legislatore abbia voluto esprimere, in quest'ultima novella, una volontà di differenziare le conseguenze della condotta, a seconda che essa configuri oppure non un illecito (anche) formalmente di natura penale, e che - per far ciò - abbia volontariamente deciso di non estendere la riformulazione in melius alla confisca per equivalente che segue all'illecito penale.
Si potrebbe convenire con quanti in dottrina hanno manifestato perplessità rispetto a tale scelta legislativa diversificata, pur - al contempo - sottolineando la condivisibile ragione di fondo che ha guidato la modifica parziale in esame: e cioè espungere dall'arsenale sanzionatorio una misura (quella della confisca per equivalente dei beni utilizzati per commettere l'illecito, vale a dire il capitale investito), di natura formalmente amministrativa e sostanzialmente penale, concordemente tacciata di sproporzione ed eccessività in confronto al disvalore dell'illecito commesso, potendo essa riguardare risorse economiche assai ingenti anche a fronte di un accrescimento patrimoniale modesto per il responsabile.
Tuttavia, la mancata corrispondente modifica dell'art. 187 TUF, disposizione che tuttora contempla la confisca per equivalente da reato anche dei beni strumentali alla sua commissione, non importa automaticamente un irrimediabile vulnus ai canoni dell'eguaglianza e della ragionevolezza costituzionalmente protetti dall'art. 3 Cost., poiché il legislatore conserva tra le sue prerogative la facoltà di rispondere agli illeciti amministrativi ed agli illeciti penali in modo differenziato, accentuando la reazione sanzionatoria di questi ultimi nel confronto con i primi.
Può ritenersi, pertanto, non irragionevole - sia pur auspicando una rimeditazione della disciplina al fine di evitare meccanismi di eccessivo rigore sanzionatorio - continuare a prevedere un regime differenziato di confisca per equivalente, con una afflittività maggiore dettata dalla necessità di coprire il disvalore della condotta penalmente rilevante prevista dall'art. 184 TUF in modo rafforzato e distinto rispetto al disvalore che caratterizza la condotta qualificata (almeno formalmente) come mero illecito amministrativo.
Si rammenterà che la Corte di cassazione, nella citata sentenza Sez. 5, n. 28486 del 13 marzo 2012, Respigo, Rv. 252989 (nel procedimento cautelare che ha preceduto il processo a carico dell'odierno ricorrente), ha rigettato una analoga istanza volta ad indurre questa Corte di legittimità a sollevare questione di illegittimità costituzionale della disciplina prevista dall'art. 187 TUF, in relazione alla possibilità di disporre la confisca dei beni strumentali utilizzati per commettere l'illecito penale di abuso di informazioni privilegiate (art. 184 TUF), fondata sull'assunto della irragionevolezza di ogni sua possibilità di graduazione e sulla funzione conservativa del sequestro in evidenza.
Nel far ciò, la Corte di cassazione ha chiarito - con affermazione che il Collegio condivide, sia pur con le precisazioni già poco sopra svolte - che lo scopo della norma, assolutamente chiaro dal suo dettato, è quello di impedire che operatori finanziari di pochi scrupoli e particolarmente qualificati, possano porre in essere avventure economiche che si traducono in turbative del mercato cui conseguirebbe corrispondente danno all'economia nazionale, risultato conseguibile solo sottraendo loro le risorse economiche relative (maggiormente discutibile appare l'altra ratio decidendi utilizzata, relativa al fatto che non potrebbe parlarsi di rigidità della confisca nel caso dell'art. 187 TUF, che, per tale ragione sarebbe incostituzionale, in quanto l'entità del sequestro è determinata dallo stesso autore dell'illecito).
Quanto alla alternativa tra obbligatorietà e facoltatività della confisca per equivalente, desunta dalla difesa dalla motivazione della sentenza n. 252 del 2012 Corte cost., vi è da dire, anzitutto, che essa risulta formulata non in termini precisi, poiché mentre l'eccezione si incentra, sul piano argomentativo, tutta intorno alla sostanziale irragionevolezza e non proporzionalità della misura della confisca, si chiede a questa Corte, invece, di valutare la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale inerente non già alla sua misura ma alla sua obbligatorietà.
Inoltre, proprio con riferimento a tale ultima caratteristica della confisca per equivalente, la recentissima sentenza n. 112 del 2019 Corte cost., che, nelle more del deposito della motivazione della presente pronuncia, è stata emessa in risposta alle questioni sollevate dalla Seconda Sezione Civile della Corte di cassazione nell'ordinanza n. 54 del 2018 - evocata anche dalla difesa del ricorrente -, ha sostanzialmente confermato la legittimità dello strumento-confisca, pur esercitato senza alcuno spazio per apprezzamenti discrezionali sulla opportunità o meno di applicare la sanzione a chi sia stato ritenuto responsabile della commissione di un illecito previsto dal Titolo I-bis, Capo III, d.lgs. n. 58 del 1998 (TUF), dando l'obbligatorietà per scontata e non smentita rispetto neppure alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 107 del 2018.
Quanto all'argomento riferito al contenuto dell'art. 30, comma 2, lett. h), del Regolamento UE 596/2014, vi è da dire che, effettivamente, al comma 2, lett. b) - il riferimento difensivo alla lett. h) è impreciso rispetto al caso di specie poiché relativo alle sanzioni amministrative pecuniarie -, la disposizione si riferisce, genericamente, alla restituzione dei guadagni realizzati o delle perdite evitate grazie alla violazione, mentre al comma finale (il n. 3) viene stabilito che gli ordinamenti nazionali possano prevedere altri poteri oltre a quelli indicati al precedente comma (paragrafo, per il linguaggio comunitario) 2.
Ebbene, si rivela infondata la richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia europea dell'art. 187, comma 2, TUF, non essendovi alcuna conflittualità tra la sua previsione e quella del citato art. 30 Reg. UE 596/2014 che si riferisce agli illeciti amministrativi ed alle sanzioni ad essi relative, non già agli illeciti penali.
Non risultano di ostacolo gli orientamenti recentissimi della Corte costituzionale, meritoriamente improntati alla salvaguardia delle garanzie fondamentali di rispetto dei principi di ragionevolezza e proporzionalità in materia di insider trading, contenuti, tra l'altro, nella già citata sentenza n. 112 del 2019, con cui la Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 187-sexies TUF sia nel testo originariamente introdotto dall'art. 9, comma 2, lett. a), l. n. 62 del 2005, sia in quello successivamente modificato introdotto dall'art. 4 del d.lgs. n. 107 del 2018, nella parte in cui entrambi non prevedono la limitazione della confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, al solo profitto e la estendono, invece, anche al prodotto dell'illecito amministrativo.
Invero, la Corte costituzionale si è pronunciata sulla realtà - parallela a quella della confisca ex art. 187 TUF, e ad essa non del tutto sovrapponibile - della confisca ex art. 187-sexies TUF, cui si riferisce l'art. 30 del Regolamento UE 596/2914 quando disciplina le sanzioni amministrative in materia di abusi di mercato.
Dunque, nessuna conseguenza automatica di incompatibilità costituzionale potrebbe derivare da tale sentenza rispetto alla norma oggi censurata dalla difesa poiché l'intera motivazione della pronuncia di incostituzionalità ruota intorno al sistema sanzionatorio Consob e non si estende mai al confronto con quello previsto in ambito penale dallo stesso Testo Unico degli illeciti finanziari.
Del resto, ed infine, la questione di costituzionalità proposta e quella di rinvio pregiudiziale sono non decisive nel caso di specie, in cui - come si dirà al paragrafo successivo - deve essere disposto il rinvio per la verifica della proporzionalità complessiva della sanzione irrogata all'esito del processo penale (e dunque anche della quota di essa imputabile alla confisca), alla luce della definitività della sanzione amministrativa inflitta nel parallelo procedimento Consob, chiusosi prima di quello penale.
7. La questione ne bis in idem.
Deve essere trattato, infine, l'aspetto dei motivi aggiunti al ricorso e delle memorie ulteriori depositate nell'interesse del ricorrente, attinente alla questione della violazione o meno del superiore principio del ne bis in idem che regola i rapporti tra illecito penale e illecito amministrativo "sostanzialmente penale" nell'ordinamento interno, alla luce dei criteri indicati dalla giurisprudenza delle Corti europee per stabilire se una fattispecie si inscriva all'interno dell'alveo della matière pénale di accezione euro unitaria.
7.1. Il ricorrente, infatti, quasi con percorso coevo, è stato sottoposto a procedimento penale ed a procedimento amministrativo Consob, quest'ultimo chiuso con sentenza della Corte di cassazione civile di rigetto del ricorso proposto (la sentenza n. 26344 del 3 maggio 2017, dep. il 7 novembre 2017), che ha determinato la "definitività" della sanzione disposta con delibera Consob n. 18070 del 2 gennaio 2012, (definitività che, per giurisprudenza costante, pone un problema di violazione del principio di ne bis in idem convenzionale: Sez. 3, n. 5934 del 12 settembre 2018, dep. 2019, Giannino, Rv. 275833; Sez. 3, n. 19334 dell'11 febbraio 2015, Andreatta, Rv. 264809; Sez. 3, n. 48591 del 26 aprile 2016, Pellicani, Rv. 268493).
Il problema, come noto, nasce in ragione del fatto che, nonostante la pacifica posizione di criteri di verifica sostanzialistici della natura penale di un illecito e della relativa sanzione da parte della Corte EDU e della Corte di giustizia europea, nel nostro ordinamento interno tutt'ora permangono una nozione di illecito penale radicata ad una regola di stretta legalità formale ed inscritta in un sistema che stabilisce la riferibilità della natura "penale" di una norma al fatto che essa sia formalmente ed espressamente prevista come reato da una legge ed accompagnata da una sanzione catalogabile nel novero delle "pene".
È opportuno anticipare che tale discrasia non può dirsi ad oggi risolta, pur tenuto conto dell'enorme sforzo interpretativo compiuto dai giudici e dalle Corti superiori interne per adeguare ai parametri della legalità convenzionale le decisioni rese in materia dai giudici nazionali, nonché del radicale cambiamento di prospettiva leggibile negli ultimi anni nella stessa giurisprudenza delle Corti europee, le quali hanno spostato il fuoco della verifica di compatibilità del fenomeno del doppio binario di intervento normativo rispetto ad uno stesso fatto illecito con i principi della CEDU e della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea su di un piano procedimentale e sanzionatorio concreto, piuttosto che basandosi sul confronto tra le disposizioni in astratto considerate.
Del resto, una simile discrasia sarebbe superata solo se e quando il nostro legislatore o, in mancanza, il giudice costituzionale decidessero di estendere la portata dell'art. 649 c.p.p. anche alle sanzioni derivanti da illeciti formalmente amministrativi ma sostanzialmente penali, secondo la oramai pacifica ed unanime accezione che di questi ultimi forniscono la giurisprudenza europea e quella interna, prima di tutto di questa Corte di legittimità.
D'altra parte, è la stessa legislazione euro unitaria a pretendere dagli Stati componenti, in alcuni settori ritenuti evidentemente nevralgici per le sorti economiche e politiche dell'Unione, innalzamenti dei livelli di tutela degli interessi giuridici comuni indicando un doppio percorso di intervento, che si nutra sia di strumenti sanzionatori di ordine amministrativo che di rango penale, percepiti, questi ultimi, come dotati di un effetto dissuasivo maggiore, per la loro portata maggiormente stigmatizzante e simbolica.
È sufficiente rammentare in proposito i contenuti della Direttiva 2014/57/UE del 16 aprile 2014 - funzionale all'obiettivo di garantire l'integrità dei mercati, proprio incentivando il ricorso alla penalizzazione degli illeciti in materia di abusi di mercato (cfr. i considerando 22 e 23 della Direttiva), poiché dal rapporto della Commissione europea era emerso che la precedente direttiva 2003/6 non era stata attuata in modo adeguato in tutti gli Stati membri, con soglie di tutela limitate a strumenti di intervento amministrativo, che si erano rivelati nella gran parte inefficaci all'intento di contrasto di fenomeni speculativi illegali - nonché gli stessi contenuti del citato, coevo Regolamento MAR.
7.2. Orbene, deve ricordarsi che la distanza che separa i concetti di illecito penale convenzionale e di illecito penale secondo il diritto interno ha prodotto una serie di "corti circuiti" nella nostra giurisprudenza di merito e di legittimità negli ultimi anni.
Il dibattito interpretativo si è aperto con evidenza nel nostro sistema interno per effetto delle sentenze della Corte di giustizia europea Aklagaren c. Hans Akerberg Fransson del 26 febbraio 2013, C-617/10 e della Corte EDU del 4 marzo 2014 Grande Stevens c. Italia (cui hanno fatto seguito altre pronunce della Corte di Strasburgo di analogo contenuto e tenore; tra queste, per citare solo le più note: Nykanen contro Finlandia del 20 Maggio 2014, Lucki Dev contro Svezia del 27 Novembre 2014, Kiivari contro Finlandia del 10 febbraio 2015), le quali hanno posto con forza sulla scena europea e nazionale canoni di applicazione del principio del ne bis in idem - stabilito dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (CDFUE), all'art. 50, e dal Protocollo aggiuntivo alla CEDU n. 7, all'art. 4 - che sembrano proiettarlo verso la massima espansione della sua accezione di "divieto di doppio giudizio" quale regola di garanzia del diritto a non essere puniti o giudicati due volte per lo stesso fatto.
In verità, prima di tali pronunce, la giurisprudenza europea aveva dettato non dissimili criteri interpretativi per la declinazione del principio, a partire dalla famosa sentenza della Corte EDU Engel contro Paesi Bassi dell'8 giugno 1976, che ha dato il nome agli stessi criteri di Engel, i quali, da allora, definiscono il concetto di illecito di natura "convenzionalmente penale", riferendone il carattere, oltre che alla qualificazione giuridica della misura sanzionatoria nell'ordinamento nazionale anche e congiuntamente alla natura effettiva della struttura dell'illecito, nonché alla natura ed al grado di severità ed afflittività della sanzione.
Dal deflagrare della questione "Grande Stevens" nel nostro ordinamento penale sono scaturiti provvedimenti di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell'Unione europea, oltre che questioni di legittimità costituzionale per violazione del parametro interposto di cui all'art. 117 Cost.
Ne sono derivate, altresì, decisioni che propongono nuove e inaspettate aperture della Corte di cassazione al criterio guida del ne bis in idem declinato secondo le indicazioni delle Corti europee (sulle quali ci si soffermerà ampiamente di seguito), ma anche, in passato, pronunce di robusta contrarietà a qualsiasi "inquinamento" del paradigma legale di illecito penale con i criteri sostanzialistici dettati in campo europeo dalle Corti di Lussemburgo e, soprattutto, di Strasburgo (cfr. Sez. 1, n. 19915 del 17 dicembre 2013, dep. 2014, Gabetti, Rv. 260686; Sez. 3, n. 25815 del 22 giugno 2016, Scagnetti, Rv. 267301; Sez. 4, n. 9168 del 6 febbraio 2015, Meligeni, Rv. 262445; Sez. 3, n. 31378 del 14 gennaio 2015, Ghidini, Rv. 264332); non sono mancate, peraltro, aperture di una minima parte della giurisprudenza di merito verso un'accezione di matrice "europeista" della sanzione penale, con adesione ai c.d. "criteri di Engel" ed applicazione diretta della giurisprudenza europea, che hanno dichiarato la sussistenza del ne bis in idem tra ipotesi di illecito penale ed illecito amministrativo di natura "sostanzialmente penale" dal punto di vista dell'afflittività sanzionatoria (cfr., ad esempio, la sentenza del Tribunale di Ascoli Piceno del 16 marzo 2016, annullata con rinvio dalla Seconda Sezione Penale di questa Corte, con la pronuncia n. 9184 del 15 dicembre 2016, dep. 2017, Pagano, Rv. 269237).
Deve rammentarsi che i due poli di ragionamento "classici" intorno ai quali si è giocata la partita della maggiore o minore espansione dell'operatività del principio del ne bis in idem e della sua stessa definizione si riconoscono da sempre nella nozione di idem factum ed in quella di matière pénale.
Quanto alla seconda, si è già indicata la soglia più ampia di accezione che ad essa riconosce l'ordinamento europeo, analizzando la nozione di illecito penale convenzionale, caratterizzata da una ricerca sostanzialistica della sua natura, che prescinda dalle etichette formali dei sistemi giuridici nazionali.
Sul primo concetto - l'idem factum -, valgono tuttora gli insegnamenti delle Sezioni unite, nella sentenza n. 34655 del 28 giugno 2005, Donati, Rv. 231799-231800, e quelli proposti dalla Corte costituzionale, da ultimo nella rilevante sentenza n. 200 del 2016, secondo cui l'identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona, anche nelle ipotesi di concorso formale di reati. Si rammenterà, infatti, che la Corte costituzionale, preso atto dello stato del "diritto vivente", ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 649 c.p.p., per violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 4 del Protocollo n. 7 CEDU, nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale.
Successivamente alla pronuncia della Corte costituzionale, peraltro, la giurisprudenza di legittimità si è espressamente ad essa ispirata per riaffermare il principio secondo cui l'identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona, anche nelle ipotesi di concorso formale di reati (cfr., tra quelle massimate, Sez. 4, n. 54986 del 24 ottobre 2017, Montagna, Rv. 271717; Sez. 3, n. 21994 del 1° febbraio 2018, Pigozzi, Rv. 273220 e Sez. 6, n. 16846 del 1° marzo 2018, C., Rv. 273010).
Tuttavia, accanto a tali due poli di ragionamento, dalla fine del 2016 si è imposto un nuovo parametro valutativo, che sembra tendere ad assorbire del tutto la verifica sulla sussistenza del bis in idem in presenza dei due presupposti dell'idem factum e della natura sostanzialmente penale di un illecito amministrativo che "doppi" l'illecito penale.
Con la sentenza della Corte EDU Grande Chambre, A e B contro Norvegia del 15 novembre 2016, infatti, nasce il nuovo paradigma della connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta (sufficiently close connection in substance and time) tra i procedimenti nei quali si discute di bis in idem, cui si affianca quello, fondamentale, della verifica della esistenza di un unico sistema sanzionatorio "integrato" in cui ciò che conta per stabilire se vi sia violazione o meno del superiore divieto di un doppio giudizio sul medesimo fatto è il risultato di proporzionalità complessiva della sanzione inflitta nell'ambito dei due procedimenti.
In estrema sintesi, la pronuncia A e B, pur non sconfessando la giurisprudenza consolidata dei giudici di Strasburgo sulle nozioni di materia penale e di idem factum, utilizza una nuova chiave di valutazione per la verifica della sussistenza di una violazione del divieto di doppio giudizio nell'ordinamento interno di uno Stato membro, nel caso in cui ad una sanzione amministrativa definitiva si affianchi un procedimento penale per lo stesso fatto, nei confronti della stessa persona.
I procedimenti sanzionatori, penale ed amministrativo, possono coesistere qualora si ritenga tra loro una "connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta" che li renda, sostanzialmente, quasi parte di unico sistema sanzionatorio "integrato".
Non cambiano, dunque, le accezioni dei concetti consolidati di "materia penale" e idem factum, ma si indica quella che potremmo definire una "terza via" per dirimere la questione sulla violazione del principio di ne bis in idem, che affronta il tema - "a monte" - da un punto di vista prettamente processuale-procedimentale, individuando alcuni parametri di riferimento concreto per valutare la sussistenza del nesso temporale e del nesso sostanziale che, se sussistenti, legittimano il duplice procedimento; "a valle", indicando il criterio finale di verifica della complessiva proporzionalità della sanzione, "integrata" poiché frutto dell'applicazione congiunta della pena e della sanzione amministrativa nei due procedimenti parallelamente creati.
Ed è proprio quest'ultimo il terreno valutativo di maggior novità che viene adottato dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità più recente, anche alla luce delle ultime, fondamentali decisioni della Corte di giustizia europea, con le quali i giudici di Lussemburgo hanno sostanzialmente aderito alla prospettiva della Corte EDU, ampliandone la riflessione interpretativa sotto il profilo del confronto sanzionatorio: il richiamo è alle sentenze della Grande Sezione della CGUE del 20 marzo 2018 nelle cause Menci (C-524/15), Garlsson Real Estate SA e altri contro Consob (C-537/16) e Di Puma contro Consob e Consob contro Zecca (nelle cause riunite C-596/16 e C-597/16).
Anche la Corte costituzionale, del resto, nella recente sentenza n. 43 del 2018, aveva sottolineato la portata significativamente innovativa della sentenza A e B, mettendo in luce come, nel passato, scarsa eco avevano avuto altre pronunce della Corte EDU con cui si era ritenuta convenzionalmente legittima la conclusione di un secondo procedimento, nonostante il primo fosse già stato definito, in virtù dell'esistenza tra i due di un legame materiale e temporale sufficientemente stretto.
Prima della sentenza A e B - afferma la Corte costituzionale - il criterio era stato così sporadicamente applicato da non poter in alcun modo contribuire a "scolpire" con univocità il significato della normativa interposta.
In sintesi, la sentenza A e B del 2016 ha costituito un vero e proprio spartiacque per la tutela della garanzia convenzionale del principio di ne bis in idem determinando, come è stato detto in dottrina, una trasfigurazione del principio stesso e un'evoluzione rilevantissima della sua fenomenologia.
Prova ne è, ancora una volta, l'orientamento del nostro giudice delle leggi che, nella sentenza citata, la n. 43 del 2018, ha preso atto della svolta, indicandone le conseguenze.
7.3. Ed infatti, sulla questione sollevata dal Tribunale di Monza in relazione alla legittimità costituzionale dell'art. 649 c.p.p. rispetto al principio di ne bis in idem di matrice convenzionale (il procedimento penale aveva ad oggetto il reato previsto dall'art. 5, comma 1, del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74: omessa presentazione di dichiarazione dei redditi), con la citata sentenza n. 43 del 2018, la Corte costituzionale - dopo la pronuncia di inammissibilità di analoga questione riferita all'art. 649 c.p.p. emessa in relazione alla materia degli abusi di mercato, adottata con decisione n. 102 del 12 maggio 2016 Corte cost. - anzitutto ha riconosciuto al significativo mutamento giurisprudenziale della Corte EDU nella sentenza A e B contro Norvegia la capacità di determinare una diversa interpretazione della normativa interposta, anche per il suo provenire dalla Grande Camera della Corte di Strasburgo che le consente di configurare un'opzione di diritto vivente europeo, secondo l'impostazione della sentenza n. 49 del 2015 Corte cost.; quindi, sulla base di tali premesse, ha disposto la restituzione degli atti al giudice rimettente ai fini di una nuova valutazione sulla rilevanza della questione di legittimità costituzionale.
Se, infatti, il giudizio penale fosse "legato temporalmente e materialmente" al procedimento tributario al punto da non costituire un bis in idem, non vi sarebbe necessità, ai fini del giudizio principale, di introdurre nell'ordinamento, attraverso la "chiave" dell'art. 649 c.p.p., alcuna regola che imponga di non procedere nuovamente per il medesimo fatto.
La Corte costituzionale ha spiegato anche le ragioni profonde del mutamento di prospettiva della Corte EDU, osservando come la «rigidità del divieto convenzionale di bis in idem, nella parte in cui trova applicazione anche per sanzioni che gli ordinamenti nazionali qualificano come amministrative, aveva ingenerato gravi difficoltà presso gli Stati che hanno ratificato il Protocollo n. 7 alla CEDU, perché la discrezionalità del legislatore nazionale di punire lo stesso fatto a duplice titolo, pur non negata dalla Corte di Strasburgo, finiva per essere frustrata di fatto dal divieto di bis in idem», sicché, allo scopo di alleviare tale inconveniente, la Corte EDU ha enunciato «il principio di diritto secondo cui il ne bis in idem non opera quando i procedimenti sono avvinti da un legame materiale e temporale sufficientemente stretto ("sufficiently closely connected in substance and in time"), attribuendo a questo requisito tratti del tutto nuovi rispetto a quelli che emergevano dalla precedente giurisprudenza», precisando che: «legame temporale e materiale sono requisiti congiunti; [...] il legame temporale non esige la pendenza contemporanea dei procedimenti, ma ne consente la consecutività, a condizione che essa sia tanto più stringente, quanto più si protrae la durata dell'accertamento; [...] il legame materiale dipende dal perseguimento di finalità complementari connesse ad aspetti differenti della condotta, dalla prevedibilità della duplicazione dei procedimenti, dal grado di coordinamento probatorio tra di essi, e soprattutto dalla circostanza che nel commisurare la seconda sanzione si possa tenere conto della prima al fine di evitare l'imposizione di un eccessivo fardello per lo stesso fatto illecito».
Inoltre, secondo la Corte costituzionale, alla luce dei nuovi criteri, si dovrà anche valutare «se le sanzioni, pur convenzionalmente penali, appartengano o no al nocciolo duro del diritto penale, perché in caso affermativo si sarà più severi nello scrutinare la sussistenza del legame e più riluttanti a riconoscerlo in concreto».
Pertanto, sottolinea ancora la sentenza n. 43 del 2018, «il ne bis in idem convenzionale cessa di agire quale regola inderogabile conseguente alla sola presa d'atto circa la definitività del primo procedimento ma viene subordinato a un apprezzamento proprio della discrezionalità giudiziaria in ordine al nesso che lega i procedimenti, perché in presenza di una "close connection" è permesso proseguire nel nuovo giudizio ad onta della definizione dell'altro».
Naturalmente, come ha sottolineato la sentenza in esame, la decisione non può che passare da un giudizio casistico, affidato all'autorità che procede: il giudice interno acquista, in tale prospettiva, la veste fondamentale di garante dell'applicazione corretta dei criteri dettati dalla Corte EDU.
Infine, neppure si può continuare a sostenere - secondo la Corte - che il divieto di bis in idem convenzionale ha carattere esclusivamente processuale, giacché criterio eminente per affermare o negare il legame materiale è proprio quello relativo all'entità della sanzione complessivamente irrogata: se, pertanto, la prima sanzione fosse modesta, sarebbe in linea di massima consentito, in presenza del legame temporale, procedere nuovamente, al fine di giungere all'applicazione di una sanzione che, nella sua totalità, non risultasse sproporzionata, mentre nel caso opposto il legame materiale dovrebbe ritenersi spezzato e il divieto di bis in idem pienamente operante.
In conclusione, la Corte costituzionale rileva il carattere innovativo che la regola della sentenza A e B contro Norvegia ha impresso in ambito convenzionale al divieto di bis in idem: «si è passati dal divieto imposto agli Stati aderenti di configurare per lo stesso fatto illecito due procedimenti che si concludono indipendentemente l'uno dall'altro, alla facoltà di coordinare nel tempo e nell'oggetto tali procedimenti, in modo che essi possano reputarsi nella sostanza come preordinati a un'unica, prevedibile e non sproporzionata risposta punitiva, avuto specialmente riguardo all'entità della pena (in senso convenzionale) complessivamente irrogata», sicché «ciò che il divieto di bis in idem ha perso in termini di garanzia individuale, a causa dell'attenuazione del suo carattere inderogabile, viene compensato impedendo risposte punitive nel complesso sproporzionate».
7.4. È proprio in questa considerazione, attentamente strutturata dalla Corte costituzionale, che si concentra la centralità delle affermazioni contenute nella pronuncia A e B contro Norvegia, in una prospettiva interpretativa che la Corte di giustizia europea, nelle tre sentenze sopra richiamate, ha portato alla definitiva consacrazione e che prelude, verosimilmente, ad un duraturo periodo di stabilità interpretativa per la giurisprudenza europea ed interna sul tema, rassicurata da una declinazione del principio di ne bis in idem che "salva" sia le garanzie individuali che la struttura bifronte della tutela degli interessi dell'Unione europea, superando problemi di armonizzazione delle legislazioni interne rispetto ai principi declinati dalle Corti sovranazionali (primo tra tutti, quello legato al criterio di legalità formale dell'illecito penale rinvenibile anche in quanto previsto dall'art. 649 c.p.p., norma in relazione alla quale, non a caso, la sentenza Sez. 5, n. 5679 del 9 novembre 2018, dep. 2019, Erbetta, Rv. 275314 ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale proposta dalla difesa, tenuto conto delle affermazioni della Corte costituzionale nella sentenza n. 43 del 2018 e dei criteri dettati dalla sentenza Corte EDU, GC, 15 novembre 2016, A e B contro Norvegia).
Tenendo conto, dunque, delle tre pronunce dei giudici di Lussemburgo, ed in particolare della sentenza Menci, dotata del più ampio percorso argomentativo, e della sentenza Garlsson Real Estate, specificamente riferita al tema del ne bis in idem in rapporto alla disciplina degli abusi di mercato, rilevante nel presente processo, si possono trarre alcuni punti interpretativi di rilievo.
Anzitutto, il richiamo ai consolidati criteri funzionali all'identificazione della natura sostanzialmente penale di una sanzione formalmente amministrativa (criteri assimilabili ai c.d. Engel criteria elaborati dalla Corte EDU) e all'accertamento dell'idem factum (sentenza Menci, rispettivamente, §§ 26 ss. e §§ 34 ss.; conforme la sentenza Garlsson Real Estate, §§ 28 ss. e 36 ss.).
Quindi, la ricostruzione della portata della tutela accordata dall'art. 50 CDFUE, che deve essere messa in relazione con l'art. 52, comma 1, della Carta, in forza del quale, da una parte, eventuali limitazioni all'esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla stessa Carta devono essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà, mentre, dall'altra, nel rispetto del principio di proporzionalità, possono essere apportate limitazioni solo qualora siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall'Unione o all'esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui.
Dalla lettura coordinata delle norme indicate, la Corte di giustizia trae una serie di indicazioni (ulteriori) volte ad individuare le condizioni in presenza delle quali il cumulo di sanzioni sostanzialmente penali (seppur formalmente eterogenee) non integra una violazione del principio del ne bis in idem secondo il diritto dell'Unione europea, e precisamente:
a) la necessaria base legale della disciplina del cumulo sanzionatorio, con la collegata esigenza che la previsione sia posta attraverso «norme chiare e precise che consentano al soggetto dell'ordinamento di prevedere quali atti e omissioni possano costituire oggetto di un siffatto cumulo di procedimenti e di sanzioni» (sentenza Menci, §§ 42 e 49; conforme la sentenza Garlsson Real Estate, §§ 44 e 52);
b) la necessaria complementarietà finalistica del cumulo sanzionatorio: un cumulo di procedimenti e di sanzioni di natura penale (formalmente l'una, sostanzialmente l'altra) può essere giustificato allorché detti procedimenti e dette sanzioni riguardino «scopi complementari vertenti, eventualmente, su aspetti differenti della medesima condotta di reato interessata, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare» (sentenza Menci, § 44; conforme la sentenza Garlsson Real Estate, § 46);
c) il necessario coordinamento tra i procedimenti, mediante una previsione normativa tale da far sì che «gli oneri derivanti, a carico degli interessati, da un cumulo del genere siano limitati a quanto strettamente necessario al fine di realizzare l'obiettivo» di interesse generale richiamato (sentenza Menci, § 52; conforme la sentenza Garlsson Real Estate, § 54);
d) la necessità - soprattutto - che sussista un canone di proporzionalità del complessivo trattamento sanzionatorio, canone che rinviene il proprio fondamento anche nell'art. 49, comma 3, della Carta, in forza del quale le pene inflitte non devono essere sproporzionate rispetto al reato (sentenza Menci, § 55; conforme la sentenza Garlsson Real Estate, § 56).
Il "garante" di questa nuova dimensione del principio di ne bis in idem è senza dubbio il giudice interno: il suo ruolo decisivo di verifica assurge, nella costruzione della Corte di giustizia - risalente sin ai tempi della sentenza Fransson del 2013 - a condizione imprescindibile del rispetto dei criteri interpretativi dettati e in presenza dei quali, eventualmente, si potrebbe rilevare l'insussistenza della violazione del principio di ne bis in idem.
Secondo la sentenza Menci, «spetta, in definitiva, al giudice del rinvio valutare la proporzionalità dell'applicazione concreta della summenzionata normativa nell'ambito del procedimento principale, ponderando, da un lato, la gravità del reato (nel caso di specie, tributario) in discussione e, dall'altro, l'onere risultante concretamente per l'interessato dal cumulo dei procedimenti e delle sanzioni di cui al procedimento principale» (cfr. § 59; anche la sentenza Garlsson Real Estate richiama, ai §§ 59 e 61, la necessaria verifica, sul punto, da parte del giudice del rinvio).
7.5. Quanto allo specifico ambito della disciplina degli abusi di mercato, la pronuncia Garlsson Real Estate - intervenuta in un caso, speculare a quello del ricorrente R., in cui la sanzione penale era divenuta definitiva e il giudizio a quo riguardava la sanzione formalmente amministrativa irrogata da Consob e ritenuta sostanzialmente penale - ha riconosciuto come sussistenti alcune delle condizioni sopra richiamate.
Per la necessaria "base legale" della doppia sanzione, la Corte di giustizia ha fatto riferimento alla disciplina prevista in materia dal TUF di cui al d.lgs. n. 58 del 1998, nonché alla necessaria complementarietà finalistica del cumulo sanzionatorio, identificato, nel caso di specie, alla luce dell'obiettivo di interesse generale sotteso alla normativa statale in tema di abusi di mercato, nella tutela dell'integrità dei mercati finanziari dell'Unione e della fiducia del pubblico negli strumenti finanziari: tale obiettivo è stato ritenuto adeguato a fondare la limitazione dell'art. 50 CDFUE, nonché sufficientemente proporzionato a tale scopo.
Con riguardo alla proporzionalità del complessivo trattamento sanzionatorio, la sentenza Garlsson Real Estate ha osservato che il cumulo di procedimenti e di sanzioni previsto da una normativa nazionale non deve superare i limiti di quanto idoneo e necessario al conseguimento degli scopi legittimi perseguiti dalla normativa di cui trattasi (fermo restando che, qualora sia possibile una scelta fra più misure appropriate, si deve ricorrere alla meno restrittiva).
La Corte ha, altresì, affermato che in assenza di armonizzazione del diritto dell'Unione in materia, gli Stati possono discrezionalmente stabilire se prevedere un unico procedimento di natura penale o amministrativa ovvero un doppio binario sanzionatorio. La scelta dello Stato membro interessato di prevedere la possibilità di un cumulo di procedimenti non è in sé significativa della lesione del criterio di proporzionalità, salvo altrimenti privare detto Stato della stessa libertà di scelta in proposito.
Precisamente, richiamando la direttiva 2003/6, si è detto che «la proporzionalità di una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, non può essere messa in dubbio per il solo fatto che lo Stato membro di cui trattasi abbia optato per la possibilità di un cumulo siffatto, a pena di privare detto Stato membro di tale libertà di scelta» (§ 49).
Ancora specificamente, sotto il profilo della proporzionalità, la disciplina interna, secondo la sentenza Garlsson, deve «prevedere l'obbligo per le autorità competenti, in caso di irrogazione di una seconda sanzione, di assicurarsi che la severità dell'insieme delle sanzioni inflitte non ecceda la gravità del reato accertato» (§ 56).
Ed infatti, il cumulo delle sanzioni deve essere accompagnato da norme che garantiscano che la severità dell'insieme delle sanzioni inflitte corrisponda alla gravità del reato, derivando tale obbligo dall'art. 52, par. 1, della Carta dei diritti fondamentali e dal principio di proporzionalità delle pene sancito dall'art. 49, par. 3, della stessa Carta.
Tali norme devono contemplare per le autorità procedenti, in caso di irrogazione di una seconda sanzione, il dovere di verificare che la severità del trattamento sanzionatorio complessivo non ecceda la gravità del reato.
7.6. La sentenza Di Puma e Zecca, infine, è anch'essa rilevante ai fini di questa decisione perché chiude una porzione della vicenda che ha riguardato direttamente il presente processo e stabilisce un principio valido qualora vi sia stata pronuncia assolutoria: si è stabilito, infatti, che l'art. 14, paragrafo 1, della direttiva 2003/6, letto alla luce dell'art. 50 della Carta, va interpretato nel senso che esso non osta a una normativa nazionale in forza della quale un procedimento inteso all'irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale non può essere proseguito a seguito di una sentenza penale definitiva di assoluzione che ha statuito che i fatti che possono costituire una violazione della normativa sugli abusi di informazioni privilegiate, sulla base dei quali era stato parimenti avviato tale procedimento, non erano provati.
7.7. In questo contesto devono essere inserite le ultime affermazioni rese dalla giurisprudenza di legittimità sul tema della verifica di violazioni del principio di ne bis in idem convenzionale.
La Cassazione, con una serie di decisioni relative al tema degli abusi di mercato successive alla sentenza A e B contro Norvegia della Corte EDU, ha dichiarato l'insussistenza della violazione del principio di bis in idem in presenza della oramai nota regola interpretativa della sufficiently close connection in substance and time e di una verifica della natura integrata della sanzione e proporzionata al disvalore del fatto (cfr. ex multis Sez. 2, n. 41007 del 22 maggio 2018, Bronconi, Rv. 274463; Sez. 3, n. 6993 del 22 settembre 2017, dep. 2018, Servello, Rv. 272588; Sez. 4, n. 12667 del 13 febbraio 2018, Palmieri, Rv. 272533; Sez. 2, n. 9184 del 2017, cit.).
Questa Sezione ha emesso sul tema tre importanti, recenti pronunce: Sez. 5, n. 49869 del 21 settembre 2018, Chiarion, Rv. 274604, che chiude la vicenda del processo (relativo a reati di abuso di informazioni privilegiate previsto dall'art. 184, comma 1, lett. b, TUF) da cui era sorta anche la questione di legittimità costituzionale, poi dichiarata inammissibile con sentenza n. 102 del 2016, Corte cost.; Sez. 5, n. 45829 del 16 luglio 2018, Franconi, Rv. 274179, riferita ad un'ipotesi di aggiotaggio manipolativo, prevista dall'art. 185 TUF; Sez. 5, n. 5679 del 19 novembre 2019 [recte: 9 novembre 2018 - n.d.r.], Erbetta, Rv. 275314 che ha applicato i criteri elaborati dalle Corti europee nell'ambito peculiare di un patteggiamento per una fattispecie di manipolazione del mercato sanzionata sia penalmente, ai sensi dell'art. 185 TUF, che in seguito a procedimento Consob, ai sensi dell'art. 187-ter TUF.
Tutte e tre le pronunce citate giungono a condividere ed adottare gli approdi delle sentenze Grande Chambre, A e B contro Norvegia del 15 novembre 2016 e della Corte di giustizia di Lussemburgo del marzo 2018 (in particolare, quelli delle pronunce Menci e Garlsson Real Estate).
Superata positivamente la verifica della compatibilità procedimentale tra i percorsi che hanno portato, da un lato, all'irrogazione della sanzione amministrativa "sostanzialmente penale" in via definitiva e, dall'altro, ad infliggere la pena in relazione alla quale vi è ricorso, ovvero alla valutazione sulla sufficiently close connection in substance and time, le tre pronunce si concentrano - ciascuna ovviamente nei propri ambiti e fattispecie - sulla seconda piattaforma di verifica indicata dalle Corti europee e dalla nostra Corte costituzionale: quella della analisi sulla proporzionalità della sanzione complessivamente irrogata, che postula l'esercizio di penetranti poteri del giudice chiamato a leggere la fattispecie concreta.
E così, la sentenza Franconi ha espressamente affermato il principio secondo cui l'irrogazione per il medesimo fatto sia di una sanzione penale che di una sanzione amministrativa definitiva, previste rispettivamente dagli artt. 185 e 187-ter d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, non determina la violazione del principio del ne bis in idem, a condizione che il cumulo delle sanzioni risulti proporzionale alla gravità del fatto commesso, in conformità ai principi espressi nelle sentenze della Corte di giustizia dell'Unione europea nella causa C-524/15, Menci; C-537/26, Garlsson Real Estate, nonché nella sentenza della Corte EDU A e B c. Norvegia del 15 novembre 2016).
Analizzando il nuovo art. 620, comma 1, lett. l), c.p.p., si afferma condivisibilmente la possibilità di sindacato da parte della Corte di cassazione, anche d'ufficio, sulla proporzionalità della sanzione complessiva integrata, sicché, in tema di abusi di mercato, il giudice di legittimità, qualora non sia necessario procedere ad ulteriori accertamenti di fatto e facendo riferimento ai criteri di cui all'art. 133 c.p. (eventualità che ricorreva nel caso di specie), può pronunciarsi sulla complessiva proporzionalità della sanzione "integrata".
Nel caso concreto, la Corte ha rigettato il ricorso dell'imputato, ritenendo che sia stato rispettato il criterio di proporzionalità del peso derivante dal cumulo delle sanzioni inflitte agli interessati rispetto alla gravità dei fatti addebitati, nonché il canone di una sanzione limitata, nella sua severità, allo "strettamente necessario", in modo da non risultare eccessivamente oneroso per i soggetti sanzionati (le sanzioni penali inflitte agli imputati si erano attestate nel minimo edittale per quanto riguarda la pena detentiva della reclusione e della multa; le sanzioni amministrative pecuniarie "di natura penale" applicate dalla Consob, pur essendo superiori al minimo, apparivano molto lontane dalla fascia sanzionatoria più elevata prevista dall'art. 187-ter ed altrettanto valeva per le sanzioni amministrative accessorie inflitte ai sensi dell'art. 187-quater: peraltro, nel caso di specie, la Corte ha dichiarato non eseguibili le sanzioni penali di natura pecuniaria, poiché inferiori nell'importo a quelle Consob già esatte, applicando il criterio compensativo previsto espressamente dall'art. 187-terdecies TUF, introdotto dal d.lgs. n. 107 del 2018).
La sentenza Erbetta, ultima in ordine di tempo delle tre pronunce citate, concordando sull'impostazione teorica seguita nei due precedenti (e risolvendo la questione di costituzionalità dell'art. 649 c.p.p. nel senso, già indicato poco sopra, della sua manifesta infondatezza, alla luce dei nuovi canoni di verifica dettati dalla giurisprudenza europea e costituzionale) ha rigettato il ricorso, statuendo che, nel caso di patteggiamento richiesto prima dell'entrata in vigore della l. 23 giugno 2017, n. 103, la Corte di cassazione può censurare il mancato proscioglimento dell'imputato per bis in idem ex art. 129 c.p.p., soltanto nell'ipotesi eccezionale in cui la sanzione amministrativa già inflitta ai sensi dell'art. 187-ter TUF sia commisurata in maniera tale da assorbire il disvalore della condotta, sia negli aspetti rilevanti a fini penali che in quelli posti a fondamento della complementare sanzione amministrativa, sicché il cumulo delle sanzioni risulti radicalmente sproporzionato (mentre nel caso di specie il ricorrente aveva riportato sanzioni prossime ai minimi edittali in ciascuno dei due procedimenti "connessi", ritenute proporzionate alla complessiva gravità del fatto scrutinata dal giudice del patteggiamento secondo i criteri di cui all'art. 133 c.p.).
Quanto alla pronuncia Chiarion, il Collegio condivide la sottolineatura circa l'esclusione delle sanzioni amministrative comminate per l'abuso di informazioni privilegiate dal "nucleo duro" del diritto penale, sicché, in relazione ad esse, il legislatore conserva la discrezionalità - purché questa non trasmodi in manifesta irragionevolezza - di configurare un trattamento sanzionatorio non sorretto dall'identico corpus di garanzie della sanzione penale in senso stretto (cfr. sent. n. 193 del 2016 Corte cost.; sent. n. 43 del 2018, cit. e sent. n. 43 del 2017 Corte cost., che ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale proposte in relazione all'art. 30, quarto comma, della l. 11 marzo 1958, n. 87 ed alla limitazione della sua portata normativa alle sole sentenze irrevocabili di condanna con le quali sia stata inflitta una sanzione penale nel significato proprio dell'ordinamento giuridico italiano, e non anche nel significato, più ampio, proprio del sistema convenzionale).
Si tratta di un tentativo di attenuare quella discrasia - già segnalata e, al momento, ancora ineluttabile - tra il nostro sistema ordinamentale, caratterizzato da una legalità penale di ordine formale, e la dimensione sostanzialistica dell'illecito penale adottata dalle Corti europee.
Il profilo della verifica sulla proporzionalità della sanzione inflitta è, invece, risolto dalla sentenza Chiarion in modo parzialmente differente da quello delle pronunce Franconi ed Erbetta.
La regula iuris che si enuncia per dar luogo a tale controllo di proporzionalità è coerente con quanto si afferma anche nella altre due decisioni già richiamate e, ovviamente, risponde ai criteri delle Corti europee e della Corte costituzionale: nella verifica della compatibilità con il principio del ne bis in idem del trattamento sanzionatorio complessivamente irrogato all'autore dell'abuso di mercato, il giudice comune deve valutare la proporzionalità del cumulo sanzionatorio rispetto al disvalore del fatto, da apprezzarsi con riferimento agli aspetti propri di entrambi gli illeciti (quello penale e quello "formalmente" amministrativo) e, in particolare, agli interessi generali sottesi alla disciplina degli abusi di mercato (anche sotto il profilo dell'incidenza del fatto sull'integrità dei mercati finanziari e sulla fiducia del pubblico negli strumenti finanziari), tenendo conto, con riguardo alla pena della multa, del meccanismo "compensativo" di cui all'art. 187-terdecies TUF.
Qualora detta valutazione dovesse condurre a ritenere il complessivo trattamento sanzionatorio lesivo della garanzia del ne bis in idem, nei termini sopra diffusamente richiamati, il giudice nazionale dovrà dare applicazione diretta al principio garantito dall'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, disapplicando, se necessario e, naturalmente, solo in mitius, le norme che definiscono il trattamento sanzionatorio.
La disapplicazione, secondo la motivazione della sentenza, potrà investire in toto la norma relativa alla sanzione non ancora divenuta irrevocabile solo quando la "prima" sanzione sia, da sola, proporzionata al disvalore del fatto, avuto riguardo anche agli aspetti propri della "seconda" sanzione e agli interessi generali sottesi alla disciplina degli abusi di mercato: infatti, solo in presenza di una sanzione irrevocabile idonea, da sola, ad "assorbire" il complessivo disvalore del fatto, il giudice comune dovrà disapplicare in toto la norma che commina la sanzione non ancora irrevocabile, così escludendone l'applicazione.
La sentenza Chiarion avverte, tuttavia, che quest'ultima eventualità costituisce senza dubbio un'ipotesi, che, considerata la già evidenziata estraneità della sanzione irrogata dall'autorità amministrativa al nucleo più incisivo del diritto sanzionatorio, rappresentato dal diritto penale, è potenzialmente suscettibile di venire in rilievo nel caso in cui la valutazione circa la violazione del ne bis in idem riguardi la sanzione amministrativa, essendo già divenuta irrevocabile quella penale (e cioè proprio l'ipotesi presa in considerazione dalla sentenza Garlsson Real Estate). Mentre, nel caso opposto in cui (come nella fattispecie trattata e come in quella oggi sottoposta al Collegio dall'imputato R.) la sanzione divenuta irrevocabile sia quella irrogata da Consob, la disapplicazione in toto della norma sanzionatoria penale può venire in rilievo in ipotesi del tutto eccezionali, in cui la sanzione amministrativa - evidentemente attestata sui massimi edittali in rapporto ad un fatto di consistente gravità - risponda, da sola, al canone della proporzionalità nelle diverse componenti riconducibili ai due illeciti.
Fuori dall'ipotesi - definita eccezionale - appena richiamata, l'accertamento dell'incompatibilità del trattamento sanzionatorio complessivamente irrogato rispetto alla garanzia del ne bis in idem comporta, nel caso di sanzione amministrativa già divenuta irrevocabile, esclusivamente la rideterminazione delle sanzioni penali attraverso la disapplicazione in mitius della norma che commina dette sanzioni non già in toto, ma solo nel minimo edittale e con il limite insuperabile, quanto alla reclusione, dettato dall'art. 23 c.p.; quanto alla multa, imposto dal meccanismo "compensativo" di cui all'art. 187-terdecies TUF.
A tale apprezzamento di "non necessità della disapplicazione totale" e di "necessità", invece, "di una eventuale rimodulazione in melius della sanzione penale inflitta" può provvedere - secondo la sentenza in commento e in base all'analoga prospettiva seguita anche dalla pronuncia n. 45829 del 2018 - lo stesso giudice di legittimità, sulla base degli elementi di fatto già accertati (cfr. l'interpretazione dell'art. 620, comma 1, lett. l), c.p.p., da ultimo autorevolmente data da Sez. un., n. 3464 del 30 novembre 2017, dep. 2018, Matrone, Rv. 271831).
Tuttavia, nel caso Chiarion, la Quinta Sezione rileva che non sussistono le condizioni per procedere essa stessa alla rideterminazione della pena inflitta nel giudizio d'appello, essendo impossibile procedere ad un diretto apprezzamento della complessiva proporzionalità del trattamento sanzionatorio alla luce degli atti, sicché pronuncia un annullamento con rinvio per nuovo esame alla Corte d'Appello, che dovrà provvedervi, secondo le indicazioni della stessa sentenza, alla luce dei parametri commisurativi enunciati dalle Corti europee e sussumibili nella valutazione di cui all'art. 133 c.p.
8. Orbene, il Collegio ritiene di dover condividere, per quanto sinora esposto, l'impostazione delle tre sentenze di questa stessa Sezione - ed in particolare della pronuncia Chiarion - anche in tema di insider trading, fattispecie penale prevista dall'art. 184 TUF, e di illecito amministrativo ad essa specularmente posto dall'art. 187-bis c.p. (oggi riformulato dal d.lgs. n. 107 del 2018 con il richiamo all'art. 14 MAR).
Nessun dubbio, per l'ipotesi di insider trading, che i procedimenti penale ed amministrativo sorti sui medesimi fatti, essendo del tutto sovrapponibili le contestazioni nella loro materialità e rispondendo ai criteri sopra enunciati di derivazione dalla giurisprudenza convenzionale, siano collegati secondo il criterio della sufficiently close connection in substance and time.
In relazione ad essi, pertanto, valutata positivamente la compatibilità convenzionale delle procedure parallele di doppio binario, andrà verificata la proporzionalità della sanzione complessivamente inflitta rispetto al disvalore dei fatti commessi, al fine di stabilire se detta sanzione deve essere riproporzionata (operando, ovviamente, sulla porzione ancora sub iudice che nella specie è quella penale) ovvero addirittura il riproporzionamento debba sfociare in una vera e propria disapplicazione totale della sanzione inflitta per seconda, qualora la prima sanzione definitiva - quella amministrativa sostanzialmente penale - sia assorbente l'intero disvalore.
Deve affermarsi, pertanto, il principio secondo cui, anche in tema di insider trading e ne bis in idem, la disapplicazione della disciplina penale potrà avere luogo soltanto nell'ipotesi in cui la sanzione amministrativa già inflitta in via definitiva sia strutturata in maniera e misura tali da assorbire completamente il disvalore della condotta ("coprendo" sia aspetti rilevanti a fini penali che a fini amministrativi e, in particolare, offrendo tutela complessivamente e pienamente adeguata e soddisfacente all'interesse protetto dell'integrità dei mercati finanziari e della fiducia del pubblico negli strumenti finanziari), poiché in tal caso il cumulo delle sanzioni risulta radicalmente sproporzionato e contrario ai principi sanciti dagli artt. 50 CDFUE e 4 Prot. n. 7 CEDU, come interpretati dalle Corti europee (Corte EDU, GC, A e B contro Norvegia del 2016 e CGUE, Grande Sezione, Menci (C-524/15), Garlsson Real Estate SA e altri contro Consob (C-537/16) e Di Puma contro Consob e Consob contro Zecca (cause riunite C-596/16 e C-597/16).
Nel valutare la proporzionalità della sanzione dovrà tenersi conto, con riguardo alla pena della multa, del meccanismo "compensativo" previsto dall'art. 187-terdecies TUF, secondo cui, quando per lo stesso fatto è stata applicata a carico del reo o dell'ente una sanzione amministrativa pecuniaria ai sensi dell'art. 187-septies, la esazione della pena pecuniaria e della sanzione pecuniaria dipendente da reato è limitata alla parte eccedente quella riscossa dall'autorità amministrativa. L'art. 187-terdecies, pur essendo una norma dai limitati effetti, che risolve il problema del doppio binario sanzionatorio soltanto dal punto di vista della sanzione pecuniaria complessivamente irrogata, tuttavia dovrà essere tenuto in conto al momento di commisurare la pena pecuniaria in sede penale, una volta divenuta definitiva la sanzione pecuniaria amministrativa.
Ovviamente, la rimodulazione del trattamento sanzionatorio dovrà essere compiuta mediante una verifica complessiva che attenga sia alla pena principale che alla confisca ex art. 187 TUF ed alle pene accessorie.
In particolare, quanto alla confisca da reato, dovrà tenersi conto della necessità di ottenere un risultato sanzionatorio che complessivamente non esorbiti da criteri di ragionevolezza e sproporzione rispetto al disvalore in sé del fatto, avuto riguardo in special modo alla porzione confiscata riferita al capitale investito.
Il Collegio condivide, altresì, al fine di procedere alla valutazione sul rapporto tra afflittività globale della sanzione integrata e disvalore del fatto commesso, il richiamo ai parametri normativi previsti dall'art. 133 c.p., utili a (ri)proporzionare la sanzione complessivamente inflitta, tenendo conto di un "allargamento" dell'oggetto di tali valutazioni, che, per un verso, devono essere estese al trattamento sanzionatorio inteso come comprensivo anche della sanzione formalmente amministrativa e, per altro verso, devono investire il fatto commesso nei diversi aspetti propri dei due illeciti (quello penale e quello "formalmente" amministrativo).
Ebbene, con riferimento alla sanzione inflitta a Ruggero R. (così come per il caso Chiarion), è necessario che una simile valutazione complessa, inevitabilmente ancorata a parametri di merito, sia condotta dal giudice di merito, cui va rinviata, pertanto, la questione della verifica della complessiva proporzionalità della sanzione inflitta al ricorrente, derivata dal cumulo della pesante afflittività generata dagli esiti del procedimento Consob e del processo penale: egli dovrà tener conto dell'incidenza negativa sulla fiducia degli investitori nei mercati e sulla lesione provocata al bene dell'integrità e trasparenza del mercato, nonché di tutti i fattori soggettivi ed oggettivi ulteriori che possono influire sul rapporto sanzione/disvalore del fatto (cfr., in termini analoghi, in seguito alla sentenza CGUE Garlsson cit., la decisione di annullamento con rinvio emessa dalla Sezione Tributaria della Cassazione civile con la sentenza n. 27564 del 30 ottobre 2018).
Nel processo penale, l'imputato è stato condannato alla pena di anni due di reclusione e alla multa di 50.000 euro, nonché alla interdizione dai pubblici uffici e dalle funzioni direttive di persone giuridiche ed imprese e dell'incapacità di contrattare con la P.A. per la durata di due anni, oltre al risarcimento dei danni in favore della parte civile Consob, quantificati (per la lesione del bene dell'integrità del mercato) in via equitativa in 100.000 euro, ed in favore della parte civile Deloitte FAS s.p.a., quantificati anch'essi in via equitativa in 355.000 euro.
È stata inoltre disposta la confisca, ai sensi dell'art. 187 TUF, della somma di 1.324.736 euro, sequestrata all'imputato, equivalente al prodotto ed al profitto del reato, ma anche ai beni utilizzati per commetterlo (in questo caso i capitali investiti dal ricorrente per operare sui titoli).
Gli è stata concessa la sospensione condizionale sia della pena principale che di quelle accessorie.
Nella procedura amministrativa, il ricorrente ha subito una sanzione definitiva del cui tenore complessivo altamente afflittivo non può dubitarsi, sicché ad essa sicuramente è riconducibile il paradigma di matrice convenzionale delle "sanzioni amministrative sostanzialmente penali": le sanzioni inflitte in concreto consistono, infatti in una sanzione amministrativa pecuniaria di euro 150.000 ai sensi dell'art. 187-bis TUF (per la vicenda OPA Marazzi Group); una sanzione amministrativa pecuniaria di euro 150.000 ai sensi dell'art. 187-bis TUF (per la vicenda OPA Guala Closures); una sanzione amministrativa pecuniaria di euro 225.000 ai sensi dell'art. 187-bis TUF (per la vicenda acquisizione controllo Permasteelisa); una sanzione amministrativa accessoria interdittiva, disposta ai sensi dell'art. 187-quater, comma 1, TUF ed inflitta per un periodo di mesi nove.
Infine, si è disposta la confisca dei beni oggetto di sequestro, per 1.193.914 euro, ai sensi dell'art. 187-sexies d.lgs. n. 58 del 1998.
Tale somma, peraltro, potrà, nella sede competente, essere riparametrata ai dicta della Corte costituzionale che, con la citata sentenza n. 112 del 2019 (adottata il 6 marzo 2019 e depositata il 10 maggio 2019, nelle more della stesura del presente provvedimento), ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, nel testo originariamente introdotto dall'art. 9, comma 2, lett. a), della l. 18 aprile 2005, n. 62, nella parte in cui prevede la confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, del prodotto dell'illecito e dei beni utilizzati per commetterlo, e non del solo profitto; ha dichiarato, in via consequenziale, ai sensi dell'art. 27 della l. 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l'illegittimità costituzionale dell'art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, nella versione risultante dalle modifiche apportate dall'art. 4, comma 14, del d.lgs. 10 agosto 2018, n. 107, recante «Norme di adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) n. 596/2014, relativo agli abusi di mercato e che abroga la direttiva 2003 giugno CE e le direttive 2003/124/UE, 2003/125/CE e 2004/72/CE», nella parte in cui prevede la confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, del prodotto dell'illecito, e non del solo profitto.
Dunque, nel caso di specie, in sede di giudizio di rinvio, il confronto tra le sanzioni "doppie" inflitte nella procedura amministrativa definitiva ed in quella penale andrà rivisto tenendo conto anzitutto delle sanzioni principali inflitte in ciascun procedimento, valutando il cumulo della loro afflittività rispetto al disvalore complessivo del fatto anche alla luce del comportamento collaborativo dell'imputato e della episodicità della sua condotta in una carriera sinora sempre improntata alla correttezza professionale, circostanze delle quali dà atto la Corte d'Appello.
Dovrà tenersi conto, altresì, delle conseguenze che la sentenza della Corte costituzionale avrà sulla confisca amministrativa già passata in giudicato, da cui dovrà essere espunta la quota sanzionatoria riferita al prodotto dell'illecito, lasciando in piedi il solo profitto di esso (vale a dire il guadagno effettivo al netto, calcolato dalla vendita delle azioni di ciascuna società, successiva al loro acquisto indebito tramite abuso in informazioni privilegiate).
Infine, andrà adottato il meccanismo compensativo previsto dall'art. 187-terdecies essendo già evidente che la sanzione pecuniaria complessivamente inflitta in sede amministrativa (450.000 euro) è di gran lunga superiore alla sanzione pecuniaria che segue al reato (pari a 50.000 euro di multa).
Le indicazioni per il giudice del rinvio, peraltro, non sarebbero complete se non si chiudesse il cerchio aperto con l'iniziale esposizione del principio di diritto cui attenersi. L'ipotesi della disapplicazione in toto della sanzione penale che "doppi" quella amministrativa già inflitta, intervenendo "da seconda" dopo il passaggio in giudicato di quest'ultima, è rara (là dove i tre precedenti di questa Sezione ne rammentano addirittura l'eccezionalità).
Deve aggiungersi che, per quanto rara, l'ipotesi non è relegata entro ambiti paradossali e che, proprio in una materia come quella degli abusi di mercato, in cui l'apparato sanzionatorio penale fa spesso eco alla severità draconiana delle sanzioni amministrative per prime inflitte, il giudice di merito - o quello di legittimità, ricorrendo le condizioni previste dall'art. 620, comma 1, lett. l) - ha il dovere, nella valutazione dell'afflittività complessiva della sanzione "integrata", di spingersi oltre la verifica meramente quantitativa o legata alle pur evidenti e pressanti ragioni di tutela dell'interesse generale alla trasparenza ed integrità dei mercati e, con essi, dei sistemi economici, valorizzando parimenti quelle esigenze di garanzia individuale delle quali le Corti europee lo hanno eletto primo custode.
In questo compito, al giudice penale non devono essere di ostacolo né il principio di obbligatorietà dell'azione penale ex art. 112 Cost., che non può operare come una sorta di generalizzata preclusione al "recepimento", nell'ordinamento interno, della riconducibilità nel genus della sanzione penale, così come delineato dalla CEDU, di sanzioni formalmente non qualificate come tali, né il già evocato criterio di legalità sulle cui basi si fonda la teoria dell'illecito penale nel nostro ordinamento, che pure non può essere invocato per giustificare una indiscriminata preclusione alla conformazione del diritto interno al diritto dell'Unione europea in materia penale (cfr., per tale impostazione, la sentenza Chiarion citata).
Si rammenti, altresì, che la Corte costituzionale, con l'ordinanza n. 48 del 2017, ha ribadito il consolidato orientamento secondo cui l'art. 11 della Costituzione impone al giudice nazionale di dare piena e immediata attuazione alle norme dell'Unione europea provviste di efficacia diretta e non applicare, in tutto o anche solo in parte, le norme interne ritenute con esse inconciliabili, fatti salvi i limiti del rispetto dei principi fondamentali dell'ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona, certamente salvaguardati dall'assetto del ne bis in idem e dei compiti di accertamento riconosciuti al giudice penale.
9. La sentenza impugnata, pertanto, deve essere annullata con rinvio, limitatamente al trattamento sanzionatorio, ad altra Sezione della Corte di appello di Milano, che procederà alla verifica indicata in ordine alla proporzionalità del complessivo trattamento sanzionatorio irrogato al ricorrente, valutando, tra l'altro, l'incidenza del fatto sull'integrità e trasparenza del mercato finanziario e sulla fiducia del pubblico negli strumenti finanziari, ma anche la complessiva condotta del ricorrente e si uniformerà, nel quadro offerto dalla pronunce della Corte di giustizia e dalla Corte EDU, ai princìpi di diritto richiamati e compendiati ai punti 7 e 8 della pronuncia rescindente.
Nel resto il ricorso deve essere rigettato.
Quanto alle spese del presente giudizio in favore della parte civile, il loro regolamento va altresì devoluto in sede di giudizio definitivo.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio con rinvio per nuovo esame ad altra Sezione della Corte d'Appello di Milano.
Rigetta nel resto.
Spese della parte civile al definitivo.
Depositata il 30 settembre 2019.