Corte di cassazione
Sezione III penale
Sentenza 18 giugno 2019, n. 41056

Presidente: Izzo - Estensore: Andronio

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 15 novembre 2018, la Corte d'appello di Milano ha parzialmente confermato la sentenza del Tribunale di Milano del 15 gennaio 2018, con la quale l'imputato era stato condannato, alla pena di sei mesi e dieci giorni di reclusione ed euro 300,00 di multa, per il reato di cui all'art. 81, secondo comma, c.p., e all'art. 2 del d.l. n. 463 del 1983, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 638 del 1983, perché, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, nella sua veste di legale rappresentante della "Argentea Società Cooperativa", non aveva versato all'Inps le ritenute previdenziali e assistenziali operate sulle retribuzioni dei propri dipendenti dal febbraio al dicembre 2012, per un importo complessivo di euro 23.675,19. La Corte territoriale, ritenuta l'unità della condotta, ha rideterminato la pena, in relazione all'intera annualità, in tre mesi di reclusione ed euro 200,00 di multa.

2. Avverso la sentenza l'imputato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, lamentando: 1) la violazione della disposizione incriminatrice, nonché vizi della motivazione, sul rilievo che i due avvisi di accertamento (il primo, relativo alle mensilità di febbraio, marzo e maggio; il secondo, relativo alle mensilità residue) sarebbero stati inviati al suo domicilio anziché presso la sede della persona giuridica, con la conseguenza che l'azione penale sarebbe stata promossa in mancanza di una condizione di procedibilità; 2) la violazione della disposizione incriminatrice, nonché dell'art. 25 del d.lgs. n. 46 del 1999, per la tardiva iscrizione a ruolo di una parte del credito previdenziale, con conseguente mancato superamento della soglia di punibilità annuale, dovendosi ritenere l'iscrizione a ruolo quale necessario presupposto per l'invio della diffida.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso è inammissibile.

3.1. Il primo motivo di impugnazione, relativo alla notificazione degli avvisi di accertamento, è manifestamente infondato. Il ricorrente non nega che dette notificazioni si siano regolarmente perfezionate presso la sua residenza-domicilio per compiuta giacenza, rispettivamente nelle date del 5 ottobre 2012 e del 30 marzo 2015, come accertato nella sentenza impugnata, ma si limita a richiamare la sentenza Cass., Sez. 3, n. 6378 del 4 dicembre 2013, dep. 11 febbraio 2014, Rv. 258077-01, che, a suo dire imporrebbe la notificazione presso la sede della società, precludendo quella presso il domicilio del legale rappresentante. La sentenza richiamata si riferisce, però, al particolare caso - evidentemente diverso da quello di specie - dell'invalidità della notifica dell'avviso di accertamento da parte dell'Ente presso la sede della società qualora la persona fisica penalmente responsabile sia cessata dalla carica di amministratore. Inoltre, la censura del ricorrente non tiene conto della giurisprudenza di questa Corte, la quale ha più volte affermato che, in tema di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali, non sono necessarie particolari formalità per la notifica dell'accertamento; con la conseguenza che la comunicazione della contestazione al contravventore è validamente perfezionata anche in caso di notificazione dell'atto effettuata mediante raccomandata con ricevuta di ritorno, perfezionatasi per compiuta giacenza, dando luogo ad una presunzione legale di conoscenza che può essere vinta ove il contravventore provi di non avere avuto, senza colpa, notizia dell'atto, mediante la dimostrazione di un fatto o di una situazione, non superabile con l'ordinaria diligenza, che spezzi o interrompa in modo duraturo il collegamento fra il destinatario ed il luogo di destinazione della comunicazione (ex plurimis, Sez. 3, n. 43250 del 20 luglio 2016, Rv. 267938-01; Sez. 3, n. 52026 del 21 ottobre 2014, Rv. 261287-01). Tali principi trovano applicazione anche nel caso di specie, in cui il ricorrente non solo non ha dimostrato, ma non ha neanche prospettato la mancanza di conoscenza dell'avvenuta notificazione, regolare sul piano formale.

3.2. Il secondo motivo - con cui si deduce l'efficacia preclusiva della mancata tempestiva iscrizione a ruolo del credito previdenziale rispetto all'invio dell'avviso di accertamento - è inammissibile. Esso si basa, infatti, [su] una prospettazione puramente ipotetica, secondo cui, poiché l'INPS non aveva comunicato il momento in cui era stata effettuata l'iscrizione a ruolo delle somme, non vi era prova del rispetto del relativo termine decadenziale; con l'ulteriore conseguenza che la diffida di cui all'art. 2, comma 1-bis, del d.l. n. 463 del 1983 non sarebbe stata possibile. In altri termini, è lo stesso ricorrente ad ammettere di non sapere quando l'iscrizione a ruolo sia avvenuta, attribuendo all'amministrazione previdenziale un onere non previsto dalla legge penale, ovvero quello di comunicare all'interessato, non solo l'avviso di accertamento ma anche l'iscrizione a ruolo del credito, che sarebbe prodromica rispetto a tale avviso. E la prospettazione difensiva è manifestamente erronea anche in relazione a tale ultimo profilo. Infatti, gli artt. 24 e 25 del d.lgs. n. 46 del 1999, che stabiliscono l'iscrizione a ruolo dei crediti degli enti pubblici previdenziali e i relativi termini di decadenza, disciplinano la fase della riscossione mediante ruolo, che è successiva rispetto a quella dell'accertamento e della richiesta di versamento a norma del richiamato art. 2, comma 1-bis, del d.l. n. 463 del 1983, il quale esclude la punibilità nel caso di «versamento delle ritenute entro tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell'avvenuto accertamento della violazione». Deve, dunque, affermarsi il seguente principio di diritto: «La contestazione e la notifica dell'avvenuto accertamento della violazione, di cui all'art. 2, comma 1-bis, del d.l. n. 463 del 1983, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 638 del 1983, prescindono dall'iscrizione a ruolo dei relativi crediti ai sensi degli artt. 24 e 25 del d.lgs. n. 46 del 1999, perché tale iscrizione attiene al successivo procedimento di riscossione e non può assumere, perciò, rilevanza a fini penali».

4. Il ricorso, conseguentemente, deve essere dichiarato inammissibile. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 c.p.p., l'onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 2.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

Depositata il 7 ottobre 2019.