Consiglio di Stato
Sezione VI
Sentenza 11 novembre 2019, n. 7699

Presidente: Santoro - Estensore: Lageder

FATTO

1. L'Autorità garante della concorrenza e del mercato (d'ora innanzi anche AGCM), con provvedimento n. 23357 del 6 marzo 2012 ha irrogato alla società Vodafone Omnitel N.V. (d'ora in avanti, "Vodafone" o "Società"), in qualità di professionista ai sensi dell'art. 18, lett. b), d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (recante «Codice del consumo, a norma dell'articolo 7 della legge 29 luglio 2003, n. 229»), la sanzione pecuniaria di euro 250.000 in applicazione dell'art. 20, commi 2 e 3, codice del consumo, per avere posto in essere una pratica commerciale scorretta ai sensi degli artt. 20, 24, 25 e 26, lett. f), dello stesso codice.

La condotta sanzionata consiste nell'avere la Società nei propri punti di vendita commercializzato carte Subscriber Identity Module (modulo d'identità dell'abbonato, d'ora in poi SIM), sulle quali erano preimpostati servizi di navigazione internet e di segreteria telefonica, i cui costi venivano addebitati all'utente se non disattivati su espressa richiesta di questi (attraverso il meccanismo c.d. di option-out o opt-out, secondo cui il destinatario di una comunicazione commerciale non desiderata ha la possibilità di rifiutare di ricevere ulteriori invii in futuro), e ciò senza aver reso edotto il consumatore dell'esistenza della preimpostazione di tali servizi e della loro onerosità.

In particolare, con il provvedimento l'Autorità ha sanzionato la Società per aver attivato i suddetti servizi sulle SIM vendute senza aver previamente acquisito il consenso del consumatore e senza averlo reso edotto dell'esistenza della preimpostazione di tali servizi e della loro onerosità, così esponendolo ad eventuali addebiti inconsapevoli connessi alla navigazione internet e al servizio di segreteria telefonica.

Questa condotta, posta in essere «quantomeno dal marzo 2010» (v. paragrafo 50 del provvedimento), è stata qualificata dall'Autorità come pratica commerciale aggressiva ai sensi degli artt. 24, 25 e 26, lett. f), codice del consumo, in quanto «idonea a determinare un indebito condizionamento tale da limitare considerevolmente, e in alcuni casi addirittura escludere, la libertà di scelta degli utenti in ordine all'utilizzo e al pagamento dei servizi preimpostati, quali la segreteria telefonica e la navigazione internet, determinando, inoltre, una possibile decurtazione automatica derivante dalla fruizione di servizi onerosi che il consumatore non ha richiesto in maniera consapevole e di cui non ha avuto la possibilità di scegliere consapevolmente, anche con riferimento al profilo tariffario più aderente alle proprie esigenze» (v. paragrafo 43 del provvedimento), ed in quanto «non conforme al grado di ordinaria diligenza ragionevolmente esigibile da operatori attivi nel settore della telefonia in considerazione delle significative asimmetrie che caratterizzano il rapporto tra professionisti e consumatori e che impongono ai primi, nel definire le modalità di esercizio della propria attività commerciale, una declinazione particolarmente stringente dei generali obblighi di buona fede e correttezza» (v. paragrafo 44 del provvedimento).

2. La società ha impugnato tale provvedimento innanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, Sede di Roma, che, con la sentenza in epigrafe (n. 1742 del 18 febbraio 2013), ha accolto il ricorso.

In particolare, il Tribunale ha ritenuto fondato il primo motivo di ricorso, con cui Vodafone contestava la competenza dell'AGCM ad emettere il provvedimento impugnato, invocando il principio di specialità di cui all'art. 19, comma 3, codice del consumo, ai sensi del quale la normativa generale dettata da tale codice in materia di pratiche commerciali scorrette doveva ritenersi inapplicabile al caso sub iudice (il citato comma 3 dell'art. 19 statuisce testualmente: «In caso di contrasto, le disposizioni contenute in direttive o in altre disposizioni comunitarie e nelle relative norme nazionali di recepimento che disciplinano aspetti specifici delle pratiche commerciali scorrette prevalgono sulle disposizioni del presente titolo e si applicano a tali aspetti specifici»).

La censura muoveva dall'assunto che la condotta contestata con il provvedimento impugnato fosse disciplinata da una normativa speciale e di derivazione europea - concernente il settore delle comunicazioni elettroniche e difforme dalla normativa generale sulle pratiche concorrenziali scorrette - che attribuiva in via esclusiva la competenza all'AGCOM, la quale, si sosteneva, dispone di significativi poteri sanzionatori, inibitori e conformativi nella tutela apprestata agli utenti dei servizi di comunicazione elettronica, con la conseguenza che, in corretta attuazione del principio di specialità sancito dalla richiamata disposizione del codice del consumo, doveva ritenersi esclusa l'applicabilità della generale disciplina sulle pratiche concorrenziali scorrette e dunque la stessa competenza dell'AGCM.

Il Tribunale amministrativo regionale ha, in primo luogo, richiamato - ritenendone la rilevanza nella vicenda all'esame - quanto affermato dall'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con le sentenze nn. 11-16 dell'11 maggio 2012 sul tema del rapporto tra normativa generale in materia di tutela del consumatore e disciplina di settore delle comunicazioni elettroniche, con particolare riguardo al principio di specialità sancito dalla direttiva 2005/29/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio [Direttiva relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno e che modifica la direttiva 84/450/CEE del Consiglio e le direttive 97 luglio CE, 98/27/CE e 2002/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e il regolamento (CE) n. 2006/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio («direttiva sulle pratiche commerciali sleali»)], quale strumento di composizione in caso di sovrapposizione di discipline di diversa fonte e portata. Il Tribunale amministrativo ha rilevato, ancora con richiamo alla giurisprudenza (consultiva) del Consiglio di Stato (parere della I Sezione, 3 dicembre 2008, n. 3999), come la disciplina delle pratiche commerciali scorrette non possa trovare applicazione quando, in una specifica materia, sussista una disciplina speciale di settore che regolamenti puntualmente e compiutamente il contenuto degli obblighi di correttezza, sotto il profilo informativo e di condotta, e definisca anche i relativi poteri ispettivi, inibitori e sanzionatori, attribuendoli ad una Autorità indipendente.

Con riguardo al provvedimento impugnato, la sentenza ha ritenuto che l'AGCM avesse sanzionato condotte la cui repressione è dall'ordinamento affidata, in virtù di specifiche disposizioni normative, ad altro soggetto pubblico, ossia all'AGCOM, istituzionalmente «preposta alla cura e alla salvaguardia dell'interesse pubblico primario della tutela del consumatore nel settore specifico delle comunicazioni elettroniche, e tanto, sulla base di fonti normative che, da un lato, inequivocabilmente le conferiscono competenza esclusiva in materia, dall'altro ne disciplinano in dettaglio i poteri di intervento (nella specie, l'art. 3 della delibera 664/06/Cons, che non vieta direttamente l'automatica predisposizione delle carte SIM alla prestazione dei servizi in esame, bensì la fornitura di servizi non richiesti)» (v. così, testualmente, la sentenza del Tribunale amministrativo regionale).

Sotto altro profilo, la sentenza ha ritenuto che - trattandosi di modalità di vendita delle SIM presso i punti vendita Vodafone, ed in particolare dell'utilizzo del modulo dell'opt out - l'AGCM si sia arrogata l'esercizio di una potestà regolamentare che non le competeva, «sia sotto il profilo tecnico delle modalità concrete di prestazione dei servizi sia sotto quello dei rapporti interprivati posti in essere dall'operatore telefonico con i propri utenti. Ciò in quanto il provvedimento impugnato, nel vietare la diffusione o continuazione della pratica commerciale descritta, nella sostanza vieta l'utilizzo di determinate modalità di commercializzazione delle carte SIM, in tal modo venendo a porre a carico dell'operatore telefonico una regola di comportamento sconosciuta alla regolazione settoriale e alla stessa legislazione consumeristica, e tanto, nell'esercizio di un potere che esula dalle attribuzioni dell'Antitrust» (v. così, testualmente, la sentenza del Tribunale amministrativo regionale).

Il Tribunale adìto ha pertanto annullato l'impugnata deliberazione.

3. Avverso tale sentenza interponeva appello l'AGCM, deducendo la violazione ed erronea applicazione degli artt. 70, 71 e 98 del d.lgs. 1° agosto 2003, n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche), dell'art. 1 del d.l. 31 gennaio 2007, n. 7, convertito nella l. 2 aprile 2007, n. 40, degli artt. 18-27 del codice del consumo, degli artt. 3, paragrafo 4, e 11 della direttiva n. 2005/29/CE e degli artt. 19, comma 3, del codice del consumo e 23, comma 12-quinquiesdecies, del d.l. 6 luglio 2012, n. 95, convertito nella l. 7 agosto 2012, n. 135 (quest'ultima disposizione è stata abrogata nelle more del presente giudizio dall'art. 1, comma 7, del d.lgs. 21 febbraio 2014, n. 21).

In particolare, secondo l'Autorità appellante in primo luogo sarebbe viziata da travisamento l'affermazione del Tribunale amministrativo secondo cui l'AGCM avrebbe illegittimamente esercitato un potere regolatorio attraverso l'introduzione del divieto di vendite abbinate (traffico voce e navigazione internet), dal quale sarebbe disceso l'obbligo per Vodafone di commercializzare anche carte SIM abilitate esclusivamente alla telefonia vocale. Infatti, la sentenza impugnata avrebbe erroneamente attribuito natura regolatoria alla diffida con cui, accertata la pratica commerciale scorretta, l'AGCM si era limitata ad inibire al professionista la continuazione di una tale condotta [di per sé aggressiva, in quanto avente le caratteristiche di una fornitura non richiesta ai sensi dell'art. 26, lett. f), codice del consumo], senza introdurre alcuna nuova regola.

In secondo luogo, la sentenza sarebbe errata nella parte in cui interpreta il principio di specialità - sancito dall'art. 19, comma 3, codice del consumo, e, ancor prima, dall'art. 3, paragrafo 4, della direttiva n. 2005/29/CE - ritenendo l'incompetenza dell'AGCM «ad intervenire in applicazione delle disposizioni generali, a prescindere dalla verifica circa l'esistenza di un effettivo contrasto tra discipline e anche con riferimento ad aspetti non coperti in modo specifico dalla disciplina speciale». Il principio di specialità dovrebbe, invece, essere inteso nel senso che la disciplina speciale di derivazione comunitaria potrebbe trovare applicazione solo in caso di verificato contrasto con quella generale e a condizione che tale disciplina si occupi di aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali, regolando una fattispecie omogenea a quella individuata dalla normativa generale, ma da quella distinta per un elemento specializzante, di aggiunta o di specificazione della fattispecie stessa. L'Autorità appellante sostiene al riguardo che la normativa di settore invocata dal giudice di primo grado per radicare la competenza dell'AGCOM non sarebbe applicabile al caso di specie, in quanto difetterebbe sia del carattere di esaustività e completezza in relazione al comportamento sanzionato (requisito necessario alla luce del principio di specialità affermato nelle sentenze nn. 11-16 dell'11 maggio 2012 dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato), sia dell'ulteriore requisito consistente nella derivazione comunitaria di tale normativa (condizione necessaria per l'applicazione del menzionato principio di specialità).

L'Autorità appellante chiedeva dunque, in riforma dell'impugnata sentenza, la reiezione del ricorso di primo grado, previo eventuale rinvio alla Corte di giustizia dell'Unione europea, ai sensi dell'art. 267 TFUE, della questione concernente l'interpretazione dell'art. 3, paragrafo 4, della direttiva 2005/29/CE.

3.1. Si costituiva in giudizio l'appellata Vodafone, contestando la fondatezza dell'appello e chiedendone la reiezione, nonché riproponendo espressamente, ai sensi dell'art. 101 c.p.a., le censure dedotte nel ricorso di primo grado.

3.2. Si costituiva in giudizio anche Telecom Italia s.p.a. - intervenuta ad opponendum in primo grado -, chiedendo la reiezione dell'appello e la conferma dell'impugnata sentenza.

3.3. Sebbene ritualmente evocata in giudizio, ometteva di costituirsi l'Associazione Altroconsumo.

4. Questa Sezione, con ordinanza 18 settembre 2015, n. 4352, ha rimesso la risoluzione della questione interpretativa relativa all'art. 19, comma 3, cod. cons., all'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, ai sensi dell'art. 99 c.p.a.

4.1. L'Adunanza plenaria, con sentenza 9 febbraio 2016, n. 3, ha ritenuto che la competenza debba essere riconosciuta all'Autorità garante della concorrenza per le ragioni indicate nella parte motiva.

5. Nella prosecuzione del giudizio, questa Sezione, con ordinanza 17 gennaio 2017, n. 168 (nonché con ordinanza n. 167 di pari data, emessa nella causa parallela sub r.g. n. 2827/2018), ha disposto un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell'Unione europea ponendo i seguenti quesiti: i) se la condotta concreta posta in essere nella specie possa essere qualificata come «pratica commerciale scorretta»; ii) se la nozione di «contrasto» possa ritenersi integrata «solo in caso di radicale antinomia tra le disposizioni della normativa sulle pratiche commerciali scorrette e le altre norme di derivazione europea che disciplinano specifici aspetti settoriali delle pratiche commerciali» oppure «se sia sufficiente che le norme in questione dettino una disciplina difforme dalla normativa sulle pratiche commerciali scorrette in relazione alle specificità del settore, tale da determinare un concorso di norme [...] in relazione ad una stessa fattispecie concreta»; iii) se il principio di specialità di matrice europea osta ad una normativa nazionale che «ritenga che, ogniqualvolta si verifichi in un settore regolamentato, contenente una disciplina "consumeristica" settoriale con attribuzione di poteri regolatori e sanzionatori all'Autorità del settore, una condotta riconducibile alla nozione di "pratica aggressiva" [...] o "in ogni caso aggressiva" [...] debba sempre trovare applicazione la normativa generale sulle pratiche scorrette, e ciò anche qualora esista una normativa settoriale, adottata a tutela dei consumatori e fondata su previsioni di diritto dell'Unione, che regoli in modo compiuto le medesime "pratiche aggressive" e "in ogni caso aggressive" o, comunque, le medesime "pratiche scorrette"».

5.1. La Corte di giustizia dell'Unione europea, sez. II, con sentenza 13 settembre 2018 pronunciata nelle cause riunite C-54/17 e C-55/17, ha fornito l'interpretazione richiesta, statuendo testualmente nella parte dispositiva:

«1) La nozione di «fornitura non richiesta», ai sensi dell'allegato I, punto 29, della direttiva 2005/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell'11 maggio 2005, relativa alle pratiche commerciali sleali delle imprese nei confronti dei consumatori nel mercato interno e che modifica la direttiva 84/450/CEE del Consiglio e le direttive 97 luglio CE, 98/27/CE e 2002/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e il regolamento (CE) n. 2006/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio («direttiva sulle pratiche commerciali sleali»), dev'essere interpretata nel senso che, con riserva di verifiche da parte del giudice del rinvio, essa ricomprende condotte come quelle di cui trattasi nei procedimenti principali, consistenti nella commercializzazione, da parte di un operatore di telecomunicazioni, di carte SIM (Subscriber Identity Module, modulo d'identità dell'abbonato) sulle quali sono preimpostati e preattivati determinati servizi, quali la navigazione Internet e la segreteria telefonica, senza che il consumatore sia stato previamente ed adeguatamente informato né di tale preimpostazione e preattivazione né dei costi di tali servizi.

2) L'articolo 3, paragrafo 4, della direttiva 2005/29 dev'essere interpretato nel senso che non osta a una normativa nazionale in virtù della quale una condotta che costituisce una fornitura non richiesta, ai sensi dell'allegato I, punto 29, della direttiva 2005/29, come quelle di cui trattasi nei procedimenti principali, deve essere valutata alla luce delle disposizioni di tale direttiva, con la conseguenza che, secondo tale normativa, l'autorità nazionale di regolamentazione, ai sensi della direttiva 2002/21/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 7 marzo 2002, che istituisce un quadro normativo comune per le reti ed i servizi di comunicazione elettronica (direttiva quadro), come modificata dalla direttiva 2009/140/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 novembre 2009, non è competente a sanzionare una siffatta condotta».

6. Dopo la pubblicazione della sentenza le parti hanno depositato memorie difensive.

7. La causa è stata trattenuta in decisione all'udienza pubblica del 13 giugno 2019 ed è stata decisa all'esito delle camere di consiglio del 13 giugno e del 12 settembre 2019.

DIRITTO

8. La questione centrale devoluta in appello, posta all'esame della Sezione, attiene alla individuazione dell'Autorità indipendente competente (Autorità garante della concorrenza e del mercato o Autorità per le garanzie nelle comunicazioni) a sanzionare pratiche commerciali scorrette poste in essere da operatori economici nel settore delle comunicazioni elettroniche.

Ai fini della risoluzione della suddetta questione occorre: i) esaminare il settore generale delle pratiche commerciali scorrette e il settore particolare delle comunicazioni elettroniche; ii) riportare l'evoluzione della giurisprudenza nazionale ed europea in ordine al riparto di competenze tra le due suddette Autorità; iii) valutare la fattispecie concreta per stabilire quale sia la normativa ad essa applicabile e l'Autorità competente.

9. Il settore generale delle pratiche commerciali scorrette è disciplinato, sul piano europeo, dalla direttiva 2005/29/CE e, sul piano nazionale, dagli artt. 18-27-quater del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (Codice del consumo), con cui è stata data attuazione alla suddetta direttiva.

In relazione all'ambito applicativo soggettivo, l'art. 19, comma 1, cod. cons. prevede che la disciplina in esame si applica alle pratiche commerciali scorrette poste in essere tra professionisti e consumatori. Il consumatore è identificato in qualsiasi persona fisica che «agisce per fini che non rientrano nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale e professionale» [art. 18, comma 1, lett. a), cod. cons.].

La ragione giustificativa della normativa imperativa di protezione è rappresentata dall'esigenza di tenere conto della debolezza contrattuale - derivante dallo squilibrio informativo nei rapporti con il professionista - del soggetto che pone in essere atti negoziali per scopi oggettivi di consumo.

In relazione all'ambito applicativo oggettivo, la nozione di "pratica" commerciale scorretta evoca il concetto di "attività", e non di "atto" negoziale, che pone in essere l'imprenditore o il professionista. Si tratta, pertanto, di un comportamento che ha valenza generale che si inserisce, in quanto tale, nell'ambito di una strategia di impresa o professionale finalizzata a trarre illeciti vantaggi economici con pregiudizio delle parti contrattuali deboli.

L'art. 20 cod. cons. ha previsto che una pratica è scorretta se ricorrono due condizioni: i) la sua contrarietà alla «diligenza professionale»; ii) la sua idoneità «a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che essa raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori» (comma 1).

Il riferimento alla diligenza professionale deve essere inteso non come richiamo alla colpa ma alla buona fede quale regola di condotta oggettiva alla quale la parte forte deve conformare la propria attività concreta. L'art. 18, lett. h), cod. cons. definisce, infatti, la «diligenza professionale» come «il normale grado della specifica competenza ed attenzione che ragionevolmente i consumatori attendono da un professionista nei loro confronti rispetto ai principi generali di correttezza e di buona fede nel settore di attività del professionista».

Il riferimento al consumatore medio è coerente con la nozione di "attività" di rilevanza generale che incide sul mercato e, pertanto, la pratica deve essere idonea a ledere la categoria dei consumatori che operano in quel determinato settore.

Nell'ambito delle pratiche commerciali scorrette, il codice del consumo distingue quelle ingannevoli e quelle aggressive.

L'art. 21 cod. cons. dispone che «è considerata ingannevole una pratica commerciale che contiene informazioni non rispondenti al vero o, seppure di fatto corretta, in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, induce o è idonea ad indurre in errore il consumatore medio riguardo ad uno o più dei seguenti elementi e, in ogni caso, lo induce o è idonea a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso».

A tale definizione segue una elencazione esemplificativa di tipo casistico. Si fa riferimento, in particolare, tra l'altro, a informazioni relative a: esistenza e natura del prodotto; caratteristiche principali del prodotto (quali, ad esempio, la sua disponibilità, i vantaggi, i rischi, gli accessori); portata degli impegni del professionista, motivi della pratica commerciale e natura del processo di vendita; prezzo o modo in cui esso è calcolato; necessità di una manutenzione, ricambio, sostituzione o riparazione; natura, qualifiche e diritti del professionista o del suo agente; diritti del consumatore.

L'art. 24 cod. cons. prevede che «è considerata aggressiva una pratica commerciale che, nella fattispecie concreta, tenuto conto di tutte le caratteristiche e circostanze del caso, mediante molestie, coercizione, compreso il ricorso alla forza fisica o indebito condizionamento, limita o è idonea a limitare considerevolmente la libertà di scelta o di comportamento del consumatore medio in relazione al prodotto e, pertanto, lo induce o è idonea ad indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso».

A tale definizione segue, anche in questo caso, una elencazione esemplificativa di tipo casistico. Si fa riferimento, in particolare, tra l'altro, alle pratiche che: creano l'impressione che il consumatore non possa lasciare i locali commerciali fino alla conclusione del contratto; comportano ripetute e non richieste sollecitazioni commerciali per telefono, via fax, per posta elettronica o mediante altro mezzo di comunicazione a distanza; esigono il pagamento immediato o differito o la restituzione o la custodia di prodotti che il professionista ha fornito, ma che il consumatore non ha richiesto.

La giurisprudenza amministrativa ha chiarito che si tratta di un "illecito di pericolo", con la conseguenza che deve essere effettuato un giudizio pronostico ex ante, avendo riguardo alla «potenzialità lesiva del comportamento posto in essere dal professionista, indipendentemente dal pregiudizio causato in concreto al comportamento dei destinatari, indotti ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbero altrimenti preso» (C.d.S., sez. VI, 15 luglio 2019, n. 4976; C.d.S., sez. VI, 23 maggio 2019, n. 3347; C.d.S., sez. VI, 10 dicembre 2014, n. 6050; Trib. Amm. Reg. Lazio, Roma, sez. I, 8 marzo 2019, n. 3095).

Da quanto riportato risulta come il legislatore abbia provveduto a declinare il concetto generale di correttezza professionale mediante una "tipizzazione" normativa delle regole di condotta che costituiscono attuazione del concetto stesso. Si tratta, però, della definizione di comportamenti che vengono descritti in modo non preciso. È, pertanto, necessario che la effettiva "tipizzazione" si svolga nella fase di accertamento amministrativo e giudiziale della pratica.

9.1. L'art. 27, comma 9, cod. cons. ha previsto che l'Autorità, con il provvedimento che vieta la pratica, applica «una sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 euro a 5.000.000 euro, tenuto conto della gravità e della durata della violazione».

Le sanzioni amministrative possono essere afflittive (sanzionatorie in senso stretto) o ripristinatorie (sanzionatorie in senso lato).

Le sanzioni ripristinatorie «mirano alla soddisfazione diretta dell'interesse pubblico specificamente pregiudicato dalla violazione» (C.d.S., sez. VI, 26 luglio 2017, n. 3694).

Le sanzioni afflittive sono quelle definite dal diritto europeo e, in particolare, dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU), che ha contributo a configurare uno statuto di regole fondato su garanzie convenzionali di natura sostanziale e processuale (artt. 6 e 7).

I criteri per individuare la prima tipologia di sanzioni sono costituite: i) dalla qualificazione giuridica dell'illecito; ii) dalla natura dell'illecito, desunta dall'ambito di applicazione, di carattere generale, della norma che lo prevede (deve essere rivolto alla generalità dei consociati) e dallo scopo perseguito che deve essere non risarcitorio ma afflittivo; iii) dal grado di severità della sanzione, che è determinato con riguardo alla pena massima prevista dalla legge applicabile e non di quella concretamente applicata (Corte eur. dir. uomo, Grande Camera, 8 giugno 1976, Engel e altri c. Bassi).

Nella fattispecie concreta, deve ritenersi che la sanzione irrogata abbia valenza afflittiva, il che la rende sostanzialmente assimilabile alle sanzioni penali.

La conseguenza principale di questa qualificazione è rappresentata dall'applicazione del principio di legalità costituzionale e convenzionale che impone che la regola precettiva sia conforme ai corollari della determinatezza (o, nella versione europea, prevedibilità e accessibilità) e dalla irretroattività delle norme sanzionatorie sfavorevoli e retroattività delle norme sanzionatorie favorevoli.

In questa sede, questa qualificazione rileva ai fini della stessa individuazione del criterio di competenza e dell'ambito di operatività del principio del ne bis in idem.

10. Il settore particolare delle comunicazioni elettroniche è disciplinato, sul piano europeo, dalla direttiva 2002/19/CE relativa all'accesso alle reti di comunicazione elettronica e alle risorse correlate e all'interconnessione delle medesime (direttiva accesso), dalla direttiva 2002/20/CE relativa alle autorizzazioni per le reti e i servizi di comunicazione elettronica (direttiva autorizzazioni), dalla direttiva 2002/21/CE che istituisce un quadro normativo comune per le reti ed i servizi di comunicazione elettronica (direttiva quadro), dalla direttiva 2002/22/CE relativa al servizio universale e ai diritti degli utenti in materia di reti e di servizi di comunicazione elettronica (direttiva servizio universale) e dalla direttiva 2002/77/CE alla concorrenza nei mercati delle reti e dei servizi di comunicazione elettronica.

Sul piano nazionale, l'attuazione di tali direttive è avvenuta, in particolare, con il d.lgs. 1° agosto 2003, n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche).

Tale normativa regolamenta un servizio pubblico inteso come insieme di prestazioni erogate all'utente.

La finalità perseguita dal legislatore europeo è stata quella di assicurare il principio di "concorrenza nel mercato" mediante la progressiva liberalizzazione del settore, con lo scopo di fare in modo che tutti gli operatori possano in esso esercitare la propria libertà di iniziativa economica.

Tale processo di liberalizzazione ha indotto, però, il legislatore ad intervenire con funzione di regolazione esercitata direttamente con norme imperative o mediante l'Autorità amministrativa indipendente, individuata nell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (l. 31 luglio 1997, n. 249).

Sul piano soggettivo, la normativa in esame si applica all'utente che è «la persona fisica o giuridica che utilizza o chiede di utilizzare un servizio di comunicazione elettronica accessibile al pubblico» [art. 1, comma 1, lett. pp), cod. com. elettr.], il quale può essere anche «utente finale», ossia l'utente «che non fornisce reti pubbliche di comunicazione o servizi di comunicazione elettronica accessibili al pubblico» [art. 1, comma 1, lett. qq), cod. com. elettr.]. Il codice fornisce una definizione anche più ristretta di consumatore che viene definita come «l'utente finale, la persona fisica che utilizza o che chiede di utilizzare un servizio di comunicazione elettronica accessibile al pubblico per scopi non riferibili all'attività lavorativa, commerciale o professionale svolta» [art. 1, comma a, lett. j), cod. com. elettr.].

Sul piano oggettivo sono disciplinate le «reti» e «i servizi» di comunicazione elettronica e, cioè, in generale «i mezzi di trasmissione», con esclusione della disciplina dei contenuti dei servizi.

Lo scopo complessivo di tale intervento regolatorio è duplice: tutelare il mercato nella sua interezza e tutelare le parti deboli che sono tali in quanto si possono trovare in una situazione di asimmetria informativa rispetto agli operatori economici che operano in ambiti di loro competenza.

In questa sede, occorre avere riguardo ai contratti di connessione alla rete stipulati tra gli operatori del settore e l'utente.

L'art. 70 cod. com. elettr. prevede che «i consumatori ed altri utenti finali che ne facciano richiesta, hanno diritto di stipulare contratti con una o più imprese che forniscono servizi di connessione ad una rete di comunicazione pubblica o servizi di comunicazione elettronica accessibile al pubblico».

Il contratto deve indicare, in modo chiaro, dettagliato e facilmente comprensibile, tra l'altro: la denominazione e la sede dell'impresa; i servizi forniti; i livelli minimi di qualità del servizio offerti, compresa la data dell'allacciamento iniziale e, ove opportuno, altri parametri di qualità del servizio, quali definiti dall'Autorità; il dettaglio dei prezzi e delle tariffe, nonché le modalità secondo le quali possono essere ottenute informazioni aggiornate in merito a tutte le tariffe applicabili e a tutti i costi di manutenzione, alle modalità di pagamento e ad eventuali differenze di costo ad esse legate, la durata del contratto, le condizioni di rinnovo e di cessazione dei servizi e del contratto (comma 1).

L'Autorità vigila sull'applicazione di tali regole (comma 2).

L'art. 71 cod. com. elettr. dispone che «l'Autorità assicura che le imprese che forniscono reti pubbliche di comunicazione elettronica o servizi accessibili al pubblico di comunicazione elettronica pubblichino informazioni trasparenti, comparabili, adeguate e aggiornate in merito ai prezzi e alle tariffe vigenti, a eventuali commissioni per la risoluzione del contratto e a informazioni sulle condizioni generali vigenti in materia di accesso e di uso dei servizi forniti agli utenti finali e ai consumatori».

Il comma 2-bis dello stesso art. 71 dispone che l'Autorità può imporre alle imprese del settore in esame ulteriori obblighi, tra i quali, quelli di «fornire ai contraenti informazioni sulle tariffe in vigore riguardo a ogni numero o servizio soggetto a particolari condizioni tariffarie».

Da quanto riportato risulta come il legislatore abbia previsto norme imperative di regolazione del settore che contengono regole di condotta a cui devono uniformarsi gli operatori economici, al fine di assicurare la stabilità del mercato e la tutela delle parti deboli che in esso vi operano.

In particolare, si prevedono una serie di contenuti, che devono essere presenti nel contratto, finalizzati a fornire alla parte debole informazioni di cui è priva. Vengono, pertanto, definite, mediante la tecnica della "tipizzazione" normativa, regole di condotta imposte alla parte forte che si risolvono, essenzialmente, in doveri di informazione che rappresentano una declinazione del principio di buona fede oggettiva. Anche in questo ambito la "tipizzazione" si mantiene su un piano generale e non preciso.

Una funzione di ulteriore specificazione è, in tale caso, espressamente demandata all'Autorità di settore che è una Autorità di regolazione e, quindi, titolare del compito di porre regole di condotta ulteriori nel rispetto delle prescrizioni legali. Si tratta di regole che entrano, con funzione di eterointegrazione, nel singolo contratto, il quale dovrà uniformarsi ad un parametro normativo ampio, rappresentato dalle regole normative e amministrative di condotta.

10.1. L'art. 98, comma 16, cod. com. elettr. attribuisce all'Autorità il potere di irrogare sanzioni amministrative pecuniarie.

Anche per tale potere valgono le considerazioni sopra svolte in ordine alla possibile natura sostanzialmente penale delle sanzioni, con conseguente applicazione dei principi di legalità costituzionale e convenzionale, nella versione di maggiore garanzia.

11. Nella definizione del rapporto di competenza tra l'Autorità garante della concorrenza e del mercato, che opera nel mercato generale con funzioni di vigilanza, e l'Autorità di regolazione, che opera nel settore particolare, la norma fondamentale di riferimento è l'art. 19, comma 3, del codice del consumo.

Tale norma prevede che «in caso di contrasto, le disposizioni contenute in direttive o in altre disposizioni comunitarie e nelle relative norme nazionali di recepimento che disciplinano aspetti specifici delle pratiche commerciali scorrette prevalgono sulle disposizioni di disciplina delle pratiche commerciali scorrette e si applicano a tali aspetti specifici».

Questa disposizione è stata interpretata in modo diverso dalla giurisprudenza nazionale ed europea.

Si possono distinguere tre fasi di sviluppo.

11.1. Nella prima fase, l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (sentenze 11 maggio 2012, nn. 11-13 e nn. 15-16) si è occupata del rapporto tra la normativa generale relativa alle pratiche commerciali scorrette e la normativa di settore relativa alle comunicazioni elettroniche.

L'Adunanza plenaria ha ritenuto che l'espressione «contrasto» tra la normativa sulle pratiche commerciali scorrette e quella di settore, contenuta nel riportato art. 19 del codice consumo, ai fini della individuazione dei casi in cui trova applicazione quest'ultima, non deve essere intesa come «vera e propria antinomia normativa», ma come «diversità di disciplina».

Ne è conseguito, secondo la Plenaria, che il criterio per individuare la disciplina applicabile deve essere quello di specialità di cui all'art. 15 c.p.

Tale norma prevede che «quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito».

Nel diritto penale la finalità di questo criterio è quella di stabilire quando ricorre un concorso apparente di norme e non un concorso di reati. In particolare, esso è impiegato per accertare i casi in cui la stessa condotta viola più norme incriminatrici le quali, però, non possono trovare applicazione contestualmente perché tra di loro esiste una relazione di specialità che rende il loro concorso nella disciplina di quel fatto di reato apparente e non reale.

La prevalente giurisprudenza della Cassazione, seguendo la c.d. teoria monista, ritiene che il criterio di specialità sia l'unico che deve essere utilizzato per stabilire quando vi sia un concorso apparente di norme (Cass. civ., sez. un., 28 aprile 2017, n. 20664).

Il meccanismo che presiede al funzionamento di tale criterio si basa sul confronto tra gli elementi strutturali delle fattispecie, secondo uno schema logico-formale: il fatto descritto nella norma speciale contiene tutti gli elementi del fatto descritto nella norma generale, con i più gli elementi "specializzanti". La specialità può essere per "specificazione" di un elemento del fatto previsto dalla norma generale ovvero per "aggiunta". Si pensi al rapporto tra il reato di sequestro di persona semplice (art. 605 c.p.) e quello a scopo di estorsione (art. 630 c.p.).

Applicando questo criterio penalistico nella materia in esame, l'Adunanza plenaria ha ritenuto che il concorso di norme deve essere risolto in favore della disciplina di regolazione delle comunicazioni elettroniche, perché "speciale" rispetto a quella "generale" di regolazione delle pratiche commerciali scorrette. Si è aggiunto che occorre, per pervenire a tale esito, occorre, altresì, «verificare la esaustività e la completezza della normativa di settore», che, nella specie, è stata ritenuta sussistente in quanto essa tutela anche il consumatore.

Dall'analisi della motivazione della sentenza riportata risulta come la Plenaria del 2012 abbia applicato il criterio di specialità non mediante un confronto tra le singole fattispecie astratte regolate dalle norme (apparentemente) concorrenti, ma mediante un confronto tra il settore generale delle pratiche commerciali scorrette e quello speciale delle comunicazioni elettroniche. Nella sentenza si afferma, infatti, che: i) l'applicazione del codice delle comunicazioni elettroniche presuppone la verifica della «esaustività» e «completezza» della «normativa di settore» e, dunque, una valutazione generale; ii) la direttiva 2005/29/CE, di disciplina delle pratiche commerciali scorrette, «offre una tutela ai consumatori ove a livello comunitario non esista una legislazione di settore». In questa prospettiva l'espressione «aspetti specifici» delle pratiche commerciali scorrette deve essere riferita all'intero settore, con la conseguenza che dall'analisi delle discipline in comparazione risultino "pratiche commerciali generali" e "pratiche commerciali settoriali".

Questa peculiare modalità di raffronto tra normative si è resa necessaria in ragione della diversità, allo stato esistente, tra le tecniche di tipizzazione delle condotte proprie del diritto penale e quelle del diritto pubblico e privato di tutela del consumatore.

Nel diritto penale, il principio costituzionale di legalità e il suo corollario di tassatività (o, nella versione europea, prevedibilità e accessibilità) impone che il legislatore descriva, sul piano astratto, le fattispecie incriminatrici in modo preciso. Nella prassi accade che tale corollario non venga sempre rispettato soprattutto quando si utilizzano, nella costruzione del precetto penale, elementi normativi che rimandano a clausole generali. Ma si tratta di eccezioni al principio generale. Ai fini che rilevano in questa sede, è sufficiente mettere in rilievo come il corollario della tassatività consente, in coerenza con il criterio di specialità di cui all'art. 15 c.p., un confronto tra fattispecie astratte mediante il ritaglio di quelle parti di condotta che presentino elementi di specialità.

Nel diritto, pubblico e privato, di tutela del consumatore, quando vengono in rilievo precetti sanzionatori, le regole violate dovrebbero essere descritte in coerenza con il principio di legalità e al suo corollario di tassatività (o, nella versione europea, prevedibilità e accessibilità), pur se adattato alla peculiarità del settore rispetto all'ambito penalistico.

Nella specie, il legislatore, pur avendo proceduto a "tipizzare" le regole di condotta, si è mantenuto, come già sottolineato, su un livello di precisione non elevato. Del resto, l'elemento normativo centrale utilizzato nella costruzione della singola regola di condotta continua ad essere quello della clausola generale della buona fede che è espressione di un concetto giuridico indeterminato.

Lo stesso legislatore ha attribuito all'Autorità di settore il compito di esercitare un potere di regolazione consistente nell'integrazione del parametro legale mediante la definizione di ulteriori regole di condotta o la specificazione di quelle previste. Si tratta di un potere ampio, espressione di discrezionalità tecnica, che conferma la non autosufficienza della regola imperativa di matrice legislativa.

In definitiva, la costruzione di regole di condotte mediante il rinvio al principio di buona fede e alla funzione integrativa dell'Autorità di regolazione demanda la puntuale individuazione della condotta sanzionata all'analisi della specificità della fattispecie concreta.

La conferma della correttezza di questo esito interpretativo si rinviene nell'art. 23, comma 12-quinquiesdecies, del d.l. 6 luglio 2012, n. 95, introdotto dalla legge di conversione 7 agosto 2012, n. 135, il quale, con norma oggi abrogata, aveva riconosciuto all'AGCM la competenza ad accertare e sanzionare le pratiche commerciali scorrette, «escluso unicamente il caso in cui le pratiche commerciali scorrette siano poste in essere in settori in cui esista una regolazione di derivazione comunitaria, con finalità di tutela del consumatore, affidata ad altra Autorità munita di poteri inibitori e sanzionatori e limitatamente agli aspetti regolati».

11.2. Nella seconda fase, la Commissione europea, a seguito delle suddette decisioni dell'Adunanza plenaria, ha attivato una procedura di infrazione (n. 2013-2169) contestando, in particolare, la tesi per cui l'esistenza di una disciplina specifica settoriale, in quanto considerata esaustiva, avrebbe sempre comportato la prevalenza di tale disciplina su quella generale in materia di pratiche commerciali scorrette.

Per porre rimedio alla suddetta procedura di infrazione, il legislatore ha introdotto, con il d.lgs. 21 febbraio 2014, n. 21, nell'art. 27 del codice del consumo, il comma 1-bis, il quale prevede quanto segue: i) «anche nei settori regolati, ai sensi dell'articolo 19, comma 3, la competenza ad intervenire nei confronti delle condotte dei professionisti che integrano una pratica commerciale scorretta, fermo restando il rispetto della regolazione vigente, spetta, in via esclusiva, all'Autorità garante della concorrenza e del mercato [...], acquisito il parere dell'Autorità di regolazione competente»; ii) «resta ferma la competenza delle Autorità di regolazione ad esercitare i propri poteri nelle ipotesi di violazione della regolazione che non integrino gli estremi di una pratica commerciale scorretta»; iii) «le Autorità possono disciplinare con protocolli di intesa gli aspetti applicativi e procedimentali della reciproca collaborazione, nel quadro delle rispettive competenze».

A seguito di tale nuova normativa è intervenuta, con sentenza 9 febbraio 2016, n. 3, l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato che ha deciso in relazione alla fattispecie specifica che rileva in questa sede.

L'Adunanza plenaria, richiamando ancora una volta concetti penalistici, ha fatto applicazione del criterio dell'assorbimento o della consunzione.

Nel diritto penale i sostenitori della c.d. teoria pluralistica ritengono che non sia possibile risolvere il concorso apparente di norme in applicazione del solo criterio dell'art. 15 c.p.

È stato elaborato, tra gli altri, il criterio dell'assorbimento o della consunzione secondo il quale la commissione di un reato comporta, normalmente, la commissione di un secondo reato, con la conseguenza che il primo assorbe l'intero disvalore del fatto concreto. Si inserisce in questo ambito anche la c.d. progressione criminosa che postula l'esistenza di condotte che realizzano lesioni di crescente gravità del medesimo bene giuridico. Si pensi al caso di uno stesso soggetto che reitera dichiarazioni mendaci, rivolte a favorire l'autore di un reato, prima dinanzi alla polizia giudiziaria e poi di fronte al giudice.

Applicando questo criterio penalistico nella materia in esame, la Plenaria ha ritenuto che il concorso di norme dovesse essere risolto in favore della disciplina relativa alle pratiche commerciali scorrette.

In particolare, si è affermato che il raffronto debba essere effettuato non tra interi settori o tra fattispecie astratte prefigurate dalle norme, ma tra le fattispecie concrete valutando se le condotte contestate si pongano in una relazione di progressione illecita.

Nella specie, la Plenaria ha ritenuto che la condotta contestata agli operatori di telefonia mobile si risolvesse in una pratica commerciale aggressiva attuata mediante la violazione degli obblighi di informazione.

Ne consegue, si è sottolineato, che «nel caso di specie si assiste ad una ipotesi di specialità per progressione di condotte lesive che, muovendo dalla violazione di meri obblighi informativi comportano la realizzazione di una pratica anticoncorrenziale vietata ben più grave per entità e per disvalore sociale, ovvero di una pratica commerciale aggressiva».

Si realizza, quindi, nell'ipotesi in esame, «più che un conflitto astratto di norme in senso stretto, una progressione illecita, descrivibile come ipotesi di assorbimento-consunzione, atteso che la condotta astrattamente illecita secondo il corpus normativo presidiato dall'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni è elemento costitutivo di un più grave e più ampio illecito anticoncorrenziale vietato secondo la normativa di settore presidiata dall'Autorità Antitrust».

In questa prospettiva, l'espressione «aspetti specifici» delle pratiche commerciali scorrette, contenuta nell'art. 19, comma 3, cod. cons., deve essere riferita alla fattispecie concreta.

Questo allontanamento dalla fattispecie astratta comporta che la fattispecie concreta disciplinata dalla normativa di settore, pur presentando un disvalore "omogeno" rispetto alla fattispecie concreta disciplinata dalla normativa generale, non necessariamente debba essa qualificata come pratica commerciale scorretta. In altri termini, l'impiego di questa tecnica, ancorata non alla norma ma alla condotta concreta, non fornisce elementi di certezza ma necessariamente demanda ad una indagine casistica.

In definitiva, l'Adunanza plenaria del 2016, applicando il criterio di specialità per fattispecie concrete e non per settori, è giunta ad un risultato opposto a quello cui erano pervenute le sentenze del 2012, ritenendo che la competenza debba essere riconosciuta all'Autorità antitrust.

11.3. Nella terza fase, a seguito del rinvio pregiudiziale disposto da questa Sezione, è intervenuta la Corte di giustizia dell'Unione europea (sez. II, sentenza 13 settembre 2018, nelle cause riunite C-54/17 e C-55/17).

La Corte ha affermato che la nozione di «contrasto» denota «un rapporto tra le disposizioni cui si riferisce che va oltre la mera difformità o la semplice differenza, mostrando una divergenza che non può essere superata mediante una formula inclusiva che permetta la coesistenza di entrambe le realtà, senza che sia necessario snaturarle». Ne consegue che «contrasto» sussiste unicamente quando «disposizioni estranee» alla direttiva n. 29 del 2005, disciplinanti «aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali», impongono «ai professionisti, senza alcun margine di manovra, obblighi incompatibili» con quelli stabiliti dalla suddetta direttiva.

Da quanto esposto risulta come il Giudice europeo ritenga che il criterio di risoluzione di una possibile concorrenza di norme che disciplinano la condotta contestata sia costituito non dal "criterio di specialità" ma dal "criterio di incompatibilità".

Il primo criterio presuppone che le due discipline presentino aspetti comuni e aspetti differenti. Il secondo criterio presuppone che tra le due discipline sussista una complessiva divergenza di contenuti che non ne consenta neanche l'astratta coesistenza.

Questa interpretazione è aderente al significato letterale dell'art. 19, comma 3, cod. cons. e coerente con quanto lo stesso legislatore nazionale ha disposto con l'art. 27, comma 1-bis, introdotto dal d.lgs. n. 21 del 2014.

Il nuovo criterio elaborato dalla Corte di giustizia decreta, pertanto, l'abbandono dei criteri di matrice penalistica che sono poco compatibili con la natura delle regole di condotta contemplate nei due settori. Queste, come già sottolineato, essendo espressione del principio di buona fede e demandando al caso concreto la loro completa tipizzazione, non si prestano ad un confronto astratto mediante comparazione delle fattispecie.

In questa prospettiva, l'espressione «aspetti specifici» della pratica commerciale scorretta impone un confronto non tra interi settori o tra fattispecie concrete, ma tra singole norme generali e di settore, con applicazione di queste ultime soltanto qualora esse contengano profili di disciplina incompatibili e antinomici con quelle generali di disciplina delle pratiche commerciali scorrette. Ne consegue che la normativa di settore non disciplinerà pratiche commerciali scorrette, ma condotte che presentano aspetti di divergenza radicale con tali pratiche.

In definitiva, alla luce di quanto affermato dalla Corte di giustizia, la regola generale è che, in presenza di una pratica commerciale scorretta, la competenza è dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato. La competenza delle altre Autorità di settore è residuale e ricorre soltanto quando la disciplina di settore regoli «aspetti specifici» delle pratiche che rendono le due discipline incompatibili.

12. Occorre adesso applicare questi principi al caso concreto, valutando se la pratica commerciale posta in essere possa considerarsi scorretta e se esistono profili di incompatibilità con la disciplina di settore che priva di competenza l'Autorità garante della concorrenza e del mercato.

In relazione al primo aspetto, le pratiche commerciali aggressive sono quelle, come sottolineato, che limitano o sono idonee a limitare considerevolmente la libertà di scelta o di comportamento del consumatore medio in relazione al prodotto.

L'art. 26, comma 1, lett. f), cod. cons., riprendendo quanto disposto dall'allegato I, punto 29, della direttiva n. 29 del 2005, qualifica come aggressiva la pratica consistente nell'«esigere il pagamento immediato o differito o la restituzione o la custodia di prodotti che il professionista ha fornito, ma che il consumatore non ha richiesto» (c.d. fornitura non richiesta).

Nella fattispecie all'esame della Sezione, la condotta posta in essere, come risulta dagli atti del processo, è consistita nella commercializzazione da parte della società appellante di schede telefoniche sulle quali erano preimpostati e preattivati servizi di navigazione internet e di segreteria telefonica, i cui costi di utilizzo venivano addebitati all'utente se tali servizi non fossero stati disattivati su espressa richiesta di quest'ultimo e ciò senza che l'utente avesse ricevuto informazioni in ordine all'esistenza di tali servizi e alla loro onerosità.

Tale fattispecie non costituisce, come sostenuto nelle proprie memorie difensive dalla società, una mera omissione informativa.

Si tratta, infatti, di una condotta concreta che integra gli estremi della condotta tipica della pratica commerciale aggressiva consistente nella fornitura di servizi non richiesti. In particolare, risulta che: i) i servizi in esame siano stati preimpostati e preattivati sulle carte SIM senza che il consumatore sia stato adeguatamente informato in modo chiaro e adeguato; ii) il professionista ha richiesto il pagamento del servizio non richiesto.

Non assume rilevanza esimente della responsabilità la circostanza che nella "brochure servizi", nel sito della società e nel modulo consegnato al cliente risultino informazioni in ordine all'esistenza dei servizi in esame. L'elemento determinante, si ribadisce, è costituito dal fatto che oggetto dell'omissione informativa è rappresentato dal fatto che la parte debole non sia stata informata in ordine alla preimpostazione dei servizi.

Queste omissioni sono state idonee ad indurre il consumatore medio ad assumere una decisione che non avrebbe altrimenti preso.

La stessa Corte di giustizia, con la sentenza sopra citata, ha affermato che «non è evidente che un acquirente medio di carte SIM possa essere consapevole del fatto che, quando acquista una carta, questa contenga automaticamente servizi di segreteria telefonica e di navigazione internet preimpostati e preattivati atti a generare costi aggiuntivi o del fatto che, quanto inserisce tale carta nel suo telefono mobile, o in qualunque altro apparecchio che permetta la navigazione internet, alcune applicazioni o l'apparecchio stesso possano connettersi a internet a sua insaputa, né che egli abbia una competenza tecnica sufficiente per effettuare da solo le operazioni necessarie a disattivare tali servizi o tali connessioni automatiche sul suo apparecchio».

Peraltro, anche l'Adunanza plenaria, nella sentenza n. 3/2016, ha qualificato la condotta di Vodafone, ritenuta accertata nel suo sostrato fattuale, come una «pratica commerciale considerata in ogni caso aggressiva», con una statuizione munita dell'efficacia di giudicato interno, sicché, nella presente sede, resta precluso il riesame di detta qualificazione giuridica e del presupposto accertamento in fatto.

Ad ogni modo, si tratta di valutazioni che trovano pieno riscontro nei documenti e prove acquisite al processo e che, pertanto, inducono a ritenere provata la commissione della pratica scorretta.

In relazione al secondo aspetto, la normativa rilevante, sopra riportata, relativa al settore delle comunicazioni elettroniche, non contiene profili di disciplina che si pongono in contrasto con la regolazione della pratica commerciale scorretta che ricorre nella specie.

Il d.lgs. n. 259/2003, come risulta da quanto sopra riportato, disciplina gli obblighi di informazione che gli operatori del settore devono fornire all'utente al momento della stipulazione del singolo contratto. Si tratta di un "aspetto" della pratica che non la contraddice ma conferma la illiceità del comportamento sanzionato.

Non risultando profili di oggettiva incompatibilità si applicano le norme contenute nel codice del consumo con competenza dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato.

13. Deve essere esaminata un'ultima questione, richiamata negli scritti difensivi della parte appellata, rappresentata dalla valenza del principio del ne bis in idem, in considerazione della valenza sostanzialmente penale delle sanzioni irrogate.

Il timore prospettato è che per la medesima condotta possano essere applicate due sanzioni ovvero possa essere iniziato un nuovo procedimento da un'Autorità indipendente dopo la definizione di un precedente procedimento da parte di un'altra Autorità.

Il divieto del ne bis in idem ha una valenza sostanziale e processuale.

Sul piano sostanziale, si vieta che per una stessa condotta vengano irrogate, nell'ambito dello stesso processo, due sanzioni in applicazione di norme diverse. Questo risultato viene evitato ricorrendo ai criteri di specialità o di assorbimento-consunzione che stanno alla base del concorso apparente di norme.

Sul piano processuale, si vieta di iniziare un secondo procedimento una volta definito quello precedente per la stessa condotta.

L'art. 649 c.p.p. prevede che: i) «l'imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze» (comma 1); ii) «se ciò nonostante viene di nuovo iniziato procedimento penale, il giudice in ogni stato e grado del processo pronuncia sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere, enunciandone la causa nel dispositivo» (comma 2).

L'art. 4 del Protocollo n. 7 della CEDU prevede che «nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge ed alla procedura penale di tale Stato».

L'art. 50 della Carta di Nizza prevede che «nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è stato assolto o condannato nell'Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge».

Si tratta di un divieto espressione di un diritto fondamentale di civiltà giuridica il quale intende evitare che una persona possa essere esposta senza certezze allo svolgimento di plurimi procedimenti sanzionatori.

La complessità della tematica del ne bis in idem processuale attiene alla individuazione della nozione di «medesimo fatto» e, dunque, il rischio non è tanto che si applichi la stessa norma in momenti temporalmente diversi ma, all'esito del primo processo, una diversa norma che disciplini il «medesimo fatto». Questa è la ragione per cui anche il ne bis in idem processuale presenta profili di connessione con il concorso di norme.

Un primo orientamento ritiene che venga in rilievo il c.d. idem legale. Sarebbe sufficiente, pertanto, che cambi la sola qualificazione giuridica della condotta perché si possa iniziare un secondo processo in applicazione di una diversa norma.

L'orientamento prevalente e preferibile fa riferimento al c.d. idem factum per cui il divieto opera se il secondo processo inizia in presenza di un «medesimo fatto» inteso in senso naturalistico, che ricomprende condotta, nesso di causalità e evento (cfr. Corte cost. n. 43/2018).

Nella fattispecie in esame, il nuovo criterio utilizzato dalla Corte di giustizia per stabilire quale sia l'Autorità competente è quello della c.d. incompatibilità delle norme.

Se sussiste incompatibilità significa, per definizione, che non possa venire in rilievo il «medesimo fatto» e, quindi, si è fuori dal perimetro delle questioni problematiche poste dal concorso di norme e conseguentemente anche dal ne bis in idem. L'art. 19 ha dettato un criterio di risoluzione delle antinomie che assegna, in questo caso, soltanto all'Autorità di settore la competenza, con la conseguenza che non vi è alcuno spazio di intervento né contestuale né successivo dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato.

Se non sussiste incompatibilità significa che si applicano soltanto le norme sulle pratiche commerciali scorrette, con competenza esclusiva dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato. In questo caso, se si applicassero i criteri penalistici relativi al concorso di norme, potrebbero sorgere dubbi interpretativi in ordine alla sussistenza del c.d. idem factum, con il rischio che venga instaurato contemporaneamente o iniziato successivamente un nuovo procedimento da parte dell'Autorità di settore in applicazione di norme diverse.

Applicando il criterio autonomo della incompatibilità, non sussistono dubbi in ordine al fatto che la competenza sia soltanto dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato.

È evidente che, mancando tale incompatibilità, astrattamente l'Autorità di settore per quella condotta già sanzionata in base alla normativa generale - essendo tale condotta, appunto, "compatibile" con quella oggetto della regolazione di settore - potrebbe effettuare un secondo intervento sanzionatorio. Ma se ciò accadesse, non si porrebbero, si ribadisce, i delicati problemi interpretativi connessi all'applicazione dei criteri di specialità penalistici e del ne bis in idem per valutare se sia stato legittimo o meno il modo di procedere dell'Autorità. L'applicazione del criterio autonomo dell'incompatibilità esclude in modo chiaro che l'Autorità di settore possa intervenire. Se, pertanto, venisse irrogata una seconda sanzione, essa sarebbe illegittima, sia sotto il profilo procedimentale sia sotto quello sostanziale.

14. Per le considerazioni tutte sopra svolte, in accoglimento dell'appello e in riforma dell'impugnata sentenza, s'impone la reiezione del ricorso di primo grado, con la precisazione che la riproposta censura di violazione del contraddittorio procedimentale per la mancata valutazione degli impegni presentati da Vodafone è destituita di fondamento, ben potendo l'Autorità respingere gli impegni anche con il provvedimento finale, senza ulteriori obblighi motivazionali, qualora le condotte oggetto di contestazione appaiano, al momento in cui si assume la decisione, di rilevante gravità, così come infondate sono le riproposte censure attinenti l'entità della sanzione, attesa la corretta applicazione, assistita da congrua motivazione, dei criteri e parametri posti dagli artt. 27, commi 9 e 13, cod. cons. e 8-bis e 11 l. n. 689/1981.

Resta assorbita ogni altra questione, ormai irrilevante ai fini decisori.

15. La complessità delle questioni trattate, che hanno richiesto l'intervento dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato e della Corte di giustizia dell'Unione europea, giustifica l'integrale compensazione tra le parti delle spese di entrambi i gradi di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto (ricorso n. 3103 del 2013), lo accoglie e, per l'effetto, in riforma della sentenza impugnata, respinge il ricorso di primo grado; dichiara integralmente compensate tra le parti le spese di entrambi i gradi di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.