Corte costituzionale
Sentenza 22 maggio 2020, n. 97

Presidente: Cartabia - Redattore: Zanon

[...] nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), promossi dalla Corte di cassazione, sezione prima penale, nei procedimenti a carico di G. G. e C. G., con due ordinanze del 23 ottobre 2019, rispettivamente iscritte ai numeri 222 e 223 del registro ordinanze 2019 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 50, prima serie speciale, dell'anno 2019.

Visti gli atti di costituzione di G. G. e di C. G. nonché gli atti d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito il Giudice relatore Nicolò Zanon ai sensi del decreto della Presidente della Corte del 20 aprile 2020, punto 1) lettere a) e c), in collegamento da remoto, senza discussione orale, in data 5 maggio 2020;

deliberato nella camera di consiglio del 5 maggio 2020.

RITENUTO IN FATTO

1.- La Corte di cassazione, sezione prima penale, con due ordinanze di analogo tenore, adottate in pari data e nella medesima composizione collegiale (rispettivamente iscritte ai numeri 222 e 223 del registro ordinanze 2019), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell'art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), «nella parte in cui prevede che siano adottate tutte le necessarie misure di sicurezza volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità di scambiare oggetti per i detenuti in regime differenziato appartenenti al medesimo gruppo di socialità».

2.- Nel giudizio iscritto al r.o. n. 222 del 2019, il collegio rimettente riferisce che la vicenda sottoposta al vaglio di legittimità nasce dal reclamo al Magistrato di sorveglianza di Spoleto proposto da G. G., detenuto sottoposto al regime differenziato ex art. 41-bis ordin. penit., avverso l'ordine di servizio del 15 marzo 2015 con il quale la direzione dell'istituto penitenziario ha comunicato il divieto di scambiare oggetti di qualunque genere, quand'anche realizzato tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità, a seguito delle innovazioni apportate al citato regime differenziato dalla legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica). Secondo il reclamante, lo scambio di oggetti, e in particolare di generi alimentari «provenienti dai consueti canali (pacco famiglia, acquisti effettuati attraverso il circuito interno dell'istituto penitenziario in base al cd. mod. 72)», non poteva mettere a rischio il perseguimento delle finalità cui è preordinato il regime carcerario previsto dall'art. 41-bis ordin. penit., considerato che i detenuti interessati allo scambio erano già stati ammessi «a fruire in comune la cd. socialità».

Espone ancora il rimettente che il Magistrato di sorveglianza di Spoleto ha dichiarato inammissibile il reclamo presentato ai sensi dell'art. 35-bis ordin. penit., conformemente a quanto previsto dall'art. 4, comma 1, della circolare del 2 ottobre 2017, n. 3676/6126, del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria (d'ora innanzi: DAP), non potendosi riconoscere la sussistenza di alcun diritto soggettivo avente ad oggetto «il passaggio di generi alimentari ad altri ristretti».

Tale provvedimento di inammissibilità era oggetto di reclamo, accolto, dinnanzi al Tribunale di sorveglianza di Perugia. Secondo il collegio, lo scambio di oggetti (e di generi alimentari in particolare, provenienti dai pacchi famiglia, dal sopravvitto, dal cibo somministrato dalla stessa amministrazione penitenziaria) riceverebbe tutela in base al combinato disposto degli artt. 35-bis e 69, comma 6, lettera b), della legge n. 354 del 1975. Dovrebbe in particolare riconoscersi un diritto soggettivo «a fruire di momenti di socialità tra persone ristrette» anche al detenuto sottoposto a regime differenziato, il quale può condividere la cosiddetta socialità all'interno del relativo "gruppo", secondo quanto previsto dallo stesso art. 41-bis ordin. penit. e dall'art. 3.1 della citata circolare del DAP. Del resto, sempre secondo il Tribunale di sorveglianza, essendo lo scambio di oggetti comunque limitato a quelli di «modico valore» - in base alla previsione generale dell'art. 15 del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230 (Regolamento recante norme sull'ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà) - non sarebbe possibile configurare alcuna «posizione di supremazia» tra i detenuti. In definitiva, il divieto di scambio tra soggetti del medesimo gruppo di socialità non sarebbe giustificabile in forza di «ragioni di sicurezza», non potendosi rilevare «alcuna congruità tra lo stesso e il fine perseguito dal regime differenziato, costituito dalla necessità di recidere i collegamenti tra il detenuto e l'associazione criminale di appartenenza». Infine, sempre secondo il collegio, poiché i detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità possono incontrarsi liberamente, dovrebbe escludersi che, attraverso il divieto di scambio di oggetti di modico valore (e di generi alimentari), possa essere «neutralizzato il pericolo per l'ordine e la sicurezza costituito dal passaggio di comunicazioni non consentite, potendo le stesse essere trasmesse oralmente».

Riferisce la Corte di cassazione rimettente che, sulla base di tali premesse, il Tribunale di sorveglianza di Perugia, con ordinanza, ha disposto la disapplicazione dell'art. 4, comma 1, della circolare del DAP del 2 ottobre 2017 e dell'ordine di servizio della direzione della casa di reclusione, oggetto dell'originaria impugnazione. Ricorda inoltre la Corte come sia stato ordinato alla stessa direzione di emettere un diverso ordine di servizio, volto a consentire il passaggio di oggetti e di generi alimentari tra i detenuti facenti parte del medesimo gruppo di socialità cui il reclamante è assegnato.

Contro questa ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il Ministero della giustizia, sostenendo che l'interpretazione fornita dal Tribunale di sorveglianza di Perugia sarebbe «contraria all'inequivoco tenore letterale» della disposizione censurata. Quest'ultima, «secondo quanto confermato dalla giurisprudenza di legittimità», non consentirebbe di superare il divieto di scambio di oggetti anche tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità: secondo il ricorrente, la formulazione letterale della disposizione, «chiarissima nello statuire che solo il divieto di comunicazione ammette deroga all'interno del medesimo gruppo di socialità», si giustificherebbe con la considerazione che lo scambio di oggetti non sarebbe «così essenziale alla socializzazione come il comunicare», risultando quindi ragionevole il divieto di procedervi nell'ambito del «bilanciamento tra l'interesse alla socializzazione del detenuto e l'interesse (fondante il regime del 41-bis) ad arginare flussi informativi tra detenuti in regime speciale».

2.1.- Ciò premesso in punto di fatto, il collegio rimettente evidenzia che la disposizione censurata prevede, testualmente, la adozione di «tutte le necessarie misure di sicurezza, anche attraverso accorgimenti di natura logistica sui locali di detenzione, volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti e cuocere cibi».

Ricostruisce, poi, l'interpretazione di tale disposizione offerta dalla giurisprudenza di legittimità, riproducendo, in particolare, brani della motivazione della sentenza della Corte di cassazione, sezione prima penale, 8 febbraio 2017, n. 5977, secondo cui «tenendo conto del significato e della connessione delle parole e dei segni grafici utilizzati, nonché del senso logico del testo», deve ritenersi, «soprattutto in considerazione dell'inserimento del segno di interpunzione della virgola fra le parole "socialità" e "scambiare", (...) che, nel periodo sintattico in esame, le varie proposizioni riferite a comportamenti dei detenuti, in ordine ai quali va perseguita la "assoluta impossibilità" di realizzazione, siano costituiti, per un verso, dalla comunicazione fra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità e, per altro verso, dallo scambio di oggetti e dalla cottura di cibi». Diversamente, infatti, «la disposizione avrebbe contemplato "la assoluta impossibilità di comunicare e scambiare oggetti tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, e di cuocere cibi"». Pertanto, il perseguimento della "assoluta impossibilità" deve ritenersi «riferito alle comunicazioni fra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, con l'ovvia conseguenza che non è richiesto di impedire in modo così radicale le comunicazioni fra i detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità»; mentre «la necessità di assicurare la "assoluta impossibilità" dello scambio di oggetti riguarda tutti gli scambi fra detenuti, e non è limitata ai soli scambi fra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità».

Il collegio rimettente afferma di condividere tale interpretazione, ribadita in diverse successive pronunce della Corte di legittimità (sono richiamate le sentenze della Corte di cassazione, sezione prima penale, 4 luglio 2019, n. 29301 e n. 29300, e 1° febbraio 2018, n. 4993), sicché esclude di poter pervenire «a un epilogo esegetico di significato opposto a quello fatto palese dal significato delle parole che quell'enunciato compongono».

2.2.- Ciò premesso, ritiene la Corte di legittimità che la disposizione censurata, nella parte in cui impone il divieto di scambio di oggetti tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità, proprio perché non suscettibile di assumere un differente significato, sia incompatibile con il dettato costituzionale.

Il giudice a quo muove dal presupposto che, secondo la giurisprudenza costituzionale, la funzione della sospensione del regime penitenziario ordinario prevista dall'art. 41-bis ordin. penit. sarebbe quella di «rescindere i collegamenti ancora attuali sia tra i detenuti che appartengano a determinate organizzazioni criminali, sia tra gli stessi e gli altri componenti del sodalizio che si trovano in libertà». Un obiettivo perseguito mediante la previsione di una serie di significative restrizioni a quegli istituti dell'ordinamento penitenziario che, ordinariamente rivolti a favorire il reinserimento sociale dei detenuti, sono tuttavia suscettibili di favorire il mantenimento dei contatti con l'ambiente esterno e, in particolare, con la consorteria criminale di appartenenza, consentendo ai reclusi di continuare a impartire direttive all'esterno o di mantenere, anche dall'interno del carcere, il controllo sulle attività criminose dell'associazione (sono citate le pronunce n. 122 del 2017, n. 143 del 2013, n. 417 del 2004, n. 192 del 1998 e n. 376 del 1997).

Ricorda, tuttavia, che quella medesima giurisprudenza costituzionale avrebbe imposto due limiti al regime differenziato.

Il primo vincolo, direttamente discendente dall'art. 3 Cost., atterrebbe «alla congruità della misura applicata rispetto allo scopo che essa persegue», sicché non potrebbero essere imposte misure non riconducibili alla concreta esigenza di tutelare l'ordine e la sicurezza e, come tali, aventi una «portata puramente afflittiva», ingiustificabile anche laddove mirassero a uno «scopo "dimostrativo", volto cioè a privare una categoria di detenuti di quelle che vengono considerate manifestazioni di "potere reale" e occasioni per aggregare intorno ad essi "consenso" traducibile in termini di potenzialità offensive criminali». Tale finalità andrebbe, piuttosto, perseguita attraverso la definizione e l'applicazione rigorosa e imparziale delle regole del trattamento carcerario (viene richiamata la sentenza n. 351 del 1996).

Il secondo limite discenderebbe dai principi fissati nell'art. 27 Cost., in forza dei quali le restrizioni disposte ai sensi dell'art. 41-bis, comma 2, ordin. penit. non potrebbero mai essere tali da «vanificare completamente la necessaria finalità rieducativa della pena e da violare il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità» (sono richiamate le sentenze n. 149 del 2018, n. 351 del 1996 e n. 349 del 1993).

A parere del collegio rimettente, mentre il divieto di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità «appare effettivamente funzionale a garantire gli obiettivi di prevenzione della misura», l'ulteriore disposizione, concernente il divieto di scambio di oggetti, in quanto riferito, indifferentemente, a tutti i detenuti in regime differenziato, ancorché appartenenti al medesimo gruppo di socialità, non potrebbe, invece, ritenersi «funzionale a fronteggiare alcun pericolo per la sicurezza pubblica, assumendo "una portata meramente afflittiva"».

Secondo il giudice a quo, infatti, solo lo scambio di oggetti tra soggetti assegnati a differenti gruppi di socialità potrebbe consentire di veicolare informazioni tra detenuti che l'amministrazione penitenziaria ha ritenuto di non ammettere ad alcun tipo di comunicazione tra loro, «proprio per interrompere ogni forma di relazione e per ovviare al pericolo della circolazione di determinate conoscenze». Tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità, viceversa, tale «essenziale esigenza» sarebbe, «per definizione, inesistente, dal momento che proprio la comune appartenenza al medesimo gruppo consentirebbe, a monte, lo scambio di qualunque contenuto informativo; e ciò senza dover ricorrere, appunto, allo scambio di oggetti».

Nella visione del collegio rimettente, neppure potrebbe ritenersi che il divieto di scambio di oggetti possa giustificarsi in rapporto alla necessità di impedire che taluno degli appartenenti al medesimo gruppo di socialità possa acquisire, attraverso tale scambio, una posizione di supremazia nel contesto penitenziario. Tale convincimento è rafforzato nel rimettente dalla sentenza n. 186 del 2018 della Corte costituzionale, secondo cui il manifestarsi, all'interno del carcere, di forme di "potere" dei detenuti più forti o più facoltosi, suscettibili anche di rafforzare le organizzazioni criminali, deve essere impedito «attraverso la definizione e l'applicazione rigorosa e imparziale delle regole del trattamento carcerario» e «non potrebbe, per converso, considerarsi legittimo, a questo scopo, l'impiego di misure più restrittive nei confronti di singoli detenuti in funzione di semplice discriminazione negativa, non altrimenti giustificata, rispetto alle regole e ai diritti valevoli per tutti».

A tale proposito, ricorda ancora il rimettente, già la regola generale, posta dall'art. 15 del d.P.R. n. 230 del 2000, consente solo la cessione o lo scambio di beni «di "modico valore"»: nel caso di specie, verrebbero in questione generi alimentari (zucchero, caffè et similia) o, comunque, di prima necessità (per l'igiene personale o la pulizia della cella) inviati dall'esterno - e quindi ulteriormente limitati ai sensi dell'art. 41-bis, comma 2-quater, lettera c), ordin. penit. - o acquistati al cosiddetto sopravvitto, sicché la possibilità di un utilizzo di beni di rilevante valore quale mezzo di accrescimento del potere in ambito carcerario dovrebbe «ritenersi esclusa in radice».

Già in relazione al solo art. 3 Cost., dunque, il divieto in esame configurerebbe «una ingiustificata disparità di trattamento rispetto ai ristretti in regime ordinario e una irragionevole limitazione dal significato inutilmente vessatorio».

La stessa preclusione, per altro, contrasterebbe anche con il principio del finalismo rieducativo della pena, di cui all'art. 27 Cost., oltre ad integrare una limitazione al regime penitenziario ordinario contraria al senso di umanità: una volta stabilito che il diritto alla socialità debba essere esercitato nell'ambito di un limitato gruppo di detenuti, selezionato dalla stessa amministrazione penitenziaria in ragione della necessità di impedire il mantenimento dei legami con il contesto criminale di provenienza, la ulteriore limitazione conseguente all'applicazione del divieto imposto dalla disposizione censurata, nell'impedire «anche quelle forme "minime" di socialità che si estrinsecano nello scambio di oggetti di scarso valore e di immediata utilità o di generi alimentari tra persone che si frequentano "senza filtri" ogni giorno e in una prospettiva di normalità di rapporti interpersonali», finirebbe per realizzare una non consentita limitazione dei principi presidiati dall'art. 27 Cost.

2.3.- Quanto al profilo della rilevanza, il collegio rimettente evidenzia che solo la declaratoria di illegittimità costituzionale, sia pure in parte qua, dell'art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), ordin. penit. «farebbe venire meno la base legale degli atti dell'Amministrazione penitenziaria in relazione ai quali è stato proposto il reclamo» e, segnatamente, dell'ordine di servizio 15 marzo 2015 e della circolare n. 3676/6126 del 2017 successivamente emanata dal DAP. Una tale pronuncia determinerebbe «il riespandersi, anche per tale categoria di reclusi, delle previsioni generali legate al diritto alla socialità quale momento essenziale del trattamento penitenziario» e, dunque, anche della facoltà di cedere «oggetti di modico valore» accordata a detenuti e internati dall'art. 15, comma 2, del d.P.R. n. 230 del 2000, sicché anche per i reclusi sottoposti al regime differenziato diventerebbe esperibile il reclamo previsto, per il caso della lesione di diritti soggettivi, dal combinato disposto degli artt. 35-bis, comma 3, e 69, comma 6, lettera b), ordin. penit., in virtù dei quali il magistrato di sorveglianza, se accerta la sussistenza e l'attualità del pregiudizio, ordina all'amministrazione penitenziaria di porvi rimedio entro un determinato termine. Evidenzia il collegio rimettente, infatti, che, sebbene il comma 2-sexies dell'art. 41-bis ordin. penit. abbia limitato il sindacato giurisdizionale sul regime detentivo speciale alla verifica della sussistenza dei presupposti applicativi, deve comunque ritenersi esperibile un controllo giudiziale sul contenuto dell'atto (viene richiamata la sentenza n. 190 del 2010 della Corte costituzionale), oggi esercitabile, appunto, attraverso lo strumento del reclamo di cui all'art. 35-bis ordin. penit.

2.4.- Si è costituito G. G., condividendo le argomentazioni dell'ordinanza di rimessione e chiedendo l'accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale in essa sollevate. La parte sottolinea, in particolare, quanto affermato nella sentenza n. 186 del 2018 della Corte costituzionale, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), ordin. penit., limitatamente alle parole «e cuocere cibi».

3.- Nel giudizio iscritto al r.o. n. 223 del 2019, il collegio rimettente espone, in punto di fatto, che C. G., sottoposto al regime differenziato previsto dall'art. 41-bis ordin. penit., ha proposto reclamo, ai sensi dell'art. 35-bis ordin. penit., al Magistrato di sorveglianza di Spoleto, contro l'ordine di servizio n. 40 del 22 dicembre 2017, sulla cui base la direzione dell'istituto penitenziario ha disposto che, in conformità dell'art. 4 della circolare del DAP n. 3676/6126 del 2017, a decorrere dal 15 gennaio 2018 deve ritenersi vietato lo scambio di oggetti di qualunque genere, quand'anche realizzato tra detenuti appartenenti al medesimo "gruppo di socialità". Il reclamante si sarebbe trovato improvvisamente impossibilitato a scambiare, con i detenuti inclusi nel gruppo di socialità di appartenenza, generi alimentari e oggetti destinati all'igiene personale o alla pulizia della stanza detentiva.

Con ordinanza del 27 marzo 2018, il Magistrato di sorveglianza di Spoleto ha accolto il reclamo, ordinando alla direzione dell'istituto penitenziario di adottare un ordine di servizio tale da circoscrivere il divieto in questione ai soli detenuti non facenti parte del medesimo gruppo di socialità.

Contro il provvedimento di accoglimento ha proposto reclamo il Ministero della giustizia, chiedendo al Tribunale di sorveglianza di Perugia l'annullamento dell'ordinanza impugnata, sulla base della considerazione che il divieto di scambio di generi alimentari "infragruppo" sarebbe funzionale, non solo ad impedire posizioni di predominio tra i detenuti, ma anche ad evitare che vengano occultati beni, oggetti o messaggi diretti a mantenere i contatti con il sodalizio criminoso.

Il Tribunale di sorveglianza di Perugia ha rigettato il reclamo, per motivi analoghi a quelli illustrati al precedente punto 2. In aggiunta, ha osservato che gli scambi in esame, quando ancora autorizzati, non hanno mai previsto la traditio diretta del bene tra un detenuto e l'altro, essendo inibito ai reclusi di portare con sé degli oggetti all'uscita della stanza detentiva, con le modeste deroghe (bottiglietta d'acqua, pacchetto di fazzoletti di carta, eccetera) previste dall'art. 11.2 della più volte citata circolare DAP del 2 ottobre 2017 e sussistendo, in ogni caso, «il filtro del controllo visivo quale ulteriore meccanismo a presidio di eventuali comunicazioni fraudolente».

Avverso l'ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Perugia ha proposto ricorso per cassazione il Ministero della giustizia, articolando le medesime considerazioni già illustrate in precedenza, in relazione al giudizio r.o. n. 222 del 2019.

3.1.- In punto di rilevanza e di non manifesta infondatezza, il giudice a quo adduce argomentazioni coincidenti con quelle dell'ordinanza iscritta al r.o. n. 222 del 2019, illustrate ai precedenti punti 2.2 e 2.3.

3.2.- Si è costituito C. G., aderendo all'impostazione dell'ordinanza di rimessione e chiedendo l'accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale.

4.- In entrambi i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, depositando atti di analogo tenore e concludendo per la non fondatezza delle questioni.

Secondo l'Avvocatura generale dello Stato, se la funzione del regime speciale è quella di impedire determinate comunicazioni, risulta «evidente» che anche la socialità, nei particolari termini in cui è consentita, «non è altro che un momento di dialogo che, necessario perché il detenuto conservi la possibilità di mantenere i rapporti sociali, può comunque trasformarsi in uno strumento per la trasmissione di messaggi all'esterno, che possono transitare ai familiari di taluno degli interlocutori».

Al fine di ridurre tale concreto rischio, il legislatore non solo avrebbe circoscritto gli incontri intramurari del detenuto sottoposto al regime differenziato al solo gruppo di socialità di appartenenza, ma avrebbe anche disposto che all'interno di tale gruppo le comunicazioni non assumano modalità diverse da quelle forme, gestuali o verbali, con le quali si intrecciano, primariamente, le relazioni umane.

La scelta del legislatore di vietare lo scambio o la cessione di oggetti anche con altri detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità avrebbe lo scopo di neutralizzare (o quantomeno ridurre) «il concreto e serio rischio che si vanifichino le peculiari finalità che quel regime mira a tutelare»: in assenza del divieto censurato, infatti, si consentirebbe «di veicolare all'interno del gruppo informazioni il cui contenuto sarebbe difficilmente intellegibile da parte del personale dell'Amministrazione, nonostante gli eventuali controlli auditivi o visivi apprestati, [...] anche qualora ne fosse autorizzata l'intercettazione da parte dell'A.G.».

Secondo l'Avvocatura, a qualunque oggetto sarebbe possibile attribuire convenzionalmente un determinato «significato comunicativo», anche quando la res sia priva di una valenza simbolica intrinseca, sicché, tramite lo scambio di oggetti fra detenuti appartenenti allo stesso gruppo di socialità, si finirebbe per consentire anche l'eventuale «passaggio di informazioni criptate fra detenuti sottoposti al regime speciale all'interno dell'ambiente carcerario e poi, per il tramite dei colloqui di costoro con i familiari, anche all'esterno».

In definitiva, il legislatore, con una scelta «non irragionevole», avrebbe voluto evitare che lo scambio di oggetti, sia pure all'interno dello stesso gruppo di socialità, possa essere utilizzato come forma di comunicazione non verbale e, come tale, «di assai più difficile leggibilità nello svolgimento dei necessari controlli a cui i detenuti sono sottoposti».

Inoltre, sempre secondo l'Avvocatura generale, per il tramite dello scambio o della cessione di oggetti potrebbero affermarsi, all'interno dello stesso gruppo di socialità, logiche di sopraffazione che condurrebbero «il detenuto più debole, per carisma personale o per carica rivestita all'interno dell'organizzazione criminale di appartenenza, a soggiacere alle prevaricazioni di uno di quei pochi soggetti con i quali egli può avere contatti con immaginabili conseguenze in termini di sicurezza all'interno dell'istituto penitenziario».

Per gli stessi motivi, l'Avvocatura considera «non pertinente» il richiamo operato dalle ordinanze di rimessione alla sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 2018, con la quale è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3 e 27 Cost., l'art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), ordin. penit., limitatamente alle parole «e cuocere cibi». L'interveniente, infatti, riconosce che il divieto di cuocere cibi, che la norma invalidata imponeva ai soli detenuti in regime differenziato, implicava una deroga ingiustificata all'ordinario regime carcerario, perché dotata di valenza «meramente e ulteriormente afflittiva, incongrua e inutile» rispetto alle esigenze che giustificano il regime differenziato. Ritiene, però, che quella medesima valutazione non si attagli al divieto di scambio di oggetti tra detenuti sottoposti al regime suddetto: diversamente dal divieto di cuocere cibi (attività quest'ultima ritenuta ontologicamente estranea al concetto di comunicazione), il divieto qui censurato «sottende la necessità di evitare [...] che lo scambio di oggetti possa essere utilizzato come forma di comunicazione non verbale tra detenuti, di complessa decifrabilità in fase di controllo».

5.- Entrambe le parti, in prossimità dell'udienza, hanno depositato memorie, ribadendo le conclusioni già avanzate negli atti di costituzione.

Esse replicano all'argomento addotto dall'Avvocatura generale dello Stato, secondo cui all'oggetto scambiato si potrebbe attribuire un significato comunicativo convenzionale da trasmettere all'esterno: in particolare, la parte costituita nel giudizio iscritto al r.o. n. 222 del 2019 osserva che, nel corso dei colloqui visivi con i familiari, i detenuti non possono portare alcun oggetto, «fatta eccezione per una bottiglia di acqua (priva dell'etichetta) e un pacchetto di fazzoletti di carta» e che tali colloqui sono video registrati, sicché «qualunque gesto o parola di dubbio significato viene annotata e segnalata alla competente Autorità».

6.- L'Avvocatura generale dello Stato ha depositato, in data 15 aprile 2020, e dunque tardivamente, ulteriori memorie.

7.- In data 28 aprile 2020, in forza delle nuove modalità previste dal punto 1), lettera c), del decreto della Presidente della Corte costituzionale del 20 aprile 2020, l'Avvocatura generale dello Stato ha depositato, in entrambi i giudizi, brevi note finalizzate a svolgere alcune puntualizzazioni, alla luce delle considerazioni sviluppate dalle parti nelle memorie depositate in vista dell'udienza, ribadendo, in conclusione, la richiesta di rigetto delle questioni di legittimità costituzionale, in quanto non fondate. Con la nota relativa al giudizio iscritto al r.o. n. 223 del 2019, ha aggiunto di ritenere «necessario che il legislatore individui divieti specifici, sottratti alla discrezionalità della singola struttura, al fine di pervenire al raggiungimento delle predette esigenze di sicurezza sottese all'istituto dell'art 41 bis ord. pen.», non potendo rimettersi «ad una valutazione "caso per caso"» il divieto di cessione di oggetti o cose tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.- La Corte di cassazione, sezione prima penale, con due ordinanze di analogo tenore, solleva, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell'art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), «nella parte in cui prevede che siano adottate tutte le necessarie misure di sicurezza volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità di scambiare oggetti per i detenuti in regime differenziato appartenenti al medesimo gruppo di socialità».

2.- In entrambi i giudizi, la Corte di legittimità rimettente si trova a decidere su ricorsi proposti dal Ministero della giustizia avverso ordinanze emesse dal Tribunale di sorveglianza di Perugia, investito da reclami proposti in ordine alle modalità attuative del regime penitenziario differenziato di cui all'art. 41-bis ordin. penit. e, in particolare, del divieto di scambio di oggetti tra detenuti previsto dal comma 2-quater, lettera f) dell'articolo da ultimo citato e applicato dall'amministrazione penitenziaria con appositi ordini di servizio, anche in esecuzione della circolare del 2 ottobre 2017, n. 3676/6126, del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria (d'ora innanzi: DAP).

Il Tribunale di sorveglianza di Perugia - nel primo caso accogliendo il reclamo del detenuto, nell'altro rigettando quello del Ministero della giustizia - ha ordinato ai direttori degli istituti penitenziari di consentire lo scambio di oggetti (in particolare, generi alimentari provenienti dai pacchi famiglia, dal sopravvitto o dal cibo somministrato dalla stessa amministrazione penitenziaria, nonché beni di prima necessità, per l'igiene personale o la pulizia della cella) tra detenuti soggetti al regime speciale ai sensi dell'art. 41-bis ordin. penit., e appartenenti al medesimo gruppo di socialità.

La disposizione censurata prevede, testualmente, l'adozione di «tutte le necessarie misure di sicurezza, anche attraverso accorgimenti di natura logistica sui locali di detenzione, volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti» («e cuocere cibi», recitava la norma prima della sentenza n. 186 del 2018 di questa Corte, che l'ha dichiarata costituzionalmente illegittima in questa parte). Il giudice del reclamo, nell'interpretare la disposizione, ha ritenuto che il divieto in essa stabilito, ove applicato anche ai detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità, non sarebbe giustificabile in forza di «ragioni di sicurezza».

Non si potrebbe, infatti, riconoscere «alcuna congruità» tra la suddetta interdizione e «il fine perseguito dal regime differenziato, costituito dalla necessità di recidere i collegamenti tra il detenuto e l'associazione criminale di appartenenza».

Ciò premesso in punto di fatto, il collegio rimettente sottolinea che compito dell'interprete è «quello di verificare la compatibilità costituzionale delle disposizioni di legge non suscettibili, senza forzature ermeneutiche, di assumere un differente significato normativo», investendo, se del caso, questa Corte delle relative questioni di legittimità costituzionale.

In sostanza, il giudice a quo sottolinea di non poter pervenire alla medesima interpretazione, in ipotesi costituzionalmente conforme, accolta dal Tribunale di sorveglianza di Perugia, giacché si tratterebbe di un'esegesi di segno opposto a quello fatto palese dal significato proprio delle parole utilizzate dal legislatore, secondo la loro connessione. Aderisce, perciò, all'interpretazione accolta dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui «tenendo conto del significato e della connessione delle parole e dei segni grafici utilizzati, nonché del senso logico del testo», «la necessità di assicurare la "assoluta impossibilità" dello scambio di oggetti riguarda tutti gli scambi fra detenuti, e non è limitata ai soli scambi fra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità» (è citata, in particolare, la sentenza della Corte di cassazione, sezione prima penale, 8 febbraio 2017, n. 5977).

Chiarito il contenuto normativo della disposizione, il collegio rimettente la ritiene in contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost., sollevando le indicate questioni di legittimità costituzionale.

2.1.- Premette il giudice a quo che, secondo la giurisprudenza costituzionale, la funzione della sospensione delle regole del regime penitenziario ordinario prevista dall'art. 41-bis ordin. penit. sarebbe quella di «rescindere i collegamenti ancora attuali sia tra i detenuti che appartengano a determinate organizzazioni criminali, sia tra gli stessi e gli altri componenti del sodalizio che si trovano in libertà» (sono richiamate le pronunce n. 122 del 2017, n. 143 del 2013, n. 417 del 2004, n. 192 del 1998 e n. 376 del 1997).

Ricorda, tuttavia, anche i limiti che quella medesima giurisprudenza costituzionale avrebbe imposto al regime differenziato.

Il primo di essi, direttamente collegato all'art. 3 Cost., atterrebbe «alla congruità della misura applicata rispetto allo scopo che essa persegue»; l'altro, imposto dal rispetto dell'art. 27 Cost., impedirebbe alle restrizioni ordinate ai sensi dell'art. 41-bis, comma 2, ordin. penit. di «vanificare completamente la necessaria finalità rieducativa della pena» e di «violare il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità» (sono richiamate le sentenze n. 149 del 2018, n. 351 del 1996 e n. 349 del 1993).

Alla luce di tali principi, il divieto di scambio di oggetti, in quanto riferito, indifferentemente, a tutti i detenuti sottoposti al regime speciale di cui si discute, ancorché appartenenti al medesimo gruppo di socialità, non potrebbe ritenersi «funzionale a fronteggiare alcun pericolo per la sicurezza pubblica, assumendo "una portata meramente afflittiva"», ingiustificabile anche laddove mirata ad evitare l'instaurazione di posizioni di dominio all'interno della comunità carceraria.

L'incongruità rispetto al fine di recidere i collegamenti ancora attuali tra i detenuti soggetti al regime di cui all'art. 41-bis ordin. penit. e tra gli stessi e gli altri componenti del sodalizio che si trovano in libertà, discenderebbe dal fatto che la comune appartenenza al medesimo gruppo di socialità consente, «a monte, lo scambio di qualunque contenuto informativo; e ciò senza dover ricorrere, appunto, allo scambio di oggetti».

L'inutilità del divieto censurato sarebbe, altresì, evidente anche in rapporto alla necessità di prevenire la formazione o il consolidamento di logiche di prevaricazione all'interno del medesimo gruppo di socialità, a tanto bastando - secondo principi ribaditi, da ultimo, nella sentenza n. 186 del 2018 di questa Corte - «la definizione e l'applicazione rigorosa e imparziale delle regole del trattamento carcerario», tra le quali rileva, in particolare, la regola generale dettata dall'art. 15 del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230 (Regolamento recante norme sull'ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà), che consente la cessione o lo scambio unicamente di «oggetti di modico valore».

Il divieto in esame, inoltre, sarebbe in contrasto anche con il principio del finalismo rieducativo della pena, presidiato dall'art. 27 Cost., oltre ad integrare una limitazione al regime penitenziario ordinario contraria al senso di umanità.

2.2.- Quanto al profilo della rilevanza, il collegio rimettente evidenzia che solo la dichiarazione di illegittimità costituzionale, sia pure in parte qua, dell'art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), ordin. penit. «farebbe venire meno la base legale degli atti dell'Amministrazione penitenziaria in relazione ai quali è stato proposto [l'originario] reclamo», consentendo al magistrato di sorveglianza di disapplicarli e di impartire all'amministrazione stessa ordini di segno opposto.

3.- Le due ordinanze di rimessione censurano la stessa disposizione ed evocano i medesimi parametri costituzionali. I relativi giudizi vanno perciò riuniti, per essere decisi con un'unica sentenza.

4.- Il giudice a quo solleva le ricordate questioni di legittimità costituzionale dopo aver individuato, sulla base di un'univoca interpretazione testuale, il significato normativo della disposizione censurata, e dopo aver precisato che una diversa lettura è impedita proprio dal suo tenore letterale.

Al lume della giurisprudenza costituzionale, va preliminarmente sottolineato che questo iter argomentativo, percorso in entrambe le ordinanze, è corretto e consente l'accesso al merito. Infatti, questa Corte afferma in modo ormai costante che, laddove il rimettente abbia considerato la possibilità di un'interpretazione idonea a eliminare il dubbio di legittimità costituzionale, e l'abbia motivatamente scartata, la valutazione sulla correttezza dell'opzione ermeneutica prescelta riguarda non già l'ammissibilità della questione sollevata, bensì il merito di essa (ex multis, sentenze n. 50 e n. 11 del 2020, n. 241 e n. 189 del 2019, sentenza n. 135 del 2018).

5.- Con la legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), contenente un ampio ventaglio di interventi nella materia evocata dal titolo della legge stessa, appunto la sicurezza pubblica, è stata profondamente incisa anche la disciplina recata dall'art. 41-bis ordin. penit., attraverso una serie di modifiche volte chiaramente a irrigidire il regime carcerario speciale.

Per la parte che qui particolarmente interessa, il comma 2-quater dell'art. 41-bis è stato modificato, eliminandosi ogni discrezionalità nella applicazione delle condizioni detentive speciali come è fatto palese dal tenore letterale della disposizione, secondo cui il provvedimento ministeriale di sospensione delle regole di trattamento carcerario «prevede», e non più «può prevedere», le misure dettagliate alle successive lettere (salvo quanto disposto dalla lettera a del medesimo comma, di cui si dirà più avanti al punto 8). La novella, in sostanza, elenca una serie di misure specifiche, che costituiscono il contenuto tipico e necessario del regime speciale (sentenze n. 186 del 2018 e n. 122 del 2017). Dette misure, frutto di una valutazione svolta in via generale, ex ante, dal legislatore, devono perciò essere obbligatoriamente applicate a tutti i detenuti sottoposti a tale regime.

Tra le misure in questione figurano quelle disposte alla lettera f) dell'art. 41-bis, comma 2-quater, ordin. penit., oggetto del presente giudizio di legittimità costituzionale. Esse, pur assicurando anche ai detenuti in questione indispensabili momenti e forme di "socialità" intramuraria, circoscrivono queste relazioni all'interno di gruppi ristretti, costituiti da non più di quattro persone, limitandone altresì la durata massima.

I gruppi di socialità rappresentano la modalità prescelta dal legislatore per conciliare, da una parte, la finalità essenziale del regime differenziato (evitare che i detenuti più pericolosi possano mantenere vivi i propri collegamenti con le organizzazioni criminali di riferimento) e, dall'altra, l'esigenza di garantire le accennate forme indispensabili di socialità.

In questa chiave, è soprattutto fatto carico all'amministrazione penitenziaria di adottare «tutte le necessarie misure di sicurezza, anche attraverso accorgimenti di natura logistica sui locali di detenzione, volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti».

La disposizione ha dunque l'obbiettivo essenziale di mantenere gli incontri intramurari all'interno di determinati "gruppi di socialità", e di evitare invece contatti tra detenuti appartenenti a gruppi diversi. La composizione di ciascun singolo gruppo, sempre opportunamente modificabile secondo le esigenze che via via si presentino, è governata da complessi criteri (attualmente previsti al punto 3.1 della circolare del 2 ottobre 2017, n. 3676/6126, del DAP), ispirati alla necessità di evitare ogni occasione di rafforzamento delle consorterie criminali, nonché ogni possibilità che vengano scambiati con l'esterno ordini, informazioni e notizie.

Per questo, come si è detto, contenuto essenziale della citata lettera f) è la «assoluta impossibilità di comunicare fra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità», sul presupposto che, invece, una inevitabile relazione comunicativa possa svilupparsi fra i detenuti che al medesimo gruppo di socialità siano assegnati.

Tuttavia, nella lettura del rimettente, assume distinto rilievo anche l'ulteriore divieto, relativo allo scambio di oggetti. Sintatticamente e morfologicamente separato dal primo, esso assume un significato non già servente e accessorio al divieto di comunicazioni tra detenuti assegnati a gruppi diversi, ma una portata normativa autonoma, con efficacia per tutti i detenuti soggetti al regime speciale, pur se appartenenti al medesimo gruppo di socialità, impedendo perciò lo scambio di oggetti anche tra i detenuti già autorizzati a trascorrere insieme, all'interno del carcere, alcune ore della giornata.

Per vero, tale distinta portata non fu oggetto di esame nei lavori preparatori della ricordata legge n. 94 del 2009, e la stessa prima circolare DAP successiva a tale legge (4 agosto 2009, n. 286202, recante la disciplina dell'«[o]rganizzazione delle sezioni detentive adibite al contenimento di detenuti sottoposti al regime detentivo speciale») fornì una parafrasi non testuale della disposizione censurata, evidenziando la necessità di assicurare «la assoluta impossibilità di comunicare e scambiare oggetti tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità».

Sta di fatto, però, ed è quel che conta, che la giurisprudenza di legittimità (a partire da Cassazione penale, sezione prima penale, 8 febbraio 2017, n. 5977) si è in seguito attestata sulla lettura accolta dalle ordinanze di rimessione, nel senso che «il divieto di scambio di oggetti ha portata generale e che, pertanto, non è ammessa una diversa interpretazione che ne restringa l'ambito applicativo al caso di eterogeneità dei gruppi di socialità» (così, in particolare, Cassazione penale, sezione prima penale, 16 settembre 2019, n. 38223).

6.- Della disposizione così ricostruita nel suo significato normativo va pertanto vagliata la legittimità, alla luce dei parametri costituzionali evocati dal rimettente.

Si tratta, così, di accertare se il divieto legislativo di scambiare oggetti, in quanto necessariamente applicato anche ai detenuti in regime differenziato appartenenti al medesimo gruppo di socialità, determini effetti congrui e proporzionati, sia rispetto alle finalità del regime stesso, sia ai limiti cui è soggetta la sua applicazione, quali delineati dalla costante giurisprudenza di questa Corte.

Quanto alle finalità, il regime differenziato previsto dall'art. 41-bis, comma 2, ordin. penit. mira a contenere la pericolosità di singoli detenuti, proiettata anche all'esterno del carcere, in particolare impedendo i collegamenti dei detenuti appartenenti alle organizzazioni criminali tra loro e con i membri di queste che si trovino in libertà: collegamenti che potrebbero realizzarsi attraverso i contatti con il mondo esterno che lo stesso ordinamento penitenziario normalmente favorisce, quali strumenti di reinserimento sociale (sentenze n. 186 del 2018, n. 122 del 2017 e n. 376 del 1998; ordinanze n. 417 del 2004 e n. 192 del 1998).

Ciò che l'applicazione del regime differenziato intende soprattutto evitare è che gli esponenti dell'organizzazione in stato di detenzione, sfruttando l'ordinaria disciplina trattamentale, possano continuare (utilizzando particolarmente, in ipotesi, i colloqui con familiari o terze persone) a impartire direttive agli affiliati in stato di libertà, e così mantenere, anche dall'interno del carcere, il controllo sulle attività delittuose dell'organizzazione stessa (ancora sentenze n. 186 del 2018, n. 122 del 2017 e n. 143 del 2013).

Quanto ai limiti cui soggiace l'applicazione del regime differenziato, la giurisprudenza costituzionale ha chiarito che, in base all'art. 41-bis, comma 2, ordin. penit., è possibile sospendere solo l'applicazione di regole e istituti dell'ordinamento penitenziario che risultino in concreto contrasto con le richiamate esigenze di ordine e sicurezza. Correlativamente, ha affermato non potersi disporre misure che, a causa del loro contenuto, non siano riconducibili a quelle concrete esigenze, poiché si tratterebbe in tal caso di misure palesemente incongrue o inidonee rispetto alle finalità del provvedimento che assegna il detenuto al regime differenziato. Se ciò accade, non solo le misure in questione non risponderebbero più al fine in vista del quale la legge consente siano adottate, ma acquisterebbero un significato diverso, «divenendo ingiustificate deroghe all'ordinario regime carcerario, con una portata puramente afflittiva non riconducibile alla funzione attribuita dalla legge al provvedimento ministeriale» (sentenza n. 351 del 1996).

7.- Questa verifica, operata sulla disposizione censurata, fornisce esito negativo, sicché le sollevate questioni risultano fondate, per violazione degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.

In lesione dell'art. 3 Cost., il divieto di scambiare oggetti, nella parte in cui si applica anche ai detenuti inseriti nel medesimo gruppo di socialità, non risulta né funzionale né congruo rispetto alla finalità tipica ed essenziale del provvedimento di sottoposizione del singolo detenuto al regime differenziato, consistente nell'impedire le sue comunicazioni con l'esterno. In queste condizioni, non è giustificata la deroga - da tale divieto disposta - alla regola ordinariamente valida per i detenuti, che possono scambiare tra loro «oggetti di modico valore» (art. 15, comma 2, del d.P.R. n. 230 del 2000), e la proibizione in parola finisce per assumere un significato meramente afflittivo, in violazione anche dell'art. 27, terzo comma, Cost.

Come meglio si dirà, infine, in ulteriore lesione dei parametri ricordati, il carattere non proporzionato del divieto in questione si evidenzia considerando la scelta legislativa di farne contenuto necessario del regime differenziato, da applicarsi - a prescindere dalle esigenze del caso concreto - ogni qualvolta sia disposto il provvedimento di assegnazione del detenuto al regime differenziato.

7.1.- Questa stessa Corte ha riconosciuto - peraltro, in riferimento al diverso divieto di scambiare con l'esterno libri e riviste, quale risultante dall'applicazione delle misure di cui alle lettere a) e c) del comma 2-quater dell'art. 41-bis - che «qualsiasi oggetto si presta astrattamente ad assumere - per effetto di una precedente convenzione, per la sua valenza simbolica intrinseca o semplicemente per i rapporti interpersonali tra le parti - un determinato significato comunicativo, quando non pure a fungere da sostituto "anomalo" dell'ordinario supporto cartaceo per la redazione di messaggi, o da contenitore per celarli al suo interno» (sentenza n. 122 del 2017).

Nel nostro caso, il significato simbolico o convenzionale insito nell'oggetto scambiato potrebbe efficacemente tradursi, in ipotesi, in una comunicazione da veicolare all'esterno, magari in occasione di un colloquio con familiari o (negli eccezionali casi in cui è consentito) terze persone.

A ben vedere, tuttavia, questa prima giustificazione non convince, proprio sul piano della sua congruità all'obbiettivo.

Il fatto è che i detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità hanno varie occasioni di comunicare qualsiasi messaggio tra loro in forma orale, senza poter essere ascoltati, salve le casuali percezioni degli agenti comunque presenti per sorvegliare gli spazi comuni, e salve le specifiche captazioni o intercettazioni ambientali, che tuttavia devono essere appositamente autorizzate dall'autorità giudiziaria. In quelle stesse occasioni, pur essendo sottoposti a continua videosorveglianza, i detenuti ben possono inoltre scambiare comunicazioni in forma gestuale, dal significato non facilmente intelligibile.

Ciò accade nelle due ore giornaliere d'aria, nei cosiddetti "cortili passeggio", ove è consentito svolgere esercizi fisici e portare solo pochissimi oggetti, per tipologie e quantità espressamente indicate. Accade altresì nelle comunicazioni da cella a cella, posto che, in base alle comuni regole del regime differenziato, le porte blindate delle camere di detenzione restano aperte dalle ore 7 alle ore 22 (d'estate) oppure fino alle ore 20 (d'inverno), e in questi orari ai detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità è consentito parlare tra loro, essendo le rispettive celle generalmente collocate non lontane l'una dall'altra.

È abitualmente prevista, poi, la predisposizione di "salette" - adibite a biblioteca, palestra e sala hobby - per l'attività in comune di tipo culturale, ricreativo e sportivo, possibile per un'ora al giorno (secondo le turnazioni stabilite dalla direzione d'istituto) e attraverso strumenti messi a disposizione dall'amministrazione.

I "cortili passeggio" e le "salette" vengono peraltro perquisiti ogni qualvolta esce e accede un gruppo, e anche nella saletta e nella palestra è consentito portare solo pochi oggetti, per tipologia e quantità espressamente indicate.

In tutte queste occasioni di socialità, anche a non voler considerare i messaggi (in ipotesi inascoltati) dal contenuto inequivocabile, è ben immaginabile che il più criptico significato simbolico o convenzionale di un oggetto scambiato possa essere agevolmente sostituito da un'esternazione orale o gestuale, apparentemente casuale, ma in realtà dal contenuto chiaro (solo) all'altro detenuto che ascolta od osserva.

In ultima analisi, vale per questa ipotetica giustificazione del divieto - impedire la trasmissione all'esterno del carcere di messaggi funzionali all'attività criminale dell'organizzazione malavitosa - un giudizio di incongruità rispetto allo scopo, cui non può non accompagnarsi, di conseguenza, la sottolineatura del carattere inutilmente e meramente afflittivo della misura.

È la stessa valutazione che questa Corte (sentenza n. 143 del 2013) ebbe a dare sui limiti di cadenza e di durata previsti dalla legge n. 94 del 2009 per i colloqui dei detenuti soggetti al regime differenziato con i propri difensori: non potendo, ovviamente, la disposizione cancellare del tutto quei colloqui, essa introduceva limiti suscettibili, bensì, di penalizzare la difesa, ma inutili a impedire, anche parzialmente, il temuto passaggio di direttive e informazioni tra il carcere e l'esterno. In quel caso - osservò la sentenza - alla indiscutibile compressione del diritto di difesa indotta dalla disposizione censurata, non corrispondeva un paragonabile incremento della tutela dell'interesse alla salvaguardia dell'ordine pubblico e della sicurezza dei cittadini.

Anche in questo caso, in definitiva, alla certa compressione di una forma minima di socialità - estrinsecantesi, peraltro, nell'ambito di una cerchia assai ristretta di soggetti, e consistente nello scambio di cose di scarso valore e di immediata utilità, nella prospettiva di una (assai parziale) "normalità" di rapporti interpersonali - non corrisponde un accrescimento delle garanzie di difesa sociale e sicurezza pubblica.

Comprensibile se riferito a detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, il divieto in esame mostra la sua irragionevolezza se necessariamente applicato anche ai detenuti assegnati al medesimo gruppo.

7.2.- La valutazione non muta nemmeno a considerare l'altra possibile ratio dell'applicazione del divieto all'interno del medesimo gruppo di socialità, laddove cioè si ritenga che la proibizione si giustifichi al fine d'impedire che taluno degli appartenenti al gruppo possa acquisire, attraverso lo scambio di oggetti, una posizione di supremazia nel contesto penitenziario, simbolicamente significativa nell'ottica delle organizzazioni criminali e da comunicare, come tale, all'esterno del carcere.

Questa Corte (sentenza n. 186 del 2018) ha in effetti già affermato che il manifestarsi, all'interno del carcere, di forme di "potere" dei detenuti più forti o più facoltosi, suscettibili anche di rafforzare le organizzazioni criminali, deve essere impedito «attraverso la definizione e l'applicazione rigorosa e imparziale delle regole del trattamento carcerario» e «non potrebbe, per converso, considerarsi legittimo, a questo scopo, l'impiego di misure più restrittive nei confronti di singoli detenuti in funzione di semplice discriminazione negativa, non altrimenti giustificata, rispetto alle regole e ai diritti valevoli per tutti».

A tale proposito, la già ricordata regola generale, posta dall'art. 15, comma 2, del d.P.R. n. 230 del 2000, consente la cessione o lo scambio unicamente di beni di "modico valore", sicché la possibilità di un utilizzo di beni di rilevante valore quale mezzo di accrescimento del potere in ambito carcerario è ragionevolmente da escludersi, già grazie all'applicazione della regola generale.

Nei giudizi a quibus, ad esempio, i beni che si intendevano scambiare con gli altri membri del gruppo di socialità consistevano in generi alimentari (zucchero, caffè et similia) o, comunque, di prima necessità (per l'igiene personale o la pulizia della cella) inviati dall'esterno - e quindi ulteriormente limitati ai sensi dell'art. 41-bis, comma 2-quater, lettera c), ordin. penit. - o acquistati al cosiddetto sopravvitto.

Osserva ancora l'Avvocatura generale dello Stato che lo scambio di oggetti può essere "imposto" all'interno del medesimo gruppo di socialità dal membro di maggiore caratura criminale, allo scopo di dimostrare, attraverso l'esercizio della capacità di costringere gli altri componenti a privarsi di beni essenziali e comunque posseduti in quantità limitata, la sua attitudine a mantenere, o rafforzare, la propria posizione di supremazia, creando "condizioni di sudditanza" all'interno del gruppo, anch'esse tanto più simbolicamente significative, nell'ottica delle organizzazioni criminali, in quanto comunicabili in varia forma all'esterno del carcere.

Anche a questo riguardo, tuttavia, l'applicazione delle regole penitenziarie specificamente dettate per i gruppi di socialità consente la costante osservazione dei gruppi e l'eventuale tempestiva modifica della loro composizione, che ben può essere suggerita proprio dalla rilevazione di un'anomala frequenza e unidirezionalità degli scambi.

In conclusione, la valutazione della ratio in parola non conduce a mutare le considerazioni già svolte, confermandosi anche sotto questo profilo la lesione degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.

8.- Così come non esiste un diritto fondamentale del detenuto sottoposto al regime differenziato a cuocere cibi (sentenza n. 186 del 2018), non esiste un suo diritto fondamentale a scambiare oggetti, nemmeno con i detenuti assegnati al suo stesso gruppo di socialità. E tuttavia, sia cuocere cibi, sia scambiare oggetti, sono facoltà dell'individuo, anche se posto in detenzione, che fanno parte di quei «piccoli gesti di normalità quotidiana» (ancora sentenza n. 186 del 2018), tanto più preziosi in quanto costituenti gli ultimi residui in cui può espandersi la libertà del detenuto stesso (analogamente, sentenza n. 349 del 1993, seguita dalle sentenze n. 20 e n. 122 del 2017 e n. 186 del 2018).

Pertanto, la compressione della possibilità di scambiare oggetti con gli altri detenuti del medesimo gruppo - espressione, questa, di una pur minimale facoltà di socializzazione - e la conseguente deroga all'applicazione delle regole ordinarie, potrebbe giustificarsi non in via generale e astratta, ma solo se esista, nelle specifiche condizioni date, la necessità in concreto di garantire la sicurezza dei cittadini, e la motivata esigenza di prevenire - come recita l'art. 41-bis, comma 2-quater, lettera a), ordin. penit. - «contatti con l'organizzazione criminale di appartenenza o di attuale riferimento, contrasti con elementi di organizzazioni criminali contrapposte, interazione con altri detenuti o internati appartenenti alla medesima organizzazione ovvero ad altre ad essa alleate».

Da questo punto di vista, l'applicazione necessaria e generalizzata del divieto di scambiare oggetti anche ai detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità, sconta il limite di essere frutto di un bilanciamento condotto ex ante dal legislatore, a prescindere, perciò, da una verifica in concreto dell'esistenza delle ricordate, specifiche, esigenze di sicurezza, e senza possibilità di adattamenti calibrati sulle peculiarità dei singoli casi.

È, in definitiva, la previsione ex lege del divieto assoluto a costituire misura sproporzionata, anche sotto questo profilo in contrasto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.

Invece, anche dopo la presente sentenza di accoglimento, in forza della disposizione di cui alla lettera a) del comma 2-quater dell'art. 41-bis ordin. penit. - secondo cui la sospensione delle regole di trattamento e degli istituti di cui al comma 2 può comportare «l'adozione di misure di elevata sicurezza interna ed esterna» - resterà consentito all'amministrazione penitenziaria di disciplinare le modalità di effettuazione degli scambi tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo (ad esempio, qualora concernenti oggetti di cui non sia consentita la detenzione durante i momenti di socialità, prevedendo in proposito una annotazione in appositi registri), nonché di predeterminare le condizioni per introdurre eventuali limitazioni (con riferimento a certi oggetti che, più di altri, si prestano ad essere veicolo di comunicazioni difficilmente decifrabili, come già previsto, ad esempio, per il divieto - già disciplinato dalla citata circolare DAP del 2 ottobre 2017 in via autonoma rispetto a quello, generale, qui censurato - di scambiare libri o copie parziali tra detenuti).

Naturalmente, tali limitazioni dovrebbero risultare giustificate da precise esigenze, da motivare espressamente, e sotto questi profili ben potrebbero essere sindacate, di volta in volta, in relazione al caso concreto, dal magistrato di sorveglianza, in attuazione di quanto disposto dagli artt. 35-bis, comma 3, e 69, comma 6, lettera b), ordin. penit.

9.- In definitiva, il divieto di scambiare oggetti prescritto dalla norma censurata, se applicato necessariamente a detenuti assegnati al medesimo gruppo di socialità, viola gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. Si giustifica perciò, ad opera di questa Corte, l'adozione di un dispositivo di accoglimento che riconduca la disposizione censurata entro i limiti del rispetto dei citati parametri costituzionali, ne elimini la necessaria applicazione anche ai detenuti che a tale medesimo gruppo siano assegnati, e ne circoscriva l'applicazione ai detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità.

L'art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), ordin. penit., deve pertanto essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui prevede l'adozione delle necessarie misure di sicurezza volte a garantire che sia assicurata «la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti» anziché «la assoluta impossibilità di comunicare e scambiare oggetti tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità».

P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui prevede l'adozione delle necessarie misure di sicurezza volte a garantire che sia assicurata «la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti» anziché «la assoluta impossibilità di comunicare e scambiare oggetti tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità».

F. Tundo (cur.)

Codice tributario

La Tribuna, 2024

G. Basile

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Neldiritto, 2024

L. Della Ragione, R. Muzzica

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