Consiglio di Stato
Sezione VI
Sentenza 25 maggio 2020, n. 3306
Presidente: Santoro - Estensore: Lopilato
FATTO
1. Excursus S.r.l. e Turismo & Sviluppo s.r.l. sono rispettivamente la conduttrice dell'immobile e la gerente dell'attività dell'albergo "Hotel Resort Marè", che si trova a Trani, in piazza Quercia numero 8, all'interno di una parte dello storico palazzo Telesio, sottoposto a vincolo storico artistico ai sensi del decreto ministeriale 16 giugno 1955, parte che è di proprietà dell'interveniente nel grado.
Le società avevano progettato un ampio intervento di ristrutturazione di una parte significativa del palazzo Telesio per farne un albergo, con realizzazione sul lastrico solare di un roof garden. Ciò ha richiesto l'assenso dell'amministrazione contenuto in tre titoli edilizi rappresentati dal permesso di costruire originario 2 settembre 2004, n. 43 e da due successivi permessi in variante, 15 settembre 2005, n. 26 e 15 marzo 2006, n. 12.
L'amministrazione comunale ha adottato l'ordinanza 28 dicembre 2015, n. 46, con la quale ha ingiunto la rimozione della struttura in concreto realizzata sul lastrico solare in esame, descritta come roof garden a servizio dell'albergo. Tale ordinanza dà atto che la struttura è realizzata con travi e pilastri di metallo ed è completamente chiusa, essendo provvista di un tetto a due strati di materiale rigido impermeabile e di pareti laterali formate da tendaggi rigidi comprensivi di tende retrattili intervallati da porte dotate di maniglioni antipanico; dà altresì atto che la struttura è dotata di impianti di condizionamento, elettrico e di filodiffusione, e comprende un punto cottura, ovvero una piccola cucina.
2. Le società hanno impugnato tale atto innanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, che, con sentenza 28 luglio 2017, n. 878, ha rigettato il ricorso.
3. Le ricorrenti di primo grado hanno proposto appello.
3.1. La Sezione, con ordinanza 4 marzo 2019, n. 1133 ha rigettato la domanda cautelare rilevando che «non sussistano i presupposti per accogliere l'istanza di sospensione, dal momento che, ad un giudizio tipico proprio della presente fase cautelare, tenuto conto dell'oggetto della dia n. 13656/2009, non appare immediatamente ravvisabile il dedotto vizio revocatorio che, secondo parte ricorrente, caratterizzerebbe la sentenza impugnata».
4. Questo Consiglio, con sentenza 29 ottobre 2018, hanno rigettato l'appello.
5. Le appellanti hanno proposto ricorso per revocazione, per i motivi indicati nella parte in diritto.
5.1. Si è costituito in giudizio il Comune, rilevando la inammissibilità del ricorso.
6. La causa è stata decisa all'esito dell'udienza pubblica del 14 maggio 2020.
DIRITTO
1. La questione poste all'esame della Sezione attiene all'esistenza di un errore revocatorio nella sentenza n. 6161 del 2018.
2. Con un unico motivo, relativo alla fase rescindente, i ricorrenti assumono che la sentenza sopra citata sarebbe inficiata da un errore revocatorio in quanto si sarebbe ritenuto che il roof garden sia privo di un titolo edilizio che «non solo esiste ma è stato anche depositato ritualmente in giudizio». Si tratterebbe della denuncia di inizio attività del 25 marzo 2009, n. 13656.
Il motivo non è fondato.
L'art. 106 c.p.a. stabilisce che «le sentenze dei Tribunali amministrativi regionali e del Consiglio di Stato sono impugnabili per revocazione nei casi e nei modi previsti dagli articoli 395 e 396 del codice di procedura civile».
L'art. 395 c.p.c. prevede, al n. 4, che le sentenze possono essere impugnate per revocazione, tra l'altro, se «la sentenza è l'effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa; vi è tale errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l'inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell'uno quanto nell'altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare».
La giurisprudenza amministrativa afferma costantemente che l'errore di fatto vi è «quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l'inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell'uno quanto nell'altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare». Per aversi errore di fatto revocatorio e, conseguente, «abbaglio dei sensi» del giudice devono, quindi, sussistere contestualmente tre requisiti: i) l'attinenza dell'errore ad un punto non controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato; ii) la «pura e semplice errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale» di atti ritualmente prodotti nel giudizio, «la quale abbia indotto l'organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto di fatto, facendo cioè ritenere esistente un fatto documentalmente escluso o inesistente un fatto documentalmente provato»; iii) la valenza decisiva dell'errore sulla decisione, essendo necessario che vi sia «un rapporto di causalità tra l'erronea supposizione e la pronuncia stessa» (tra le tante, C.d.S., sez. IV, 24 gennaio 2011, n. 503).
Nella fattispecie in esame, la Sezione, al punto 2.3. della motivazione, ha rilevato come l'approvazione da parte della Soprintendenza della tavola 23 AR avrebbe potuto avere il valore di legittimazione dell'intervento soltanto in presenza di due condizioni.
La prima condizione «è che quanto realizzato corrispondesse effettivamente a quanto raffigurato nella tavola». E su questo aspetto la sezione non si è pronunciata, limitandosi ad affermato che ciò «è quanto la difesa delle ricorrenti appellanti afferma, e le controparti contestano».
La seconda condizione «è che quanto realizzato, sempre a prescindere dalle presunte opere minori, si possa ritenere assentito dai permessi di costruire già rilasciati, perché in caso contrario vi sarebbe stata la necessità di munirsi di un nuovo titolo, o di chiedere ed ottenere l'accertamento di conformità per tutta l'opera».
Tali affermazioni sono corrette e non risultano inficiate da errore di fatto revocatorio.
La Sezione è stata chiara nell'affermare, alla luce delle caratteristiche dell'intervento puntualmente riportate, che sarebbe stato necessario il permesso di costruire.
Ne consegue che la prospettazione difensiva dell'appellante non rispetta le condizioni individuate dalla giurisprudenza sopra riportata per tre ragioni, ognuna delle quali in grado di determinare l'inammissibilità del ricorso.
La prima è che la questione relativa alla sussistenza di un titolo legittimate ha rappresentato un punto controverso.
La seconda è che la prospettazione dei ricorrenti si risolve in un asserito errore nella valutazione delle risultanze processuali e, in particolare, nella valutazione di un documento allegato agli atti del processo.
La terza è che la omessa espressa menzione della denuncia di inizio attività rappresenta una omissione irrilevante. Ciò in quanto la sentenza ha ritenuto necessario il permesso di costruire, con la conseguenza che la denuncia di inizio attività non potrebbe avere alcuna concreta rilevanza ai fini della legittimazione edilizia dell'opera. In altri termini, anche se la sentenza avesse espressamente menzionato la denuncia di inizio attività, sarebbe pervenuta al medesimo esito giudiziale in quanto si è chiaramente affermato che il titolo abilitato richiesto, in ragione della natura delle opere realizzate, è il permesso di costruire.
È bene aggiungere che non assume rilievo nel presente giudizio il contenuto della nota 13 gennaio 2020, n. 1769, adottata a seguito di una istanza dei ricorrenti finalizzata ad ottenere copia conforme del titolo edilizio legittimante l'intervento sia perché estranea all'ambito del presente giudizio sia perché ha un contenuto che, confermando l'illegittimità dell'intervento, non incide in alcun modo sulla valenza dell'errore revocatorio fatto valere in questa sede.
3. L'inammissibilità della fase rescindente rende non necessaria l'analisi della fase rescissoria.
4. I ricorrenti sono condannati al pagamento, in favore del Comune, delle spese del giudizio che si determinano in complessive euro 3.000,00, oltre accessori di legge.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, definitivamente pronunciando:
a) dichiara inammissibile il ricorso per revocazione indicato in epigrafe;
c) condanna i ricorrenti al pagamento, in favore dell'amministrazione resistente, delle spese processuali che si determinano in euro 3.000,00, oltre accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.