Corte di cassazione
Sezioni unite civili
Sentenza 18 giugno 2020, n. 11866

Presidente: Di Cerbo - Estensore: Carrato

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza n. 212 del 20 maggio 2008 il Giudice di Pace di Molfetta accoglieva l'opposizione ex artt. 22 e ss. della l. n. 689 del 1981 proposta da Giuseppe D.T. e, per l'effetto, revocava una cartella esattoriale, allo stesso notificata, relativa al pagamento di sanzioni amministrative per violazioni del codice della strada.

L'opponente aveva dedotto di non avere mai ricevuto la notifica dei verbali di accertamento presupposti dell'infrazione né di una successiva ordinanza-ingiunzione.

Proposto appello da parte dell'Equitalia E.T.R. s.p.a., il Tribunale di Trani - sezione distaccata di Molfetta, dichiarava, in via pregiudiziale, con sentenza del 27 aprile 2010, la propria incompetenza in favore del Tribunale di Bari ai sensi dell'art. 6 del r.d. 1033 del 1931, quale giudice del luogo ove aveva sede l'Avvocatura distrettuale dello Stato, essendo parte del giudizio anche l'Ufficio territoriale del Governo di Bari.

Nel giudizio tempestivamente riassunto dall'Equitalia E.T.R. s.p.a., Giuseppe D.T. contestava l'applicabilità del foro erariale, rinunciando successivamente all'eccezione di incompetenza con memoria del 7 maggio 2018.

All'esito, il Tribunale di Bari, in funzione di giudice d'appello, con ordinanza del 13 settembre 2018, emessa in fase di decisione (ovvero successivamente alla trattazione della causa e allo svolgimento dell'udienza di precisazione delle conclusioni), rimetteva la causa sul ruolo e, applicato l'art. 47, comma 4, c.p.c., richiedeva d'ufficio a questa Corte regolamento di competenza affinché fosse dichiarata la competenza del Tribunale di Trani, in funzione di giudice di secondo grado, ritenendo che in ipotesi di giudizio di appello avverso sentenza del Giudice di pace adottata con riferimento all'opposizione formulata ai sensi dell'art. 22 della l. n. 689 del 1981 (ratione temporis applicabile), non potesse trovare applicazione la regola del foro erariale bensì il criterio ordinario previsto dall'art. 341 c.p.c.

2. Radicatosi il giudizio dinanzi a questa Corte, la Sesta sezione civile (sottosezione-2), all'esito dell'adunanza camerale del 1° marzo 2019, tenuto conto dell'evoluzione interpretativa registratasi in punto di applicabilità al giudizio di appello delle disposizioni generali del codice di rito e della tendenziale assimilazione della competenza funzionale alla competenza per materia, con ordinanza interlocutoria del 28 giugno 2016, ha chiesto l'intervento chiarificatore di queste Sezioni unite in ordine alle seguenti questioni di massima di particolare importanza: a) se il conflitto di competenza ai sensi dell'art. 45 c.p.c. debba essere sollevato anche dal giudice di appello (al pari di quello di primo grado) in limine litis a pena di preclusione; b) se, ed eventualmente con quali adattamenti, sia applicabile in tal caso o, più in generale, con riferimento all'art. 341 c.p.c., l'art. 38, comma primo, c.p.c. (attualmente art. 38, comma terzo, c.p.c.), alla luce delle specificità del giudizio di impugnazione ed alla stregua del giudizio di compatibilità richiesto dall'art. 359 c.p.c.

In particolare, il collegio ha ritenuto che ai fini della pronuncia sul conflitto di competenza sia decisivo stabilire se il giudice (di appello) ad quem avesse il potere di sollevare il conflitto direttamente al momento della decisione o se, invece, tale potere si fosse già consumato in difetto di un rilievo tempestivo nella fase di riassunzione (avuto riguardo alla disciplina di cui al citato art. 38 c.p.c.), atteso che la possibilità di regolare la competenza presuppone che la questione sia stata tempestivamente eccepita dalla parte interessata o rilevata d'ufficio dal giudice.

Ha osservato inoltre che, discutendosi della competenza territoriale del giudice d'appello ai sensi dell'art. 341 c.p.c., non poteva considerarsi decisivo che l'appellato avesse proposto l'eccezione di incompetenza in fase di riassunzione, poiché questi aveva l'onere di impugnare la decisione ai sensi dell'art. 42 c.p.c. mentre l'eccezione di incompetenza era priva di effetto.

Ha rilevato, altresì, il collegio che l'attuale codice di rito non contiene una previsione specificamente diretta a disciplinare il rilievo dell'incompetenza del giudice dell'impugnazione ex art. 341 c.p.c. limitandosi l'art. 38, comma primo, c.p.c., vigente ratione temporis (ora trasfuso nel terzo comma della stessa disposizione normativa per effetto della sua complessiva sostituzione intervenuta con l'art. 45, comma 2, della l. 18 giugno 2009, n. 69), a statuire che l'incompetenza per materia, per valore o per territorio inderogabile sono eccepite dalla parte o rilevate d'ufficio non oltre la prima udienza di trattazione.

Ha aggiunto, peraltro, che la giurisprudenza prevalente di questa Corte ha ritenuto configurabile con riferimento all'art. 341 c.p.c. una questione di competenza solo quando la parte esperisca lo specifico rimedio previsto dal sistema delle impugnazioni. Quindi, solo nel caso di appello rivolto ad un organo della giurisdizione ordinaria diverso da quello che sarebbe stato competente per legge, si è attribuito all'impugnazione un effetto conservativo (con conseguente translatio iudicii in virtù dell'art. 50 c.p.c.), alla condizione che l'organo adito, benché territorialmente incompetente, sia ugualmente giudicante in secondo grado. Nel caso, invece, di impugnazione proposta davanti allo stesso giudice che abbia emesso la sentenza o davanti ad altro giudice di primo grado, la violazione del criterio della competenza per grado porrebbe un problema di ammissibilità dell'impugnazione.

Il collegio ha, altresì, sottolineato che, secondo un indirizzo parzialmente difforme (si richiama Cass. 2709/2005), nei giudizi di appello non verrebbe in nessun caso in considerazione la nozione di competenza di cui al capo I, titolo I, libro I del codice di rito, poiché l'erronea individuazione del giudice legittimato a decidere sull'impugnazione (anche nel caso di mera incompetenza territoriale) riguarda le condizioni di proponibilità o ammissibilità del gravame.

Secondo tale orientamento - richiamandosi la sentenza delle Sezioni unite n. 23594/2010 ed esclusa l'applicabilità dell'art. 50 e dell'art. 38 c.p.c. - non sussisterebbe alcun limite al potere del giudice di rilevare la violazione dell'art. 341 c.p.c.

Ha evidenziato, inoltre, il collegio nell'ordinanza interlocutoria che, invece, con la successiva sentenza delle stesse Sezioni unite n. 18121/2016, questa Corte ha ritenuto che l'art. 341 c.p.c. preveda, comunque, un'ipotesi di competenza intesa come frazione dell'intero esercizio della funzione giurisdizionale e che non vi sarebbe ragione per non ritenere che la rilevabilità del difetto di competenza territoriale sia preclusa anche d'ufficio oltre la prima udienza.

3. Da qui la rimessione degli atti al Primo Presidente della Corte per l'eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni unite ai sensi dell'art. 374, comma 2, c.p.c., dovendo ritenersi le questioni prospettate come di massima di particolare importanza.

Il Primo Presidente ha provveduto in conformità.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. La competenza: nozione e sua evoluzione.

Prima di esaminare le questioni specificamente oggetto dell'ordinanza interlocutoria appare opportuno svolgere una breve disamina della nozione di competenza e della sua evoluzione.

La competenza è comunemente definita come quella frazione di giurisdizione spettante in concreto ad un determinato giudice rispetto ad una determinata causa. Il problema ad essa inerente attiene alla distribuzione del potere di decidere tra i diversi giudici ordinari.

Con il codice di rito del 1940, una volta introdotto il principio della cosiddetta translatio iudicii, si comincia ad affermare una concezione della competenza quale attitudine del processo a pervenire alla pronuncia sul merito ovvero, in termini più generali, a ritenere la competenza un mero presupposto processuale per l'emanazione del provvedimento finale.

Rispetto a tale concezione si è venuta a realizzare un'ulteriore evoluzione iniziata con la riforma del 1973 relativa al rito del lavoro, e certamente concretizzatasi completamente nel 1990, quando sono state introdotte preclusioni temporali alla rilevabilità di parte o d'ufficio del vizio di incompetenza del giudice adito.

In particolare, il legislatore, sostituendo con l'art. 4 della legge novellatrice 26 novembre 1990, n. 353 l'originario art. 38 c.p.c., aveva esteso il regime delle preclusioni anche alle questioni di competenza.

Ciò ha costituito una novità rilevante rispetto alla disciplina previgente che legittimava la rilevabilità, anche d'ufficio, dell'incompetenza per materia o per territorio inderogabile, in ogni stato e grado del processo (con derivante vanificazione, in caso di avvenuta declaratoria dell'incompetenza in una fase avanzata del giudizio o addirittura in diverso grado, di tutte le attività processuali precedentemente compiute) e di quella per valore in ogni momento del giudizio di primo grado (demandando la deduzione dell'incompetenza territoriale derogabile all'eccezione ritualmente formulata dal convenuto in modo tempestivo con la comparsa di risposta).

Per effetto della novella di cui alla citata l. n. 353/1990, si era, dunque, venuto a restringere l'ambito temporale del rilievo delle questioni relative alla competenza, dovendosi far valere l'incompetenza (per tutti i criteri diversi da quello territoriale derogabile per il quale la decadenza era anticipata al momento del deposito della comparsa di risposta) entro la prima udienza di trattazione di cui all'art. 183 c.p.c.

Nel 2009, con la l. 18 giugno 2009, n. 69 (ed, in particolare, con il suo 45, comma 2), il menzionato art. 38 c.p.c. è stato ulteriormente modificato con l'intento di uniformare il regime delle preclusioni rispetto ai diversi tipi di competenza.

Attualmente, infatti, sia l'incompetenza per materia che quella per valore nonché quella per territorio derogabile o inderogabile devono essere eccepite, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta tempestivamente depositata, con la specificazione che l'eccezione di incompetenza per territorio si ha per non proposta se non contiene l'indicazione del giudice che la parte ritiene competente.

Inoltre, quanto al potere ufficioso di rilievo del difetto di competenza, si prevede che l'incompetenza per materia, quella per valore e quella per territorio nei casi previsti dall'art. 28 sono rilevate d'ufficio non oltre l'udienza di cui all'art. 183 c.p.c., mentre, per la competenza territoriale derogabile, risulta stabilito che «fuori dei casi previsti dall'articolo 28, quando le parti costituite aderiscono all'indicazione del giudice competente per territorio, la competenza del giudice indicato rimane ferma se la causa è riassunta entro tre mesi dalla cancellazione della stessa dal ruolo».

In ogni caso, a partire dal 1990, è divenuto operativo un meccanismo tale da poter giustificare il superamento del "vizio" originario di competenza e la prospettazione di una possibile "legittimazione (sopravvenuta) del giudice incompetente" in funzione dell'assolvimento di un principio generale di economia processuale destinato al soddisfacimento di un interesse generale pubblico e di quello delle stesse parti coinvolte di volta in volta nelle specifiche controversie, volto ad evitare, per quanto possibile, la definizione in rito del processo e fare in modo che lo stesso pervenga comunque al suo risultato finale, ovvero ad una pronuncia sul merito della domanda che abbia ad oggetto il diritto o rapporto giuridico sostanziale dedotto in giudizio.

La nuova impostazione normativa, che ha inteso valorizzare i profili della c.d. "competenza dinamica", ha superato anche il vaglio di costituzionalità, avendo il Giudice delle leggi, con l'ordinanza n. 128 del 1999, ritenuto manifestamente infondata, con riferimento all'art. 25 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell'art. 38 c.p.c. - sollevata sul presupposto che, ponendo un limite temporale alla rilevabilità dell'incompetenza, avrebbe consentito la trattazione della causa da parte di un giudice carente del potere giurisdizionale, nei casi in cui l'incompetenza non fosse stata tempestivamente rilevata - posto che "... al legislatore deve riconoscersi la più ampia discrezionalità nella conformazione degli istituti processuali e nell'articolazione del processo, fermo il limite della ragionevolezza, e, quindi, nell'introduzione di limitazioni alla possibilità di rilevare i vizi di incompetenza a vantaggio dell'interesse all'ordine ed alla speditezza del processo".

Nella stessa ordinanza della Corte costituzionale viene ulteriormente rilevato che la ratio del novellato art. 38 c.p.c., consistente nell'esigenza di una sollecita definizione delle questioni pregiudiziali di competenza, è stata perseguita dal legislatore con l'unificazione del regime della rilevazione dell'incompetenza e con l'imposizione di un limite temporale, oltre il quale è preclusa ogni questione riguardante la competenza, precisandosi che la stessa ratio risulta perfettamente coerente con i principi che hanno caratterizzato la riforma del processo civile, considerandosi che gli inconvenienti, rappresentati dalla possibilità che le parti scelgano un giudice incompetente e rinuncino a sollevare la relativa eccezione, non sono nemmeno ipotizzabili sol che il giudice esegua il dovuto controllo preliminare in ordine alla competenza.

In conclusione, ai sensi dell'art. 38 c.p.c., nel regime attuale, l'incompetenza deve essere eccepita, a pena di decadenza, dal convenuto nella comparsa di risposta tempestivamente depositata, mentre quella rilevabile d'ufficio deve essere fatta oggetto di rilievo entro la prima udienza di trattazione. Una volta superate queste fasi processuali senza che il vizio di incompetenza sia stato sollevato, la competenza si radica definitivamente in capo al giudice adito.

In sintesi, dunque, sul piano generale, dal sistema complessivo venutosi a configurare si desume l'abbandono della concezione della nozione di competenza come presupposto processuale condizionante la valida instaurazione del processo (che, invece, si presenta ora suscettibile di trasmigrare dal giudice incompetente a quello dichiarato competente, secondo la regola generale prevista dall'art. 50 c.p.c.), essendosi ad essa venuta consapevolmente a sostituire una nozione della competenza incidente, non più sulla proposizione della domanda, ma sullo svolgimento del giudizio per la sua trattazione e la conseguente decisione.

2. La competenza funzionale.

Altro termine essenziale al fine di inquadrare le questioni che vengono qui in rilievo è la nozione di competenza funzionale.

Si tratta di un criterio individuato dalla migliore dottrina ai primi del '900 per definire, in particolare, la regola che individua il giudice dell'impugnazione.

Caratteristica di siffatta competenza è che in essa il criterio funzionale si intreccia con quello territoriale e con quello obiettivo: tuttavia, poiché l'art. 341 c.p.c. impone di individuare il giudice d'appello in senso sia verticale (giudice superiore) che orizzontale (giudice che ha sede nella circoscrizione di quello che ha pronunciato la sentenza), si sarebbero potuti distinguere nella citata norma due criteri di competenza, assimilabili l'uno a quelli per materia e per valore, l'altro a quelli per territorio, ma l'opinione dominante ravvisava nello stesso art. 341 un unico criterio volto ad individuare il giudice contemporaneamente competente in senso verticale e orizzontale.

Tale criterio venne, appunto, qualificato come competenza "funzionale".

Tale nozione di competenza che, in origine, fu correlata alla competenza per gradi fu, poi, ulteriormente sviluppata, ritenendosi in essa incasellabili altre due ipotesi, ovvero quelle relative a: 1) quando le diverse funzioni necessarie in un medesimo processo o comunque coordinate all'attuazione della medesima volontà di legge sono affidate a giudici diversi o ad organi giurisdizionali diversi (competenza per gradi; cognizione ed esecuzione; provvedimenti provvisori e definitivi ecc.); b) quando una causa è affidata ad un giudice di un determinato territorio per il fatto che la sua funzione sarà ivi più facile o più efficace (esecuzione nel luogo ove sono i beni; procedura di fallimento nel luogo del principale stabilimento commerciale, ecc.).

La competenza funzionale si avvicinava così, da un lato, alla competenza per materia, dall'altro alla competenza territoriale. Ma anche in questo caso la competenza funzionale fu considerata "... sempre assoluta e improrogabile, e ciò costituiva la sua caratteristica e l'importanza pratica di questa categoria".

Anche dopo l'entrata in vigore del codice di rito del 1940, la nozione di competenza funzionale continuò ad essere presente nelle elaborazioni della dottrina, nonostante le importanti differenze di disciplina rispetto al codice previgente: l'art. 28 c.p.c. prevede espressamente ipotesi di competenza territoriale inderogabile; l'art. 38 distingue, sotto il profilo dei poteri del giudice e delle parti, tre tipi diversi d'incompetenza; nella sezione dedicata alla competenza per materia e valore non si fa cenno alcuno alla competenza per le impugnazioni.

3. Il regolamento di competenza d'ufficio: genesi, natura e funzione.

Il regolamento di competenza d'ufficio non trova precedenti nel codice del 1865, poiché, sia nel caso di conflitto virtuale che in caso di conflitti reali positivi o negativi, la loro risoluzione era demandata al giudice immediatamente superiore ai due in conflitto, ma unicamente su istanza di parte e non su iniziativa del giudice.

Il suddetto tipo di regolamento rappresenta una novità assoluta introdotta dal codice di procedura civile del 1942 come rimedio di carattere preventivo concesso al giudice dissenziente costituendo una soluzione di vero e proprio compromesso fra le istanze dei riformatori, per i quali il giudice indicato nella sentenza declinatoria di competenza del primo giudice non avrebbe mai potuto mettere in discussione tale indicazione, e quelle della giurisprudenza, assai restia ad abbandonare il principio secondo cui ogni giudice è giudice della propria competenza.

Detto contrasto fu alla fine solo parzialmente superato mediante l'attribuzione alla sentenza declinatoria di competenza, non impugnata dalle parti con regolamento di competenza, di un'efficacia vincolante nei confronti del giudice davanti al quale la causa è stata riassunta, a norma dell'art. 50 c.p.c., incondizionata solo per le competenze ad esso attribuite in base al valore e al territorio semplice. Se si tratta, invece, di competenze attribuite in base alla materia o al territorio nei casi previsti dall'art. 28 c.p.c., il giudice ad quem non soggiace all'incontestabilità della sentenza declinatoria del primo giudice ma neppure potrà dichiararsi a sua volta incompetente attualizzando un conflitto negativo di competenza (che rimarrebbe, però, senza via di uscita); pertanto, in una situazione di conflitto, così ancora solo virtuale, potrà sottrarsi al vincolo promanante dalla prima decisione solo chiedendo d'ufficio il regolamento e cioè investendo la Corte di cassazione della relativa questione.

Il regolamento d'ufficio proposto dal giudice dinanzi al quale è stata riassunta la causa viene concepito dal legislatore come l'unico strumento attraverso il quale si può evitare la formazione del giudicato sulla pronuncia declinatoria di competenza. Ed invero, ove tale regolamento non sia proposto, la questione sulla competenza deve considerarsi definitivamente non più controvertibile.

Indiscusso è il principio che la pronuncia di incompetenza non è in grado di vincolare il giudice determinato come competente che potrà, quindi, ritenersi a sua volta incompetente. Il che significa, per reciprocità, che la decisione con cui un giudice abbia affermato o negato la propria competenza, negando o insieme affermando la competenza di un altro giudice, non può vincolare quest'altro giudice, il quale, quando procederà all'esame dei presupposti processuali, e quindi anche delle questioni di competenza attinenti al suo processo, non sarà vincolato dalla precedente decisione, che riguarda un rapporto processuale diverso.

La novità della disciplina rispetto al codice del 1865 consiste, quindi, nel fatto che il secondo giudice non può limitarsi a declinare la competenza, ma deve sollevare il regolamento di competenza. Non c'è vincolo alla precedente decisione, ma il dissenso si manifesta attraverso la richiesta del regolamento.

Il nuovo assetto del diritto processuale sul "conflitto di competenza" è stato, quindi, enucleato nel disposto dell'art. 45 c.p.c.

Esso prevede, quindi, un meccanismo che consente di evitare la formazione del giudicato attraverso una tecnica volta ad impedire l'insorgere di un conflitto negativo di competenza; in realtà, non si riferisce neppure ad un conflitto reale ma ad un conflitto virtuale o potenziale.

Legittimato alla proposizione è solo il giudice davanti al quale è stato riassunto il processo, con la conseguenza che o questo giudice solleva il regolamento o la competenza si stabilizza definitivamente in capo a lui.

Si tratta di procedimento incidentale perché attuato come una parentesi nel procedimento riassunto dinanzi al nuovo giudice e perché trattasi di istituto che nulla ha a che vedere con i mezzi di impugnazione. Ciò, peraltro, non è in contrasto con l'art. 323 c.p.c., laddove annovera il regolamento di competenza tra i mezzi per impugnare le sentenze in quanto puntualizza «nei casi previsti dalla legge»; espressione cui bisogna riconoscere un significato intenzionalmente restrittivo, per indicare che non in tutti i casi il regolamento è un mezzo d'impugnazione, ma soltanto in quelli in cui la legge disciplina il regolamento appunto come mezzo d'impugnazione.

A questa stregua il carattere di mezzo d'impugnazione può certo essere attribuito al regolamento di competenza proposto dalla parte ma non anche a quello disciplinato nell'art. 45 c.p.c.

L'impugnazione, in senso tecnico, non può infatti essere proposta se non dalla parte che vi abbia interesse, mentre qui il regolamento è richiesto d'ufficio dal giudice. Inoltre, il giudice lo richiede in luogo di pronunciare a sua volta una decisione declinatoria della competenza, cioè nell'intento di evitare un conflitto attuale di decisioni sulla competenza; in questo modo il regolamento richiesto d'ufficio, se non è preventivo rispetto alla decisione già adottata dal primo giudice, lo è rispetto ad una possibile seconda pronuncia declinatoria, e quindi sotto questo riguardo ha carattere antitetico rispetto all'impugnazione, che è unicamente rivolta all'elisione della sentenza già pronunciata.

Come il regolamento di giurisdizione, secondo le intenzioni del legislatore, il regolamento di competenza risponde a ragioni di economia processuale nel senso che mira ad accelerare la definizione della questione di competenza, ma a differenza di quello determina la sospensione automatica del processo di merito.

Dopo la riforma di cui alla l. n. 353/1990 si era da taluno dubitato della sopravvivenza dell'art. 45 c.p.c., ma l'intento abrogativo del legislatore è stato escluso in ragione della parzialità della novella e dell'avere questa individuato gli articoli ed i commi sostituiti (ai sensi dell'art. 89 della stessa l. n. 353/1990), lasciando invariata la disciplina degli artt. 44 e 45 del codice di rito.

Si era, perciò, univocamente statuito (cfr., per tutte, Cass., sez. un., 12 novembre 1999, n. 764) che il regolamento di competenza d'ufficio era ammissibile, quando ricorrevano i presupposti di cui all'art. 45 c.p.c., anche dopo l'entrata in vigore del nuovo testo dell'art. 38 c.p.c., introdotto dall'art. 4 della l. n. 353 del 1990 che aveva modificato la disciplina della competenza per valore e di quella per materia e per territorio inderogabile, sotto il profilo sia della rilevabilità di ufficio che del momento preclusivo, introducendo per le tre dette ipotesi un regime più blando di quello previsto dal testo originario, in quanto, in presenza di una "novella" di carattere parziale, che aveva individuato gli articoli e i commi sostituiti, essendo rimasta ferma la disciplina degli artt. 44 e 45 del codice di rito, doveva ritenersi la piena valenza, a tutti gli effetti, dell'istituto del conflitto di competenza.

Anche dopo la riforma della l. n. 353/1990, l'intervento novellatore riconducibile alla l. n. 69/2009 (che pure ha ridisegnato la facoltà di eccezione delle parti riguardo a tutte le questioni di competenza, uniformandone il relativo regime) non ha fatto che confermare l'esattezza dell'orientamento favorevole alla sua perdurante vigenza.

4. Ambito di applicazione e presupposti del regolamento di competenza d'ufficio.

Il conflitto di competenza che può legittimare la richiesta di regolamento di competenza d'ufficio è soltanto quello negativo e, peraltro, a condizione che esso sia virtuale, cioè si tratti di un contrasto fra:

a) una valutazione espressa in una decisione declinatoria della competenza per i titoli di competenza per materia e per territorio inderogabile nei casi previsti dall'art. 28 c.p.c. (cui vanno assimilati i casi di c.d. competenza funzionale, nei limiti in cui sono ritenuti configurabili);

b) una valutazione contraria espressa nello stesso atto consistente nell'elevare il conflitto e, quindi, non in una decisione, da parte del giudice davanti al quale la causa è stata riassunta a seguito della decisione declinatoria della competenza e conforme all'indicazione contenuta nella stessa decisione.

L'art. 45 c.p.c. detta una regola di condotta per il giudice davanti al quale la causa è stata riassunta, per la cui operatività devono ricorrere appositi presupposti:

1) la pronuncia declinatoria deve essere avvenuta per ragioni di materia o di competenza territoriale inderogabile, nonché per l'assimilata ragione di competenza funzionale; pertanto se la declinatoria è avvenuta per ragioni di valore o di territorio derogabile la norma non può essere applicata e ciò anche se il giudice ad quem ritenga che il giudice a quo sarebbe stato competente per materia o territorio inderogabile e che, dunque, per tale ragione, non operando rispettivamente: a) il criterio del valore, ad esso non avrebbe potuto dare rilievo, mentre doveva darlo a quello per materia; b) il criterio della competenza territoriale derogabile, ad esso non avrebbe potuto dare rilievo, mentre doveva darlo a quello della competenza territoriale inderogabile;

2) la pronuncia declinatoria, ancorché sia avvenuta la riassunzione, non deve essere stata di norma sottoposta a regolamento di competenza ad istanza di parte, evidentemente ad opera della parte soccombente sulla questione di competenza, che non abbia preso l'iniziativa di riassumere la causa davanti al giudice indicato come competente. Se è stato proposto regolamento di competenza ad istanza di parte dopo la riassunzione od anche prima di essa, essendo il processo sospeso ai sensi dell'art. 48 c.p.c., l'iniziativa del giudice ad quem (quand'anche ancora possibile ai sensi dell'art. 38 c.p.c. nel processo riassunto), non rientrando fra gli atti urgenti consentiti dalla stessa norma, è da reputare anch'essa preclusa;

3) il processo a seguito della declinatoria deve essere riassunto come prosecuzione del processo introdotto davanti al giudice che ha declinato la competenza e la riassunzione deve essere avvenuta in modo tempestivo o, se sia stata tardiva, non deve essere stata eccepita dalla parte che ha subìto la riassunzione la verificazione della conseguente fattispecie estintiva, oppure - come ora prevede per i giudizi instaurati dopo il 4 luglio 2009 l'ultimo comma dell'art. 307 c.p.c., come sostituito dall'art. 46 della l. n. 69/2009 - rilevata e dichiarata d'ufficio dal giudice della riassunzione. Se l'estinzione viene eccepita o rilevata d'ufficio, il processo non ha la prospettiva di pervenire ad una decisione sul merito. Poiché la causa di estinzione, consentendo di definire il giudizio con una pronuncia in rito, rende irrilevante la potenzialità del conflitto sulla competenza per il caso in cui il giudice ad quem non condivida la valutazione sulla competenza fatta dal giudice a quo, il potere di richiedere il conflitto, essendo finalizzato ad assicurare che la decisione sul merito sia resa dal giudice effettivamente competente, appare insussistente. Ne consegue che il giudice della riassunzione deve omettere di sollevare il conflitto e dar corso senz'altro alla decisione sull'eccezione di estinzione ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 307 c.p.c., se proposta, e, comunque, se l'eccezione non sia formulata dalla parte interessata, analogamente astenersi dal sollevarlo, perché è tenuto a dichiarare d'ufficio l'intervenuta estinzione.

5. Preclusione del potere di sollevare il conflitto di competenza d'ufficio.

L'art. 45 c.p.c. si limita a prevedere che "quando in seguito all'ordinanza che dichiara l'incompetenza del giudice adito per ragioni di materia o per territorio nei casi di cui all'art. 28 c.p.c., la causa nei termini di cui all'art. 50 c.p.c. è riassunta davanti ad altro giudice, questi, se ritiene a sua volta di essere incompetente, richiede d'ufficio il regolamento di incompetenza", senza però indicare alcun termine.

La giurisprudenza di questa Corte ha raccordato, da tempo, l'art. 45 c.p.c. con l'art. 38 c.p.c. che nel disciplinare l'incompetenza, al comma terzo dispone che "l'incompetenza per materia, quella per valore e quella per territorio nei casi previsti dall'art. 28 c.p.c., sono rilevate d'ufficio non oltre l'udienza di cui all'art. 183 c.p.c.", ravvisando, di conseguenza, in questa previsione anche il termine ultimo per la richiesta del regolamento di competenza. Sul piano letterale, dal confronto tra l'art. 45 e l'art. 38 c.p.c. emerge una ben significativa diversità di contenuto in ordine a ciò che in entrambe le norme si vuole diacronicamente limitare entro la prima udienza.

Nell'art. 38, comma 3, c.p.c. ciò che si vuole accada "non oltre l'udienza di cui all'art. 183 c.p.c." è il rilievo d'ufficio dell'incompetenza per materia e di quella per valore e "per territorio nei casi previsti dall'art. 28 c.p.c.", mentre nell'art. 45 c.p.c. quella che viene contemplata è un'attività di "richiesta d'ufficio" del regolamento di competenza a fronte di una non ritenuta sussistenza della competenza per ragione di materia o di territorio inderogabile.

Dalla rigorosa lettura del dato normativo emerge, quindi, la distinzione tra "rilievo" e "decisione" da parte di uno stesso soggetto, che, ravvisabile con riferimento all'art. 38, comma 3, c.p.c., è invece, del tutto ultronea con riguardo all'art. 45 c.p.c., che a tale distinzione non fa alcun cenno parlando solo di un'attività di richiesta da parte di un soggetto che si risolve in se stessa, senza sfociare in un'ulteriore attività decisoria da parte dello stesso, spettando anzi ogni attività decisoria ad altri cui la richiesta è diretta. Pertanto, il giudice che senz'alcuna iniziativa delle parti ritenga di sollevare regolamento di competenza d'ufficio (ravvisando, perciò, un conflitto di competenza), non deve ripartire la sua attività, dapprima limitandosi a rilevare e poi dopo a dichiarare la propria incompetenza, restando invece onerato di manifestare soltanto la propria volontà di far rimuovere la precedente decisione che lo dichiarava competente a pronunciarsi in merito, non richiedendosi una previa rilevazione e poi una dichiarazione (o decisione) circa la propria incompetenza.

Del pari risulta chiaro che l'udienza ex art. 183 c.p.c. non fa che segnare, in tale ambito, il termine ultimo entro il quale richiedere, a pena di inammissibilità, regolamento di competenza d'ufficio (del resto, anche in materia di giurisdizione, le discipline che regolano, nei diversi ordinamenti processuali, il potere di sollevare d'ufficio conflitto di giurisdizione, riferiscono il termine ultimo per l'esercizio di siffatto potere alla prima udienza fissata per la trattazione: cfr., sul piano generale, l'art. 59, comma 3, della l. n. 69/2009; nell'ambito del processo amministrativo, l'art. 11, comma 3, del d.lgs., n. 104/2010 e, con riferimento al processo contabile, l'art. 17, comma 3, del d.lgs. n. 174/2016).

Pertanto, quando a seguito della declaratoria di incompetenza da parte del giudice adito, la causa prosegue in riassunzione davanti al giudice ritenuto (dal primo) competente, questi può rilevare, a sua volta, la propria incompetenza non oltre la prima udienza di trattazione, rimanendo altrimenti preclusa per lui la possibilità di richiedere il regolamento di competenza; né rileva, a tal fine, che una delle parti abbia riproposto l'eccezione nell'udienza di comparizione, perché la parte che dissente dalla declaratoria di incompetenza pronunciata dal giudice non ha altro potere che quello di impugnarla (cfr., in tal senso, Cass. n. 11185/2008 e, da ultimo, Cass. n. 20488/2018).

È evidente che nel regime insorto dopo l'entrata in vigore della l. n. 353/1990 la soluzione era diventata obbligata, atteso che la rimessione in decisione della causa ai fini di una pronuncia parziale segnava certamente il passaggio della causa ad una fase successiva all'udienza di trattazione e, quindi, la preclusione del potere di elevazione del conflitto.

Nel regime successivo alla l. n. 69 del 2009 il termine di preclusione va riferito all'udienza di cui all'art. 183, che l'art. 38, nel testo sostituito dall'art. 45 della legge, indica come momento di preclusione del potere officioso di rilevazione della incompetenza per materia e per territorio inderogabile (v., ad es., Cass. n. 16143/2015).

Essa si deve intendere anche come udienza fissata ai sensi del comma 1° (ove non debba essere adottato alcun provvedimento indotto dalle evenienze in esso previste) o del comma 2° (quando sia stato, invece, preso uno dei provvedimenti contemplati dal precedente comma) oppure del successivo comma 3° (nell'eventualità in cui si debba procedere a norma del seguente art. 185).

Si è, perciò, ritenuto inammissibile il conflitto di competenza elevato dal giudice dopo la prima udienza di trattazione, quando egli ha già concesso alle parti i termini di cui all'art. 183, sesto comma, c.p.c. (v. Cass. n. 16888/2013; Cass. n. 23106/2015 e Cass. n. 21944/2018), senza che - come già evidenziato - rilevi che una delle parti abbia riproposto eccezione di incompetenza nel giudizio di riassunzione, posto che la parte che dissente dalla declaratoria di incompetenza pronunciata dal giudice a quo non ha altro potere che quello di impugnarla.

Ove la causa venga rinviata per la precisazione delle conclusioni od anche venga disposta la decisione hic et hinde, il passaggio della causa ad una fase incompatibile con l'attività compresa nella trattazione ai sensi dell'art. 183 c.p.c. esclude che nella decisione si possa sollevare il conflitto oppure rimettere sul ruolo la causa per la sua elevazione.

È stato, inoltre, puntualizzato che, pur volendosi attribuire al concetto di "udienza" un carattere identificativo contenutistico, piuttosto che meramente temporale (tale, dunque, da prescindere dal numero di udienze in cui si sia in concreto svolta la fase processuale), è comunque tardivo il rilievo dell'incompetenza per materia compiuto dal giudice dopo aver posto in essere attività (quale, ad es., l'ammissione e l'espletamento di una CTU), che logicamente presuppongano l'affermazione della propria competenza (v. Cass. n. 5609/2012).

Si è chiarito, altresì, che il rilievo officioso dell'incompetenza territoriale ex art. 38, comma 3, c.p.c. va svolto in modo chiaro ed inequivocabile (v., di recente, Cass. n. 14170/2019), onde stimolare il contraddittorio e l'esercizio consapevole del diritto di difesa, e non oltre l'udienza ex art. 183 c.p.c., non potendo valere allo scopo, qualora l'eccezione sia stata sollevata da una parte, il rinvio ripetuto della causa, con la concessione dei termini di cui all'art. 183, comma 6, c.p.c., anche per la trattazione dell'eccezione medesima, senza che il giudice manifesti tempestivamente ed espressamente l'intendimento di sollevare la questione d'ufficio (cfr. Cass. n. 18383/2016).

Si è pure posto in risalto che il giudice indicato come competente da quello originariamente adito, e innanzi al quale la causa sia stata riassunta, può richiedere d'ufficio il regolamento di competenza non oltre la prima udienza di trattazione, salvo che debba svolgere attività processuali, come assumere sommarie informazioni, strettamente funzionali alla valutazione riguardanti la prospettabilità del conflitto di competenza, nel qual caso la richiesta del regolamento deve seguire senza soluzione di continuità le dette attività processuali (v. Cass. n. 20445/2018, nel cui caso è stato ritenuto inammissibile il regolamento di competenza elevato d'ufficio dal giudice il quale, dopo avere rilevato la questione all'udienza ex art. 183 c.p.c., aveva differito a un momento successivo la relativa richiesta, disponendo una serie di rinvii finalizzati ad acquisire il fascicolo d'ufficio e la CTU espletata presso il giudice a quo, non esplicitamente motivati come strettamente funzionali all'elevazione del conflitto).

È opportuno anche evidenziare come queste Sezioni unite siano intervenute pure con riferimento al potere di elevazione del conflitto di competenza da parte del Tribunale regionale delle acque pubbliche, confermando lo stesso limite temporale di cui all'art. 38 c.p.c. (Cass., sez. un., n. 24903/2011).

6. La competenza del giudice dell'impugnazione e la proposizione dell'appello a giudice territorialmente incompetente.

Ai sensi dell'art. 341 c.p.c., rubricato «giudice dell'appello», l'appello contro le sentenze del giudice di pace e del tribunale si propone rispettivamente al tribunale e alla corte d'appello nella cui circoscrizione ha sede il giudice che ha pronunciato la sentenza.

A questa regola c'è una sola eccezione, ovvero quella riconducibile all'operatività del c.d. foro erariale. Tale regola di competenza, prevista dall'art. 25 c.p.c. per l'ipotesi in cui parte in causa è un'Amministrazione dello Stato, difesa dall'Avvocatura dello Stato, fa sì che si concentrino presso il Tribunale dove ha sede l'Avvocatura dello Stato, ossia presso il capoluogo di distretto di corte d'appello, tutte le controversie che, di per sé, sarebbero di competenza dei tribunali del distretto di quella Corte d'appello.

A tal proposito - poiché tale eccezione viene in rilievo proprio nel giudizio da cui si è originata, nel caso di specie, la richiesta del regolamento di competenza d'ufficio - queste Sezioni unite (v. ordinanza n. 23285/2010) hanno precisato che, ai fini della competenza territoriale relativa ai procedimenti d'appello avverso le sentenze emesse dal giudice di pace in materia di opposizione a sanzioni amministrative, non si applica la citata regola del "foro erariale" stabilita nell'art. 7 del r.d. 30 ottobre 1933, n. 1611 relativa alle controversie in cui sia parte un'Amministrazione dello Stato. L'inapplicabilità della disciplina del "foro erariale" ai giudizi in materia di opposizioni a sanzioni amministrative è stata ricondotta alla "esigenza di 'prossimità' rimasta attuale anche dopo la soppressione delle preture", (già) sostanziata nella previsione legislativa di cui al primo comma dell'art. 22 della l. n. 689/1981 (oggi, invece, nel secondo comma dell'art. 6 del d.lgs. n. 150/2011), che incardina la competenza per territorio in capo al "giudice del luogo in cui è stata commessa la violazione".

Ciò premesso, da un punto di vista sistematico occorre stabilire, in primo luogo, se il criterio individuato dall'art. 341 c.p.c. sia o meno assimilabile ai criteri di competenza contemplati nel capo I, titolo I, libro I del codice di rito e, quindi, sia assoggettabile al regime previsto dagli artt. 38 e 42-50 c.p.c.

Alla varietà delle opinioni espresse al riguardo in dottrina (costituente manifestazione di un chiaro sintomo della difficoltà di definire tale criterio di attribuzione del potere decisorio, e ciò essenzialmente per l'assenza di una disciplina espressa nel nostro sistema di diritto positivo), la prevalente giurisprudenza di questa Corte aveva ritenuto che la proposizione dell'appello a giudice incompetente per territorio conservasse gli effetti processuali e sostanziali dell'impugnazione mediante il meccanismo della translatio al giudice competente, ex art. 50 c.p.c., effetto invece escluso solo ove l'errore riguardi il grado o il mezzo, essendo la competenza del giudice di appello di tipo funzionale.

Secondo tale predominante indirizzo, l'appello proposto dinanzi ad un organo della giurisdizione ordinaria diverso da quello che sarebbe stato competente per legge avrebbe conservato gli effetti sostanziali e processuali dell'impugnazione a condizione che l'organo adito, benché territorialmente incompetente, fosse ugualmente giudicante in secondo grado e potesse, quindi, disporre la rimessione della causa al giudice competente dinanzi al quale avrebbe potuto essere effettuata la riassunzione ex art. 50 c.p.c.

Tale effetto conservativo si sarebbe, invece, dovuto escludere ove l'appello fosse stato proposto dinanzi allo stesso giudice che aveva pronunciato la sentenza oggetto del gravame o dinanzi ad altro giudice di primo grado mancando in tali casi uno strumento legislativo che legittimasse il passaggio del rapporto processuale dal primo al secondo grado non potendo spiegare effetti sananti neanche la costituzione in giudizio dell'appellato (in tal senso vedi Cass. n. 3586/1993; Cass. n. 9554/1998; Cass. n. 15866/2002; Cass. n. 12155/2004 e Cass. n. 17847/2007).

Una diversa - ma rimasta minoritaria - interpretazione è da ricondursi, per prima, alla pronuncia n. 2709/2005, alla stregua della quale, in tema di impugnazioni, l'appello erroneamente indirizzato ad un giudice diverso da quello legittimato a riceverlo esulerebbe dalla nozione di competenza, adoperata dal codice di procedura civile per il giudizio di primo grado, sicché non sarebbe riconducibile all'art. 50 c.p.c. e alla regola della translatio iudicii, ponendosi l'erronea individuazione del giudice dell'impugnazione non come questione attinente ai poteri cognitivi dell'organo giudicante adito ma alla mera valutazione delle condizioni di proponibilità o ammissibilità del gravame, che andrebbe dichiarato precluso se prospettato ad un giudice diverso da quello individuato per legge dall'art. 341 c.p.c. (v. successivamente, in senso conforme, Cass. n. 26375/2011, Cass. n. 11259/2014 e Cass. n. 22321/2015).

Il contrasto è stato poi composto con la sentenza di queste Sezioni unite n. 18121/2016, secondo la quale "l'appello proposto davanti ad un giudice diverso, per territorio o grado, da quello indicato dall'art. 341 c.p.c. non determina l'inammissibilità dell'impugnazione, ma è idoneo ad instaurare un valido rapporto processuale, suscettibile di proseguire dinanzi al giudice competente attraverso il meccanismo della translatio iudicii".

Con detta pronuncia si è, invero ritenuto che "su un piano concettuale, non sembra possibile negare che la norma (art. 341 c.p.c.) che detta i criteri per l'individuazione del giudice legittimato a ricevere l'appello, preveda, in realtà, una ipotesi di 'competenza', intesa come frazione dell'intero esercizio della funzione giurisdizionale..." e che "una volta ricondotta nella nozione di 'competenza' la regola che individua il giudice legittimato a conoscere dell'appello, sembra difficile escludere l'applicabilità anche al relativo giudizio del principio della translatio iudicii previsto dall'art. 50 c.p.c.".

A tal proposito, è stato valorizzato l'assunto che tale norma è collocata tra le disposizioni generali contenute nel titolo I del libro I, e non opera alcuna distinzione tra competenza di primo e secondo grado. Pertanto, si è evidenziato che la giurisprudenza propendente per la tesi della non estensibilità della disposizione in esame al giudizio di appello si basa su un giudizio di incompatibilità che, tuttavia, non è richiesto dall'art. 359 c.p.c. Questa norma, infatti, nello stabilire che per il giudizio di appello davanti al tribunale o alla corte di appello si osservano le norme che regolano il procedimento di primo grado davanti al tribunale, purché non siano "incompatibili" con le disposizioni proprie del giudizio di impugnazione, si riferisce alle norme contemplate nel titolo I del libro II del codice di rito (artt. 163 ss.), e non anche a quelle contenute nel titolo I del libro I, aventi di per sé una portata generale ed applicabili, quindi, in via di principio anche al giudizio di appello, salvo specifiche limitazioni (nel medesimo senso v., in seguito, Cass. n. 24274/2017 e Cass. n. 8155/2018).

Con l'arresto di cui all'indicata sentenza n. 18121 del 2016 si è, ulteriormente, osservato come l'orientamento favorevole all'applicabilità del meccanismo della translatio iudicii in caso di appello proposto dinanzi a giudice territorialmente incompetente appare rispondente al principio di effettività della tutela giurisdizionale, immanente nel nostro ordinamento e garantito specificamente anche dall'art. 24, comma 1, della Costituzione, che include anche il diritto ad ottenere una decisione di merito al quale deve essere improntato anche il più generale principio del c.d. "giusto processo". A questi fini deve, perciò, essere orientata l'interpretazione delle norme processuali, ivi comprese soprattutto quelle volte all'individuazione del giudice munito di giurisdizione e di competenza (per come evincibile anche dalle argomentazioni contenute nella sentenza della Corte costituzionale n. 77/2007).

Nella decisione in esame queste Sezioni unite hanno anche messo in luce come la nozione di "competenza funzionale" propria del giudice di appello (nella quale si intrecciano criteri di competenza "orizzontale" e "verticale") induce a ritenere applicabile il principio della translatio iudicii non solo nelle ipotesi di erronea individuazione del giudice territorialmente competente, ma anche in quella di erronea individuazione del giudice competente per grado. In entrambi i casi, infatti, ci si trova in presenza di un errore che cade sulla individuazione del giudice avanti al quale deve essere avanzato l'appello avverso la decisione di primo grado, e che, perciò, non incide sull'esistenza del potere di impugnazione, ma solo sul modo di esercizio di tale potere. Quindi, una volta che si riconosca effetto conservativo all'atto di appello formulato dinanzi ad un giudice territorialmente incompetente, non si intravedono ragioni ostative all'applicazione dello stesso effetto nell'ipotesi di gravame (sempre che la scelta del mezzo di impugnazione sia quella esatta) proposto ad un giudice non corrispondente per grado a quello indicato dall'art. 341 c.p.c., con conseguente legittimità dell'operatività del meccanismo previsto dall'art. 50 c.p.c.

Pertanto, anche in appello, il giudice indicato (asseritamente) come competente, di fronte al quale sia stato ritualmente riassunto il processo, non è vincolato alla designazione effettuata dal primo giudice e, quindi, è legittimato a richiedere il regolamento di competenza d'ufficio ai sensi dell'art. 45 c.p.c. (che, in quanto tale, è da qualificarsi come norma "autosufficiente", essendo in essa direttamente prevista la sequenza delle attività procedimentali mediante le quali il giudice è investito dell'esercizio dei poteri processuali strumentalmente e funzionalmente preordinati a sollevare il conflitto di competenza).

7. La risoluzione delle questioni sottoposte alla Sezioni unite con l'ordinanza interlocutoria n. 17609 del 2019.

I quesiti posti dalla citata ordinanza sono - come già richiamati - i seguenti:

a) se il conflitto di competenza ai sensi dell'art. 45 (per mero lapsus indicato in 46) c.p.c. debba essere sollevato anche dal giudice di appello (al pari di quello di primo grado) in limine litis a pena di preclusione; b) se, ed eventualmente con quali adattamenti, sia applicabile in tal caso o, più in generale, con riferimento all'art. 341 c.p.c. l'art. 38, comma primo, c.p.c. (attualmente art. 38, comma terzo, c.p.c.) alla luce delle specificità del giudizio di impugnazione ed alla stregua del giudizio di compatibilità richiesto dall'art. 359 c.p.c.

In effetti, a ben vedere, trattasi di un'unica complessa questione implicante la risposta al quesito inerente all'applicabilità o meno del regime preclusivo previsto per il giudizio di primo grado anche all'ipotesi in cui sia sollevato in appello conflitto di competenza ai sensi dell'art. 45 c.p.c., sull'incontestato presupposto che quest'ultimo rimedio sia esperibile anche in secondo grado.

Il primo punto fermo di partenza va rinvenuto nel principio affermato dalle Sezioni unite con la citata sentenza n. 18121 del 2016, secondo cui «l'appello proposto davanti ad un giudice diverso, per territorio o grado, da quello indicato dall'art. 341 c.p.c. non determina l'inammissibilità dell'impugnazione, ma è idoneo ad instaurare un valido rapporto processuale, suscettibile di proseguire dinanzi al giudice competente attraverso il meccanismo della translatio iudicii».

Ciò comporta che, per effetto dell'applicabilità del meccanismo della translatio iudicii anche nel giudizio di secondo grado, possano venirsi a configurare i presupposti per la proposizione, da parte del secondo giudice, del regolamento di competenza d'ufficio ove ritenga sussistente un conflitto di competenza con riferimento ai criteri indicati nell'art. 45 c.p.c.

Ma a quale disciplina processuale dovrà conformarsi il secondo giudice (avanti al quale il giudizio di appello - in dipendenza degli effetti conservativi riconducibili al gravame - può essere riassunto ai sensi dell'art. 50 c.p.c.) per sollevare conflitto di competenza?

La risposta a tale quesito implica la risoluzione della questione circa l'applicabilità o meno del disposto di cui all'art. 38 c.p.c. (che, peraltro, non si riferisce specificamente al solo giudizio di primo grado) e, quindi, del regime preclusivo che investe il meccanismo del rilievo della sua incompetenza da parte del giudice di secondo grado al fine di sollevare il regolamento di competenza d'ufficio.

Ad avviso di queste Sezioni unite non emergono argomenti ostativi all'estensione dell'applicabilità del regime processuale di cui all'art. 38 c.p.c. anche al giudizio di appello.

Ed infatti, sul presupposto del legittimo parallelismo - pur con i necessari adattamenti implicati dalla distinzione (con riferimento alle peculiarità dei due gradi) tra le varie attività che devono essere svolte nell'udienza di trattazione in primo grado ai sensi dell'art. 183 c.p.c. e in quella del giudizio di appello in virtù dell'art. 350 c.p.c. - non sussistono problemi di incompatibilità per la suddetta applicazione, sia per effetto della portata generale dell'art. 38 c.p.c. (inserito, come già ripetutamente evidenziato, nel libro I, titolo I, capo I, sezione V del codice di procedura civile, dedicato per l'appunto, tra l'altro, al vizio dell'incompetenza, non essendo decisivo il riferimento, nel suo comma 3, all'udienza di cui all'art. 183 c.p.c.) e sia in dipendenza del richiamo generale previsto - come norma di chiusura - nell'art. 359 c.p.c., il quale rimanda, in via generale e con clausola estensiva (per quanto non espressamente disposto), alle norme relative al procedimento davanti al Tribunale "se non sono incompatibili con le disposizioni del presente capo" (e sulla configurabilità di tale rapporto di compatibilità non sono rinvenibili elementi contrari).

Pertanto, posto che a norma dell'art. 38 c.p.c., che ha comportato il superamento della distinzione tra criteri di competenza "forti" e "deboli", l'incompetenza per materia o per territorio, nei casi previsti dall'art. 28 c.p.c., deve essere rilevata d'ufficio entro la prima udienza di trattazione, ne discende, a pena d'inammissibilità, che il regolamento d'ufficio, dovendo immediatamente seguire al rilievo dell'incompetenza, deve essere richiesto - nel giudizio di primo grado - nella stessa prima udienza di trattazione, anche a seguito di eventuale riserva assunta in quella sede, e, nel giudizio di appello, al massimo entro il termine di esaurimento delle attività di trattazione contemplate dall'art. 350 c.p.c. (cfr., in tal senso, di recente, Cass. n. 22107/2018, non mass.), ossia prima che il giudice del gravame provveda all'eventuale ammissione delle prove ai sensi dell'art. 356 c.p.c., ovvero - in caso di mancata necessità di espletamento di attività istruttoria - prima che il giudice di secondo grado proceda ad invitare le parti a precisare le conclusioni e a dare ingresso alla fase propriamente decisoria.

A favore della prescelta soluzione militano pure ragioni correlate alla ratio stessa dell'istituto del regolamento di competenza d'ufficio, che risponde anche ad esigenze di economia processuale, mirando ad accelerare la definizione della questione della competenza, perché il giudice che lo richiede, anziché pronunciare, a sua volta, una declinatoria della propria incompetenza, evita ulteriori conflitti, senza trascurare la necessità che sia garantito il rispetto del generale principio della ragionevole durata del processo, che induce ad escludere che tale questione possa rimanere "in sospeso" anche per anni (nel caso di specie, addirittura 8) impedendo una pronuncia sul merito.

8. L'esito, in concreto, del regolamento di competenza d'ufficio sottoposto all'esame delle Sezioni unite.

Sulla scorta delle precedenti complessive argomentazioni e ritenuto, dunque, che la disciplina dell'art. 38 (comma 3) c.p.c. si applica anche nell'ipotesi di conflitto di competenza ai sensi dell'art. 45 c.p.c. sollevato in appello, nel caso oggetto del giudizio (in cui l'appello era assoggettato alle norme del codice di rito previste per l'appello ordinario, essendo il giudizio - di opposizione a cartella esattoriale riferito all'art. 22 della l. n. 689/1981 - iniziato nel 2006, e non, quindi, a quelle del processo del lavoro, ora divenute applicabili, in detta materia, ai sensi dell'art. 2 del d.lgs. n. 150/2011, per le cause instaurate dopo l'entra in vigore di quest'ultimo testo normativo: cfr. Cass., sez. un., n. 2907/2014), poiché il giudice dinanzi al quale era stata riassunta la causa in appello (a seguito del dichiarato difetto di competenza del primo giudice adìto in secondo grado) ha rilevato la (ritenuta) propria incompetenza direttamente in fase di decisione (ovvero dopo l'esaurimento delle attività di trattazione, della fase istruttoria di tipo documentale e dell'udienza di precisazione delle conclusioni), è evidente che il sollevato conflitto di competenza va qualificato come tardivo, donde l'inammissibilità del richiesto regolamento di competenza d'ufficio.

Ne consegue che, a seguito dell'intervenuta riassunzione, il secondo giudice (ovvero il Tribunale di Bari, che ha inammissibilmente, perché tardivo, dato luogo al conflitto di competenza), ritenuto competente dal primo giudice (ossia il Tribunale di Trani - Sez. dist. di Molfetta) dinanzi al quale era stato proposto in prima battuta l'appello, deve trattenere la causa in secondo grado per decidere sul merito del gravame (salva l'eventuale sussistenza di altre ipotesi processuali impedienti), essendosi ormai radicata dinanzi ad esso la competenza.

Non vi è luogo a provvedere sulle spese del presente giudizio trattandosi di regolamento di competenza richiesto d'ufficio.

P.Q.M.

La Corte, a Sezioni unite, dichiara l'inammissibilità del richiesto regolamento di competenza d'ufficio.

L. Della Ragione, R. Muzzica

La riforma del processo penale

Neldiritto, 2024

A. Bartolini e al. (curr.)

Le riforme amministrative

Il Mulino, 2024

F. Caringella

Codice amministrativo

Dike Giuridica, 2024