Consiglio di Stato
Sezione VI
Sentenza 30 novembre 2020, n. 7566

Presidente: De Felice - Estensore: De Luca

FATTO

1. Con comunicazione del 13 novembre 2015 l'Autorità garante della concorrenza e del mercato (per brevità, anche Autorità o AGCM) ha reso noto alla Lidl Italia s.r.l. (per brevità, anche Lidl o parte interessata) l'avvio di un procedimento istruttorio n. PS10283 riferito alla promozione e commercializzazione di un olio con caratteristiche qualitative inferiori a quelle dichiarate.

In particolare, alla stregua di una segnalazione acquisita agli atti dell'ufficio, l'olio a marchio "Primadonna", con l'etichetta recante la dicitura "olio extra vergine di oliva" non avrebbe presentato le proprietà chimiche e organolettiche proprie dell'olio extra vergine di oliva; con conseguente possibile integrazione della fattispecie di cui agli artt. 20, 21, comma 1, lett. b), e 22, del codice del consumo, facendosi questione di condotta contraria alla diligenza professionale e tale da far ritenere che l'olio possedesse le proprietà organolettiche della categoria merceologica riportata in etichetta.

All'esito del procedimento, alla stregua delle risultanze istruttorie desumibili da verifiche svolte dai NAS di Torino, su richiesta dell'autorità giudiziaria, l'Autorità ha ritenuto che l'olio confezionato per Lidl Italia da Fiorentini Firenze s.p.a., presentasse caratteristiche organolettiche corrispondenti alla categoria "olio di oliva vergine".

L'Autorità ha reputato attendibili le analisi svolte su richiesta della Procura di Torino, su un campione riferibile al lotto LLT02-1 5161, rilevando che le operazioni di prelievo e le successive analisi erano state effettuate da soggetti pubblici preposti a tale tipo di controlli (N.A.S./Agenzia delle Dogane e dei Monopoli) con attestazione di ogni singola fase procedurale, dal prelevamento di campioni sino alla certificazione delle analisi compiute.

Per l'effetto, l'Autorità ha riscontrato che il prodotto commercializzato e pubblicizzato dal professionista non corrispondeva alla categoria "olio extravergine di oliva" dichiarata in etichetta trattandosi, invece, di olio vergine di oliva.

In particolare, essendo la categoria merceologica del prodotto in grado di orientare le scelte di natura commerciale del consumatore - che può preferire un prodotto presentato con caratteristiche qualitative superiori essendo disposto a pagarlo ad un prezzo più elevato -, l'indicazione dell'appartenenza di olio alla categoria extravergine (apposta sull'etichetta del prodotto, su alcuni volantini pubblicitari cartacei e su un volantino diffuso nel web la settimana n. 1/2015) quando, in realtà, lo stesso presentava le caratteristiche di un olio vergine, risultava contraria alla diligenza professionale ed idonea a falsare il comportamento economico del consumatore medio, integrando, pertanto, gli estremi di una pratica ingannevole ai sensi dell'art. 21 del codice del consumo.

Nella specie, peraltro, non poteva riscontrarsi il normale grado di competenza e attenzione ragionevolmente richiesto al professionista, avuto riguardo alla qualità dell'operatore del settore alimentare.

Tenuto conto della gravità della violazione, dell'opera svolta dall'impresa per eliminare o attenuare l'infrazione, della personalità dell'agente, nonché delle condizioni economiche dell'impresa stessa, l'Autorità con il provvedimento n. 26070 (PS 10283) ha irrogato una sanzione pari ad euro 550.000,00 euro.

2. La società Lidl ha impugnato il provvedimento sanzionatorio, denunciandone l'illegittimità per:

- violazione dei principi del giusto processo (attesa l'assimilazione della sanzione amministrativa irrogata alla sanzione penale ai sensi della giurisprudenza della Corte EDU), sub specie di violazione del principio della presunzione di innocenza, della mancata fissazione di un'udienza pubblica, della unicità della funzione istruttoria e decisoria in capo al medesimo soggetto, della violazione del principio del contraddittorio e dell'omessa motivazione;

- incompetenza dell'Autorità resistente ad applicare la disciplina prevista nel codice del consumo alla materia dell'olio di oliva, essendovi una norma speciale (art. 7.1, lett. a), regolamento n. 1169/2011) della legislazione alimentare regolante la fattispecie specifica oggetto della decisione impugnata;

- l'inesistenza del fatto posto a base del provvedimento impugnato;

- l'inidoneità delle prove richiamate dall'Autorità a fondare il provvedimento impugnato;

- il rispetto degli obblighi normativi gravanti sul professionista e posti dalla disciplina europea in materia di sicurezza alimentare;

- la sussistenza di una condotta diligente da parte di Lidl;

- l'inidoneità della prova sensoriale a giustificare la qualificazione della fattispecie come pratica commerciale scorretta;

- la mancata valutazione delle prove a discarico;

- l'erronea quantificazione della sanzione.

3. L'Autorità intimata si è costituita in giudizio, resistendo al ricorso. Si sono costituite in resistenza, altresì, le associazioni Codici onlus Centro per i diritti del cittadino, Assoutenti Associazione nazionale utenti di servizi pubblici e Casa del consumatore.

Sono intervenute in giudizio l'Associazione Europea Consumatori Indipendenti e Associazione Primo Consumo, che hanno chiesto la conferma della sanzione impugnata, e la società Fiorentini Firenze a sostegno delle censure svolte dalla ricorrente.

4. A definizione del giudizio, il Tar ha parzialmente accolto il ricorso, annullamento il provvedimento impugnato.

In particolare, il primo giudice:

- ha rigettato il motivo concernente l'incompetenza dell'Agcm, in quanto la disciplina in materia di etichettature e quella di tutela del consumatore sono tra di loro complementari e non alternative, così che sussiste la competenza dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato a valutare la scorrettezza di una pratica commerciale;

- ha rigettato il motivo di censura riferito alla violazione del principio del giusto processo, tenuto conto che, sebbene la sanzione amministrativa pecuniaria irrogata dall'Autorità avesse natura afflittiva e sostanzialmente penale, le garanzie di cui all'art. 6 CEDU risultavano rispettate nell'ambito del giudizio di piena giurisdizione svoltosi in prime cure; peraltro, in sede procedimentale risultava garantito il contraddittorio e il diritto di difesa, nonché l'istruttoria e la decisione in sede amministrativa risultavano rimesse alla competenza di soggetti differenti;

- ha rigettato il motivo di ricorso riferito all'inattendibilità delle prove poste a fondamento del provvedimento sanzionatorio, avendo l'Autorità congruamente motivato le ragioni di attendibilità delle operazioni di prelievo ed analisi svolte dai NAS e dall'Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, provvedendo, altresì, ad una disamina delle controprove offerte dal professionista e specificando le ragioni per le quali le stesse non potevano ritenersi attendibili; la prova organolettica, inoltre, risultava pienamente utilizzabile, in quanto prevista dalla stessa disciplina comunitaria di riferimento;

- ha accolto il motivo di ricorso riguardante il difetto del coefficiente di colpevolezza in capo al professionista, tenuto conto che il professionista aveva rappresentato all'Autorità una serie di elementi volti a dimostrare l'insussistenza di una rimproverabilità del proprio operato, in relazione alle quali la motivazione fondante il provvedimento impugnato risultava insufficiente: difatti, a fronte delle misure di controllo e del sistema di verifiche che Lidl aveva dimostrato di avere adottato al fine di rispettare gli standard di diligenza imposti a un operatore del settore alimentare, il provvedimento sanzionatorio non chiariva per quale ragione l'insieme degli strumenti predisposti e concretamente utilizzati dal professionista non potesse considerarsi sufficientemente idoneo, secondo le regole della normale prudenza, a impedire il verificarsi dell'evento contestato.

5. L'Autorità ha appellato, in via principale, la sentenza di prime cure, censurando il capo con cui il Tar ha riscontrato un'inadeguatezza motivazionale riferita alla sussistenza del coefficiente psicologico di colpevolezza in capo al professionista.

Nel costituirsi in giudizio, Lidl ha eccepito l'inammissibilità dell'appello principale (perché proposto in modifica della linea difensiva assunta dall'Autorità in prime cure, incentrato su nuove contestazioni, diverse e contraddittorie rispetto alle argomentazioni svolte dinnanzi al Tar), oltre che la sua infondatezza; la società ricorrente in prime cure ha, altresì, appellato, in via incidentale, i capi di sentenza con cui il Tar aveva affermato la competenza dell'Autorità, aveva escluso la violazione del principio del giusto processo, nonché aveva ritenuto attendibili le prove fondanti l'accertamento amministrativo, escludendo la rilevanza in senso contrario delle prove a discarico fornite dal professionista; in subordine, l'appellante incidentale ha riproposto le censure riferite alla quantificazione della sanzione irrogata dall'Autorità.

Nel presente giudizio si è costituita, in adesione alle difese svolte da Lidl, la società Fiorentini Firenze s.p.a.

Si sono costituite in adesione all'appello principale le Associazioni Codici - Centro per i diritti del cittadino, Assoutenti, Konsumer Italia, A.E.C.I. - Associazione Europea Consumatori Indipendenti, Primo Consumo.

6. L'udienza di discussione, originariamente fissata per il giorno 7 aprile 2020, è stata rinviata al 1° ottobre 2020 ai sensi dell'art. 84, commi 1 e 2, del d.l. n. 18 del 17 marzo 2020, conv. in l. n. 27 del 24 aprile 2020.

7. In vista dell'udienza di discussione le parti (appellante principale, appellante incidentale e Fiorentini Firenze s.p.a.) hanno insistito nelle proprie argomentazioni e conclusioni mediante il deposito di memorie difensive. L'appellante incidentale e la società Fiorentini Firenze s.p.a. hanno depositato, altresì, memoria di replica.

8. La causa è stata trattenuta in decisione nell'udienza del 1° ottobre 2020.

DIRITTO

1. Pregiudizialmente, deve essere rigettata l'eccezione di inammissibilità dell'appello principale, tenuto conto che l'Autorità non ha svolto nuove eccezioni non rilevabili d'ufficio, bensì si è limitata a contestare le rationes decidendi addotte a fondamento della decisione di prime cure, adeguando i motivi di censura all'impianto motivazionale sotteso alla pronuncia appellata.

Ai sensi dell'art. 101 c.p.a. il ricorso in appello deve recare (altresì) l'articolazione di specifiche censure contro i capi della sentenza gravata, risolvendosi in una puntuale critica alle ragioni fondanti la pronuncia appellata.

Come precisato da questo Consiglio, "Ai sensi dell'art. 101, comma 1, c.p.a. l'atto di appello deve contenere, per quanto qui interessa, a pena di inammissibilità "le specifiche censure contro i capi della sentenza gravata", ovvero, secondo la giurisprudenza, deve contenere motivi di impugnazione specifici nel contenuto e indicati in apposita parte del ricorso a loro dedicata - in tal senso, per tutte, C.d.S., Sez. IV, 6 ottobre 2017, n. 4659 e Sez. VI, 4 gennaio 2016, n. 8 - fermo che non è sufficiente una riproposizione generica dei motivi dedotti in I grado, ma è richiesta una critica alle conclusioni cui è pervenuta la sentenza impugnata - così, sempre per tutte, C.d.S., Sez. V, 30 luglio 2018, n. 4655" (C.d.S., Sez. VI, 20 dicembre 2019, n. 8609).

Avuto riguardo al caso di specie, l'appello proposto dall'Autorità si risolve in una puntuale critica delle ragioni giustificatrici della sentenza gravata, contrapponendo alle argomentazioni svolte dal Tar - in accoglimento del motivo di ricorso riguardante la carenza del prescritto coefficiente psicologico di colpevolezza - specifiche censure, idonee ad incrinare l'impianto motivazionale alla base della decisione appellata.

Né potrebbe ritenersi che l'Autorità abbia mutato la linea difensiva svolta in primo grado, tenuto conto che:

- da un lato, nella memoria del 4 dicembre 2017 depositata in primo grado la parte resistente aveva contestato la fondatezza dei motivi di ricorso, rilevando l'adeguatezza motivazionale della delibera sanzionatoria impugnata dinnanzi al Tar, assumendo, per l'effetto, una linea difensiva coerente con quella svolta nel presente grado di appello, in cui si censura l'erroneità della sentenza gravata, per aver ritenuto necessaria la rappresentazione di ragioni, ulteriori rispetto a quelle fondanti il provvedimento sanzionatorio, riferite all'integrazione dell'elemento soggettivo dell'illecito in contestazione;

- dall'altro, come osservato, l'appello non costituisce una mera riproposizione delle eccezioni e delle difese svolte in prime cure, traducendosi in una motivata contestazione delle rationes decidendi a fondamento della sentenza gravata; sicché, ove il Tar, in accoglimento del ricorso, riscontri un vizio di legittimità inficiante il provvedimento impugnato, la parte soccombente non soltanto ha la possibilità, ma - deve ritenersi - è onerata, a pena di inammissibilità dell'appello, a prendere posizione su tale capo di sentenza, censurandolo specificatamente, anche ove, in ipotesi, le ragioni fondanti l'accoglimento del ricorso non siano state specificatamente contestate in prime cure.

Le censure svolte dall'Autorità non possono, dunque, ritenersi nuove ex art. 104 c.p.a., non determinando un'estensione del thema decidendum in grado di appello, ma avendo ad oggetto questioni già dibattute in prime cure e decise con la sentenza impugnata.

2. L'ammissibilità dell'appello dell'Autorità impone di definire l'ordine di esame dei motivi di impugnazione proposti dalle parti, sia in via principale che in via incidentale.

In assenza di un'espressa graduazione dell'impugnazione incidentale operata da Lidl - difettando una clausola volta a subordinare l'esame dell'appello incidentale alla ritenuta fondatezza dell'appello principale - deve essere seguito l'ordine logico delle questioni dedotte con gli atti di appello, scrutinando previamente l'appello incidentale, in quanto avente ad oggetto questioni afferenti all'esistenza sul piano oggettivo dell'illecito contestato con il provvedimento impugnato in prime cure.

All'esito, potrà esaminarsi l'appello principale proposto dall'Autorità, vertente soltanto sul coefficiente psicologico di colpevolezza, presupponente l'integrazione degli elementi costitutivi oggettivi della fattispecie di pratica ingannevole per cui è controversia.

3. Con il primo motivo di appello incidentale Lidl contesta l'erroneità della sentenza di primo grado nella parte in cui ha qualificato la fattispecie in esame come pratica commerciale ingannevole, sebbene non risultasse posta in essere alcuna pratica commerciale avente lo scopo di indurre il consumatore ad effettuare l'acquisto di un prodotto mediante messaggi, indicazioni od espressioni ingannevoli tali da fargli credere che il prodotto offerto in vendita avesse le caratteristiche qualitative effettivamente dichiarate in etichetta (nella fattispecie, olio extravergine di oliva).

Nel caso di specie, il professionista avrebbe chiaramente indicato in etichetta il prodotto che intendeva effettivamente porre in vendita utilizzando la denominazione di vendita legale (olio extravergine di oliva) e il consumatore l'avrebbe scelto senza sottostare ad alcuna pratica commerciale ingannevole, ma semplicemente acquistando il prodotto la cui denominazione di vendita era riportata sull'etichetta.

L'Autorità, in particolare, non avrebbe il potere di accertare la corrispondenza, dal punto di vista qualitativo, tra il prodotto dichiarato in etichetta e quello posto in vendita, la cui verifica sarebbe rimessa ad altre autorità, configurandosi, in ipotesi, la fattispecie della vendita aliud pro alio e, quindi, una frode in commercio; l'affermazione di una competenza concorrente dell'Autorità darebbe luogo, altresì, alla violazione del principio del ne bis in idem.

In ogni caso, nella specie dovrebbe trovare applicazione il disposto dell'art. 7 Regolamento UE n. 1169/11, posto sempre a tutela degli interessi dei consumatori, ma nello specifico rivolto a garantire un'informazione corretta, chiara e trasparente, assicurando acquisti consapevoli: pertanto, posto che nella specie si farebbe questione di un caso di etichettatura di prodotti alimentari assoggettato al predetto regolamento, dovrebbe trovare applicazione la disciplina speciale di cui al reg. n. 1169 cit., con conseguente esclusione - anche in ragione del combinato disposto dell'art. 3 direttiva n. 2005/29/CE e del suo considerando n. 10 - della competenza dell'Autorità in materia di pratiche commerciali ingannevoli.

La censura è ulteriormente argomentata sulla base di disposizioni sopravvenute all'adozione del provvedimento sanzionatorio (d.lgs. n. 231/2017 e d.lgs. n. 27/2017), che confermerebbero l'incompetenza dell'Autorità in relazione ad una fattispecie, in astratto, connotata dalla violazione di disposizioni applicabili nel settore alimentare con riferimento ad informazioni rivolte ai consumatori.

Il motivo di appello è infondato.

3.1. Preliminarmente, si osserva che la disciplina dettata dal d.lgs. n. 231/2017 e dal d.lgs. n. 27/2017, peraltro sopravvenuta rispetto alla data di adozione del provvedimento sanzionatorio, non può essere utilmente invocata a fondamento del motivo di impugnazione, non consentendo una deroga alle previsioni attributive della competenza sanzionatoria dell'Autorità antitrust in materia di pratiche commerciali scorrette.

Difatti, il d.lgs. n. 27 del 2017, all'art. 1, fa espressamente salvo quanto previsto dal d.lgs. 2 agosto 2007, n. 145 e dal d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, relativamente alle attribuzioni dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato, così come l'art. 1 d.lgs. n. 231 del 2017 fa salva la disciplina sanzionatoria prevista dal d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, regolante, altresì, la tutela amministrativa avverso le pratiche commerciali scorrette (art. 27).

3.2. Il motivo di appello non merita condivisione neanche nella parte in cui tende ad escludere l'integrazione di una pratica commerciale scorretta.

Al riguardo, si osserva che "il carattere ingannevole di una pratica commerciale dipende dalla circostanza che essa non sia veritiera in quanto contenente informazioni false o che, in linea di principio, inganni o possa ingannare il consumatore medio, in particolare, quanto alla natura o alle caratteristiche principali di un prodotto o di un servizio e che, in tal modo, sia idonea a indurre detto consumatore ad adottare una decisione di natura commerciale che non avrebbe adottato in assenza di tale pratica. Quando tali caratteristiche ricorrono cumulativamente, la pratica è considerata ingannevole e, pertanto, deve essere vietata" (C.d.S., Sez. VI, 12 marzo 2020, n. 1751).

Il carattere della pratica commerciale, peraltro, deve essere valutato ex ante e, quindi, a prescindere dal dato di fatto concreto, variabile per le più diverse ragioni, soggettive e oggettive, legato all'esito concretamente lesivo prodotto dalla condotta del professionista (cfr. C.d.S., Sez. VI, 16 marzo 2018, n. 1670). Infatti, la ratio della disciplina in materia di pratiche scorrette è quella di salvaguardare la libertà di autodeterminazione del destinatario di un messaggio promozionale da ogni erronea interferenza che possa, anche solo in via teorica, incidere sulle sue scelte e sui riflessi economici delle stesse fin dal primo contatto pubblicitario (C.d.S., Sez. VI, 2 dicembre 2019, n. 8227).

La giurisprudenza della Sezione ha avuto modo di ribadire che "l'obbligo di estrema chiarezza, che viene violato proprio da pratiche ingannevoli o false che in qualsiasi modo, anche nella presentazione complessiva, ingannino o possano indurre in errore il contraente medio, deve essere congruamente assolto dal professionista sin dal primo contatto, attraverso il quale debbono essere messi a disposizione del consumatore gli elementi essenziali per un'immediata percezione della offerta economica pubblicizzata" (C.d.S., Sez. VI, 15 ottobre 2019, n. 6984).

Alla stregua di tali coordinate ermeneutiche emerge che la pubblicizzazione di un prodotto mediante "l'ingannevole indicazione "olio extravergine di oliva", apposta sull'etichetta del prodotto, su alcuni volantini pubblicitari cartacei e su un volantino diffuso sul web la settimana n. 1/2015" (corrispondente alla contestazione svolta dall'Autorità nel provvedimento impugnato in prime cure), salvo ogni verifica circa l'effettiva difformità rilevata dall'Autorità (oggetto di disamina nell'ambito del terzo e del quarto motivo di appello incidentale), è idonea ad integrare gli estremi della pratica commerciale ingannevole, essendo veicolate informazioni fuorvianti idonee ad indurre in errore i consumatori circa la concreta idoneità allo scopo che gli stessi potevano attendersi dall'impiego del prodotto in esame.

La pratica commerciale ingannevole, nella specie, non si traduceva, infatti, in un unico atto di commercializzazione, riguardante la singola bottiglia di olio oggetto di contestazione, bensì nella diffusione al pubblico, altresì, attraverso l'etichetta apposta sul prodotto, nonché mediante volantini cartacei e un volantino diffuso sul web, di informazioni ingannevoli in relazione alle qualità del prodotto offerto (olio extra vergine di oliva, anziché vergine di oliva), idonee ad ingannare il consumatore, inducendolo in errore circa una caratteristica essenziale dell'olio acquistato - privo della qualità attesa -, in tale modo determinandolo al compimento di un atto di acquisto che altrimenti avrebbe potuto anche non essere effettuato.

Peraltro, occorre precisare che anche la circostanza per cui la condotta del professionista coinvolto sia stata tenuta un numero limitato di volte o abbia interessato un numero contenuto di consumatori (al limite anche uno solo) è irrilevante al fine di escludere la configurazione di una pratica commerciale scorretta, atteso che né la normativa interna, né quella eurounitaria recano indizi che consentano di affermare che l'azione o l'omissione da parte del professionista debba presentare carattere reiterato o riguardare più di un consumatore (Corte di giustizia U.E., sentenza del 16 aprile 2015, in causa C-388/13, Hatóság, punto 41; C.d.S., Sez. VI, 27 febbraio 2020, n. 1425).

3.3. Nel caso esaminato non potrebbe neanche riscontrarsi la violazione del ne bis in idem, in quanto gli elementi costitutivi del reato di frode in commercio ex art. 515 c.p. (in astratto ipotizzato dall'appellante incidentale alla stregua della contestazione dell'Autorità) non sono coincidenti con quelli della pratica commerciale ingannevole.

Basti considerare che nella fattispecie criminosa l'antigiuridicità della condotta si attesta sulla consegna di una cosa difforme per origine, provenienza, qualità o quantità, da quella pattuita o dichiarata, mentre la pratica commerciale ingannevole si traduce in un illecito di pericolo, atteso che, come precisato dalla Sezione, "la ratio complessiva della disciplina consumeristica di cui al d.lgs. n. 206 del 2005 rende le norme a tutela del consumatore fattispecie di pericolo, «essendo preordinate a prevenire le possibili distorsioni delle iniziative commerciali nella fase pubblicitaria, prodromica a quella negoziale, sicché non è richiesto all'Autorità di dare contezza del maturarsi di un pregiudizio economico per i consumatori, essendo sufficiente la potenziale lesione della loro libera determinazione» (v., ex multis, C.d.S., Sez. VI, n. 6050 del 2014 e n. 6204 del 2011)" (C.d.S., Sez. VI, 16 agosto 2017, n. 4011).

Ne deriva che la frode in commercio e la pratica commerciale ingannevole configurano fattispecie aventi diversa natura giuridica e distinti elementi costitutivi, rilevando nell'ambito della pratica commerciale scorretta, anziché la concreta consegna del prodotto, essenziale ai fini dell'integrazione della fattispecie di cui all'art. 515 c.p., il potenziale condizionamento dell'autodeterminazione del consumatore, anche a prescindere dagli effetti concreti, in termini di vantaggio economico, verificatisi per il professionista.

In ogni caso, il ne bis in idem non sarebbe in linea di principio di ostacolo all'attivazione di procedimenti complementari vertenti sullo stesso fatto, tenuto conto che, alla stregua della recente giurisprudenza costituzionale (cfr. Corte cost., 24 ottobre 2019, n. 222 e 12 giugno 2020, n. 114), la mera sottoposizione dei medesimi fatti a due procedimenti sanzionatori aventi natura penale (alla stregua dei criteri delineati dalla Corte EDU sin dalla sentenza 8 giugno 1976, Engel ed altri) non determina, sempre e necessariamente, la violazione del ne bis in idem, specie, qualora a) le due sanzioni perseguano scopi differenti e complementari, b) il sistema normativo garantisca una coordinazione tra i due procedimenti sì da evitare eccessivi oneri per l'interessato e assicuri comunque che il complessivo risultato sanzionatorio non risulti sproporzionato rispetto alla gravità della violazione.

Ferma rimanendo la non sovrapponibilità tra le due fattispecie in raffronto, da un lato, l'odierno appellante non risulta sanzionato in sede penale, ragion per cui non si pone un problema di proporzionalità, in concreto, del trattamento sanzionatorio cui è stato sottoposto l'operatore economico; dall'altro, con la fattispecie di frode in commercio si punisce la traditio di una cosa difforme da quella promessa, mentre con la fattispecie di pratica ingannevole si sanziona la lesione dell'autodeterminazione individuale, mediante l'induzione in errore del consumatore ai fini del compimento di un atto di acquisto, con conseguente emersione di forme di tutela tra loro complementari.

3.4. Infine, risulta infondata anche l'ulteriore censura incentrata sulla specialità della disciplina dettata dal Regolamento UE n. 1169/11 in materia di etichettatura di prodotti alimentari, con conseguente asserita esclusione - anche in ragione del combinato disposto dell'art. 3 direttiva n. 2005/29/CE e del suo considerando n. 10 - della competenza dell'Autorità in materia di pratiche commerciali ingannevoli.

Al riguardo, si osserva che l'applicazione della disciplina dettata in materia di pratiche commerciali scorrette può essere esclusa soltanto in caso di incompatibilità con altre previsioni del diritto unionale riguardanti le fattispecie in raffronto.

Ai sensi dell'art. 3, par. 4, direttiva n. 29 del 2005, soltanto "In caso di contrasto tra le disposizioni della presente direttiva e altre norme comunitarie che disciplinino aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali, prevalgono queste ultime e si applicano a tali aspetti specifici".

Chiamata a pronunciarsi sulla nozione di "contrasto", la Corte di giustizia (sentenza 13 settembre 2018, nelle cause riunite C-54/17 e C-55/17, punti 60 e 61) ha, infatti, precisato che "essa denota un rapporto tra le disposizioni cui si riferisce che va oltre la mera difformità o la semplice differenza, mostrando una divergenza che non può essere superata mediante una formula inclusiva che permetta la coesistenza di entrambe le realtà, senza che sia necessario snaturarle. Pertanto, un contrasto come quello contemplato dall'articolo 3, paragrafo 4, della direttiva 2005/29 sussiste unicamente quando disposizioni estranee a quest'ultima, disciplinanti aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali, impongono ai professionisti, senza alcun margine di manovra, obblighi incompatibili con quelli stabiliti dalla direttiva 2005/29" (punti 60 e 61).

Come statuito dalla Sezione (sentenza 11 novembre 2019, n. 7699), il criterio di risoluzione di una possibile concorrenza di norme che disciplinano la condotta contestata è costituito non dal "criterio di specialità" ma dal "criterio di incompatibilità": il primo criterio presuppone che le due discipline presentino aspetti comuni, differenziandosi soltanto per elementi specializzanti per specificazione o per aggiunta; il secondo criterio presuppone, invece, che tra le due discipline sussista una complessiva divergenza di contenuti che non ne consenta neanche l'astratta coesistenza.

Trattasi di interpretazione aderente al significato letterale (altresì) dell'art. 19, comma 3, d.lgs. n. 206 del 2005, alla stregua del quale "In caso di contrasto, le disposizioni contenute in direttive o in altre disposizioni comunitarie e nelle relative norme nazionali di recepimento che disciplinano aspetti specifici delle pratiche commerciali scorrette prevalgono sulle disposizioni del presente titolo e si applicano a tali aspetti specifici".

Il nuovo criterio elaborato dalla Corte di giustizia decreta, pertanto, l'abbandono dei criteri di matrice penalistica, poco compatibili con la natura delle regole di condotta contemplate nei due settori. Queste, come già sottolineato, essendo espressione del principio di buona fede e demandando al caso concreto la loro completa tipizzazione, non si prestano ad un confronto astratto mediante comparazione delle fattispecie.

In questa prospettiva, l'espressione «aspetti specifici» della pratica commerciale scorretta impone un confronto non tra interi settori o tra fattispecie concrete, ma tra singole norme generali e di settore, con applicazione di queste ultime soltanto qualora esse contengano profili di disciplina incompatibili e antinomici con quelle generali di disciplina delle pratiche commerciali scorrette. Ne consegue che la normativa di settore non disciplinerà pratiche commerciali scorrette, ma condotte che presentano aspetti di divergenza radicale con tali pratiche.

Alla stregua di tali coordinate ermeneutiche, deve ritenersi che il reg. n. 1169 cit. invocato a fondamento del primo motivo di appello non detti una disciplina incompatibile, ma complementare rispetto a quella in materia di pratiche commerciali scorrette; il che trova conferma nel considerando n. 5 dello stesso regolamento, in forza del quale "La direttiva 2005/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell'11 maggio 2005, relativa alle pratiche commerciali sleali delle imprese nei confronti dei consumatori nel mercato interno, disciplina taluni aspetti della fornitura d'informazioni ai consumatori al fine specifico di prevenire azioni ingannevoli e omissioni di informazioni. I principi generali sulle pratiche commerciali sleali dovrebbero essere integrati da norme specifiche relative alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori".

Risulta, dunque, che il regolamento n. 1169 cit. delinea una disciplina integrativa (e non sostitutiva) di quella dettata dalla direttiva n. 29 del 2005, con conseguente emersione di un rapporto di compatibilità tra le corrispondenti disposizioni, tale da confermare la competenza dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato anche in relazione a pratiche commerciali scorrette tradottesi nella pubblicizzazione di qualità essenziali del prodotto alimentare mediante l'utilizzo dell'etichetta.

Il che, in particolare, è avvalorato dalla disciplina prevista dall'art. 7 regolamento n. 1169 che, dettando prescrizioni in materia di pratiche leali di informazione e imponendo l'utilizzo di informazioni sugli alimenti precise, chiare e facilmente comprensibili per il consumatore, non pone un precetto incompatibile con le disposizioni in materia di pratiche commerciali ingannevoli, tendendo comunque a salvaguardare la consapevolezza dell'atto di consumo, al fine di evitare che il professionista, pubblicizzando qualità non possedute dal prodotto, violi l'autodeterminazione del consumatore, inducendolo al compimento di un atto di acquisto che altrimenti avrebbe potuto anche non essere effettuato.

La compatibilità tra le disposizioni in commento, suscettibili di coesistere nell'ambito dell'ordinamento giuridico, costituendo la disciplina settoriale un'integrazione di quella generale a tutela dell'autodeterminazione del consumatore, consente di confermare la sentenza di prime cure, anche nella parte in cui ha ravvisato la competenza a provvedere dell'Autorità odierna appellante principale.

In ogni caso, si osserva che il provvedimento sanzionatorio impugnato in prime cure, oltre a segnalare l'ingannevolezza dell'indicazione "olio extra vergine di oliva" apposta sull'etichetta del prodotto, ha contestato l'ingannevolezza della medesima indicazione riportata su volantini cartacei, nonché su un volantino apparso sul sito internet.

Pertanto, facendosi questione di condotte ulteriori rispetto all'utilizzo dell'etichettatura per la diffusione di un messaggio ingannevole, non avrebbe potuto essere utilmente invocata al fine di escludere la competenza dell'Autorità la disciplina speciale (comunque compatibile) in materia di etichettatura di prodotti alimentari, non idonea a regolare la complessiva condotta tenuta dall'operatore economico.

4. Con il secondo motivo di appello incidentale è censurata l'erroneità della sentenza appellata nella parte in cui ha escluso la violazione del principio del giusto processo, nonostante il provvedimento sanzionatorio fosse stato emesso in assenza di un adeguato contraddittorio infraprocedimentale, non assicurato dal regolamento dell'Autorità in materia di pratiche commerciali scorrette.

In particolare, la disciplina regolamentare non riconosceva il diritto all'audizione o comunque ad interloquire con l'organo procedente, né prevedeva la possibilità di controdeduzione in ordine alla proposta di decisione trasmessa dall'organo istruttorio all'organo decisorio: nella specie, peraltro, il tecnicismo della materia avrebbe imposto l'audizione del professionista dinnanzi all'organo decisorio, richiesta formulata dal professionista ma in concreto negata dall'Autorità.

Inoltre, la decisione assunta risulterebbe carente di motivazione su uno dei punti fondamentali della procedura, concernente la legittimità delle operazioni di campionamento, di stoccaggio, di conservazione e trasporto del campione, che avrebbero dovuto essere sottoposti ad approfondito contraddittorio.

Il motivo di appello è infondato.

4.1. La giurisprudenza della Sezione ha ripetutamente riconosciuto che la possibilità di impugnare il provvedimento sanzionatorio dinnanzi ad un giudice munito di poteri di piena giurisdizione consente di escludere la violazione del principio del giusto processo applicato ai procedimenti sanzionatori aventi natura afflittiva.

In particolare, si intende dare continuità all'indirizzo giurisprudenziale in forza del quale "L'art. 6 CEDU prevede che, per aversi equo processo, "ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un Tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge". Come è noto, questa disposizione si applica anche in presenza di sanzioni amministrative di natura afflittiva, alle quali deve essere riconosciuta natura sostanzialmente penale. La Corte di Strasburgo ha elaborato propri e autonomi criteri al fine di stabilire la natura penale o meno di un illecito e della relativa sanzione. In particolare, sono stati individuati tre criteri, costituiti: i) dalla qualificazione giuridica dell'illecito nel diritto nazionale, con la puntualizzazione che la stessa non è vincolante quando si accerta la valenza "intrinsecamente penale" della misura; ii) dalla natura dell'illecito, desunta dall'ambito di applicazione della norma che lo prevede e dallo scopo perseguito; iii) dal grado di severità della sanzione (ex plurimis, sentenze 4 marzo 2014, r. n. 18640/10, nella causa Grande Stevens e altri c. Italia; 10 febbraio 2009, ric. n. 1439/03, resa nella causa Zolotoukhine c. Russia), che è determinato con riguardo alla pena massima prevista dalla legge applicabile e non di quella concretamente applicata. All'interno della più ampia categoria di accusa penale così ricostruita, la giurisprudenza della Corte EDU ha distino tra un diritto penale in senso stretto (hard core of criminal law) e casi non strettamente appartenenti alle categorie tradizionali del diritto penale.

Al di fuori del c.d. hard core, le garanzie offerte dal profilo penale non devono necessariamente essere applicate in tutto il loro rigore, in particolare qualora l'accusa all'origine del procedimento amministrativo non comporti un significativo grado di stigma nei confronti dell'accusato. La pragmaticità dell'approccio della Corte europea dei diritti dell'uomo ha dunque portato quest'ultima a riconoscere che non tutte le prescrizioni di cui all'art. 6, par. 1, CEDU devono essere necessariamente realizzate nella fase procedimentale amministrativa, potendo esse, almeno nel caso delle sanzioni non rientranti nel nocciolo duro della funzione penale, collocarsi nella successiva ed eventuale fase giurisdizionale (cfr. Corte europea dei diritti dell'uomo 23 novembre 2006, caso n. 73053/01, Jussila c. Finlandia). È, pertanto, ritenuto compatibile con l'art. 6, par. 1, della Convenzione che sanzioni penali siano imposte in prima istanza da un organo amministrativo - anche a conclusione di una procedura priva di carattere quasi giudiziale o quasi-judicial, vale a dire che non offra garanzie procedurali piene di effettività del contraddittorio - purché sia assicurata una possibilità di ricorso dinnanzi ad un giudice munito di poteri di "piena giurisdizione", e, quindi, le garanzie previste dalla disposizione in questione possano attuarsi compiutamente quanto meno in sede giurisdizionale (ex plurimis, C.d.S., Sez. VI, 22 marzo 2016, n. 1164; Sez. VI, 26 marzo 2015, n. 1595 e n. 1596)" (C.d.S., Sez. VI, 10 luglio 2018, n. 4211 e 12 febbraio 2020, n. 1047).

Avuto riguardo al caso di specie, benché la sanzione irrogata dall'Autorità appellante principale, in ragione dei criteri di identificazione sopra esposti - e, in particolare, della natura della norma, posta a tutela di beni giuridici (autodeterminazione del consumatore) di interesse superindividuale, del grado di severità della stessa e della sua funzione punitiva e deterrente -, abbia natura afflittiva e "sostanzialmente" penale, comunque, le garanzie imposte dall'art. 6 CEDU devono ritenersi rispettate nel presente giudizio di "piena giurisdizione".

Il sindacato di legittimità del giudice amministrativo sui provvedimenti dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato comporta, infatti, la verifica diretta dei fatti posti a fondamento del provvedimento impugnato e si estende anche ai profili tecnici, il cui esame sia necessario per giudicare della legittimità di tale provvedimento (cfr. C.d.S., Sez. VI, 19 dicembre 2019, n. 8590).

Ne deriva che, essendo garantita all'odierno appellante incidentale la possibilità di ricorrere dinnanzi ad un giudice munito di poteri di piena giurisdizione, non risulta configurabile alcuna violazione del principio del giusto processo.

4.1. Né potrebbe diversamente argomentarsi sulla base dei precedenti della Sezione, valorizzati dall'appellante incidentale, riferiti alla legittimità dei regolamenti Consob e Ivass.

Difatti, le sentenze n. 1596 del 2015 e n. 2043 del 2019 hanno sì riscontrato la violazione del principio del contraddittorio, ma ponendo a fondamento della relativa decisione - anziché la violazione principio del giusto processo sancito a livello sovranazionale in relazione alle sanzioni penali in senso lato - la violazione di una specifica disposizione legislativa interna, espressamente riferita ai settori di competenza delle due Autorità, come tale non invocabile nel presente giudizio.

In particolare, con la sentenza n. 1596 del 2015, successivamente richiamata dalla sentenza n. 2043 del 2019, questo Consiglio, precisato che "La CEDU, in altri termini, non impone che le sanzioni inflitte dalla Consob siano assistite, già nella fase amministrativa del procedimento sanzionatorio che precede la fase giurisdizionale, da garanzie assimilabili a quelle che valgono per le sanzioni penali in senso stretto", ha ritenuto che "il regolamento Consob non presenta motivi di contrasto con l'art. 6, par. 1, della CEDU, occorre ora, tuttavia, vagliarne la legittimità alla luce delle disposizioni di rango sia costituzionale sia legislativo dell'ordinamento nazionale. 23. Rispetto ai precetti costituzionali non emergono profili di illegittimità. [...] Occorre allora chiarire se il contraddittorio richiamato in generale dall'art. 195 e, per la specifica materia del c.d. market abuse che qui viene in rilievo, dall'art. 187-septies T.U.F, sia semplicemente il "tradizionale" contraddittorio endoprocedimentale (con finalità partecipativa e collaborativa) già conosciuto nell'ambito della disciplina generale del procedimento amministrativo o se, al contrario, si tratti di un concetto più stringente di contraddittorio, volto ad imporre, in un'ottica difensiva, l'introduzione di garanzie ulteriori. 28. Il Collegio ritiene che meriti condivisione la seconda opzione ermeneutica, quella secondo cui il contraddittorio richiamato per i procedimenti sanzionatori della Consob sia un contraddittorio rafforzato rispetto a quello meramente collaborativo già assicurato dalla disciplina generale del procedimento amministrativo".

Ne deriva che le pronunce de quibus non hanno espresso un principio generale, fondato sull'art. 6 CEDU o su disposizioni costituzionali, richiedente per tutti i procedimenti sanzionatori di competenza delle Autorità amministrative indipendenti il rispetto di un più elevato livello di contraddittorio rispetto a quello già assicurato per i comuni procedimenti amministrativi; bensì ha statuito sulla base di disposizioni legislative esclusivamente riferite ad un particolare procedimento sanzionatorio relativo alla materia del c.d. market abuse.

Tali precedenti non possono, dunque, essere utilmente invocati per asseverare l'illegittimità del procedimento sanzionatorio in materia di pratiche commerciali scorrette di competenza dell'odierna appellante principale.

Anche sotto tale profilo il Collegio intende dare continuità all'indirizzo giurisprudenziale, con cui è stato precisato che: "con la sentenza n. 5253 del 2015, nel respingere una censura di carenza di contradditorio procedimentale per certi versi simile a quella odierna, basata anch'essa sul richiamo al "precedente Consob" di cui a C.d.S., Sez. VI, n. 1596 del 2015, ha affermato, in modo condivisibile, che "se... si può parlare di contraddittorio rafforzato per il procedimento sanzionatorio che si svolge in ambito Consob, a dette conclusioni non può giungersi per i procedimenti davanti all'AGCM (disciplinati dal regolamento sulle procedure istruttorie, adottato con delibera dell'Autorità del 15 novembre 2007 n. 17589 - attualmente, v. delibera AGCM n. 25411 del 1° aprile 2015, n. d. est.: ma il disposto di cui all'art. 12 del regolamento del 2015 non è dissimile rispetto all'art. 12 del regolamento del 2007); infatti, per questi ultimi non è stata ancora introdotta una normativa speciale primaria, ma vengono alla stessa estesi i principi generali sanciti dalla legge generale sul procedimento amministrativo. Tanto è vero che l'art. 27, comma 11, del codice del consumo richiama espressamente i principi generali della l. 241 del 1990 stabilendo che "l'Autorità garante della concorrenza e del mercato, con proprio regolamento, disciplina la procedura istruttoria, in modo da garantire il contraddittorio, la piena cognizione degli atti e la verbalizzazione"... il Collegio ritiene che il regolamento di procedura del 2015 e, segnatamente, gli articoli 12 e 16 del regolamento medesimo non si pongano al di sotto dello "standard di contraddittorio" stabilito dal Legislatore all'art. 27, comma 11, del codice del consumo, dato che consentono in modo ampio all'incolpato di interloquire con l'Autorità attraverso la produzione di documentazione, per cui non sembra che l'audizione personale - negata, tra l'altro, nella specie, unicamente perché l'istanza era pervenuta in ritardo - sia di per sé un presidio incomprimibile di partecipazione procedimentale (conf., sul punto, C.d.S., Sez. VI, n. 2256 del 2011)" (cfr. C.d.S., Sez. VI, 14 giugno 2017, n. 2918).

Nel caso di specie, l'Autorità ha assicurato la partecipazione procedimentale dell'operatore economico, assicurando alla Lidl sia l'accesso agli atti del procedimento in data 27 novembre 2015 e 28 aprile 2016, sia la produzione di memorie e documenti in relazione all'oggetto delle contestazioni.

In assenza di una norma espressa che imponga l'audizione della parte o le specifiche forme di contraddittorio rafforzato richiamate dall'appellante incidentale, il contraddittorio cartolare dinnanzi all'autorità amministrativa, garantito mediante l'ostensione degli atti amministrativi e la riconosciuta possibilità di produrre memorie, documenti ed altri elementi istruttori, deve ritenersi idoneo ad assicurare l'effettività della difesa procedimentale, venendo comunque assicurate le esigenze del giusto processo - come supra osservato - attraverso il riconoscimento per la parte lesa della possibilità di sollecitare un sindacato giurisdizionale pieno sui fatti di causa e sulle valutazioni tecniche svolte dall'Autorità, nell'ambito di un processo connotato da un contraddittorio anche orale, che abilita la parte alla discussione delle questioni litigiose dinnanzi ad un giudice terzo e imparziale.

L'eventuale omesso approfondimento di questioni ritenute decisive ai fini di un diverso pronunciamento dell'Autorità resistente, per effetto della mancata audizione dell'impresa sottoposta ad accertamento, può, invece, rilevare, anziché come vizio procedimentale, come difetto di istruttoria, per non avere l'Autorità esaminato in sede decisoria elementi di valutazione che avrebbero potuto essere segnalati e discussi nel contraddittorio orale con i soggetti incisi dall'azione provvedimentale e che, pertanto, avrebbero potuto condurre ad una differente decisione del caso concreto.

Per tale ragione, il contestato omesso approfondimento - anche per effetto della mancata audizione dell'impresa - delle questioni correlate alle operazioni di campionamento, di stoccaggio, di conservazione e trasporto del campione non può essere favorevolmente apprezzato quale violazione procedimentale, sub specie di lesione del contraddittorio infraprocedimentale, bensì deve essere vagliato quale preteso difetto di istruttoria.

Tale censura, svolta del secondo motivo di appello, può essere esaminata unitamente alle contestazioni sollevate da Lidl nell'ambito del terzo motivo di appello, riguardante specificatamente le carenze istruttorie in cui sarebbe incorsa l'Autorità nell'accertamento dei fatti di causa.

5. In particolare, con il terzo motivo di appello incidentale Lidl deduce l'omesso esame delle contestazioni svolte dal professionista circa la violazione della disciplina in materia di campionamento dell'olio di oliva, nonché la circostanza per cui il Tar ha ritenuto di potere estendere il risultato negativo del test organolettico effettuato dal Laboratorio delle Dogane di Genova all'intero lotto di bottiglie di olio, sebbene il referto avesse riguardo al contenuto di una sola bottiglia analizzata.

In particolare, secondo la prospettazione dell'appellante incidentale - premesso che il declassamento del campione ad olio di oliva vergine era stato effettuato soltanto all'esito della valutazione soggettiva organolettica, risultando tutti gli indici chimico-fisici accertati conformi a quelli previsti dai regolamenti europei per la categoria di olio extra vergine di oliva -:

- il verbale di campionamento n. 43/7-1 del 10 luglio 2015 non indicava le modalità di conservazione del campione, né risultavano registrate le temperature cui era stato esposto l'olio nel periodo di detenzione da parte dei NAS, tenuto conto che, come pure confermato dall'art. 4-bis reg. UE n. 29/12, l'olio avrebbe dovuto essere conservato al riparo della luce e del calore;

- il campione, prelevato in data 10 luglio 2015 era pervenuto presso il laboratorio di Genova in data 7 agosto 2015, oltre i cinque giorni prescritti dalla normativa vigente in materia, in un periodo dell'anno caratterizzato da elevate temperature;

- il campione era stato inserito in un sacchetto chiaro, anziché scuro, risultando, dunque, sposto alla luce;

- la prova non era stata ripetuta in giornata diversa, nonostante il difetto rilevato fosse di bassissima intensità;

- agli atti del giudizio non risultava acquisito il verbale previsto dall'art. 3, comma 49-quater c1-ter.5 l. n. 350/03 [recte: art. 43, comma 1-ter.5, del d.l. 22 giugno 2012, n. 83 («Misure urgenti per la crescita del Paese»), convertito, con modificazioni, dalla l. 30 ottobre 2014, n. 161 - n.d.r.], prescritto per la validità della prova organolettica.

Il motivo di appello è fondato.

5.1. L'Autorità ha basato le proprie valutazioni sulle risultanze di una verifica svolta dal N.A.S. di Torino, su richiesta dell'autorità giudiziaria, il 10 agosto 2015, in relazione a campioni del prodotto prelevati da una bottiglia originale in vetro scuro con tappo sigillato (lotto LLT02-1 5161, TMC 10 settembre 2016), da cui era emerso che l'olio confezionato per Lidl Italia da Fiorentini Firenze s.p.a. presentava caratteristiche organolettiche corrispondenti alla categoria "olio di oliva vergine".

Secondo quanto precisato nel provvedimento sanzionatorio impugnato in prime cure, le analisi fatte svolgere dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino, su un campione riferibile al lotto LLT02-1 5161, risultavano della massima attendibilità, in quanto sia le operazioni di prelievo che le successive analisi erano state effettuate da soggetti pubblici preposti a tale tipo di controlli (N.A.S./Agenzia delle Dogane e dei Monopoli), che avevano attestato ogni singola fase procedurale, dal prelevamento di campioni sino alla certificazione delle analisi compiute.

Sulla base degli esiti di tali analisi su campioni di olio a marchio "Primadonna" l'Autorità, dunque, ha ritenuto il prodotto in esame non corrispondente alla categoria "olio extravergine di oliva" dichiarata in etichetta, trattandosi, invece, di olio vergine di oliva.

5.2. L'Autorità con deposito in primo grado del 29 novembre 2017 ha prodotto la nota della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Firenze prot. n. 1894/2016 del 7 marzo 2016, corredata dai rapporti di prova e verbali di prelevamento di campioni di olio venduto con il Marchio "Primadonna", sulla cui base è stato assunto il provvedimento sanzionatorio per cui è controversia.

Dall'esame di tale documentazione, tuttavia, non emergono le modalità di conservazione del campione, benché trattasi di elemento determinante per accertare l'attendibilità della prova alla base del provvedimento sanzionatorio.

Difatti:

- avuto riguardo al verbale del NAS di Torino del 10 luglio 2015, emerge che il prelevamento del campione è avvenuto in data 10 luglio 2015 ed è ha avuto ad oggetto cinque bottiglie;

- avuto riguardo al rapporto di prova dell'Agenzia delle Dogane e dei Monopoli prot. lab. 4301/2015 del 12 agosto 2015, emerge che la consegna al laboratorio del campione è stata eseguita il 7 agosto 2015 ed il campione è descritto come "sacchetto di plastica trasparente sigillato con spago, sigillo in Pb e cartellino di prelievo del NAS di Torino. All'interno bottiglia originale in vetro scuro da 1 l con tappo sigillato...".

La documentazione in atti, da un lato, non indica le modalità di conservazione del campione prelevato, dall'altro, attesta il decorso di quasi un mese tra il prelevamento del campione e la sua trasmissione al laboratorio.

Ai sensi dell'art. 2, par. 3, Reg. (CEE) n. 2568/91 "Fatte salve le disposizioni della norma EN ISO 5555 e del capitolo 6 della norma EN ISO 661, i campioni prelevati sono messi quanto prima al riparo dalla luce e da fonti di calore elevato e sono inviati al laboratorio per le analisi entro il quinto giorno lavorativo successivo a quello del prelievo; altrimenti i campioni sono conservati in modo da evitarne il degrado o il danneggiamento durante il trasporto o lo stoccaggio in attesa di essere inviati al laboratorio".

Alla stregua della disposizione sovranazionale e comunque al fine di garantire l'attendibilità della prova, dunque, risulta essenziale un'adeguata conservazione del campione e una sua tempestiva trasmissione al laboratorio per le relative prove, occorrendo seguire rigorose norme tecniche per garantire la genuinità del prodotto da analizzare.

Avuto riguardo al caso di specie, emerge che l'Autorità ha ritenuto attendibile la prova in ragione della qualificazione soggettiva degli organi tecnici che hanno provveduto al prelevamento (NAS) e all'esame del campione (Agenzia delle Dogane e dei Monopoli), che avrebbero attestato ogni singola fase procedurale, dal prelevamento di campioni sino alla certificazione delle analisi compiute.

Tale valutazione non risulta corretta.

Sebbene non sia ragionevolmente contestabile la competenza tecnica degli organi accertatori, la stessa non può, tuttavia, ritenersi sufficiente al fine di ritenere attendibili i risultati della prova, occorrendo, comunque, verificare anche la genuinità del campione sottoposto a verifica.

Sotto tale profilo, in particolare, l'Autorità ha ritenuto che i documenti in atti comprovassero ogni singola fase procedurale, dal prelevamento di campioni sino alla certificazione delle analisi compiute, quando, invece, dalla documentazione acquisita non emergono le modalità osservate per la conservazione del campione, sebbene si trattasse di elementi essenziali per garantirne la genuinità e, dunque, per assicurare l'attendibilità della prova; specie, in ragione delle peculiarità del caso concreto, in cui:

- è trascorso un rilevante arco temporale dal prelevamento del campione alla sua analisi;

- è stata esaminata una limitata quantità del prodotto alimentare, essendo state prelevate soltanto cinque bottiglie ed esaminata un'unica bottiglia di olio;

- il prodotto è stato qualificato come olio vergine di oliva in ragione della prova organolettica, per propria natura esposta a margini, seppure limitati (come si osserverà nell'esame del quinto motivo di appello), di soggettività del panel di assaggiatori, suscettibili di essere condizionati da una non corretta conservazione del campione.

Dato atto che il verbale di prelevamento del campione redatto dal Nas e il rapporto di prova formato dall'Agenzia delle Dogane e dei Monopoli non documentavano le modalità di conservazione del campione prelevato, l'Autorità avrebbe, dunque, dovuto motivare in ordine all'attendibilità tecnica della prova in concreto eseguita e posta [a] base del provvedimento sanzionatorio, non essendo sufficiente a tale fine il richiamo alla qualificazione soggettiva dell'organo accertatore.

In particolare, l'Autorità avrebbe dovuto rappresentare le ragioni per le quali il campione prelevato poteva comunque considerarsi genuino e non soggetto ad alcun processo di alterazione, sebbene non risultassero dettagliatamente specificate le relative modalità di conservazione nel rilevante arco temporale intercorso tra il suo prelevamento e la sua consegna all'Agenzia delle Dogane e dei Monopoli per la sottoposizione alle indagini di laboratorio e alla prova organolettica.

L'omesso esame di tale essenziale elemento di valutazione, correlato alla genuinità del campione, in riforma della sentenza gravata, consente di riscontrare il denunciato difetto di istruttoria inficiante l'azione sanzionatoria.

6. Con il quarto motivo di appello incidentale viene censurata l'erroneità della sentenza di prime cure nella parte in cui ha escluso l'attendibilità delle controprove fornite dal professionista, in violazione della disciplina di fonte europea, che in materia alimentare risulterebbe incentrata sul principio dell'autocontrollo operato in conformità ai principi del sistema HACCP (reg. CE n. 178/2002 e reg. CE n. 852/2004).

Secondo quanto dedotto dall'appellante incidentale, nella specie il professionista, così come il produttore Fiorentini s.p.a., avevano sottoposto l'olio di oliva extravergine Primadonna ai controlli prescritti dalla normativa settoriale, le cui risultanze - attestanti la qualificazione dell'olio come extra vergine di oliva - avrebbero dovuto essere prese in esame dall'Autorità procedente.

In particolare, l'Autorità avrebbe dovuto valutare le analisi sul lotto madre e su uno dei lotti "figli" effettuate dal laboratorio Eurofins di Amburgo, nonché le analisi svolte sul medesimo lotto oggetto della decisione impugnata dai laboratori del produttore Fiorentini e dall'Agenzia delle Dogane di Palermo.

Il motivo di appello è fondato.

Nel motivare la propria decisione l'Autorità ha ritenuto che i rapporti di prova prodotti dal professionista, riguardanti il medesimo lotto oggetto di analisi commissionate dall'autorità giudiziaria, non potessero considerarsi idonei a confutare l'accertamento svolto dal NAS e dall'Agenzia delle Dogane e dei Monopoli supra esaminato nel pronunciare sul precedente motivo di appello, essendo stati commissionati da un "soggetto non terzo (il produttore Fiorentini) ad un laboratorio chimico dell'Agenzia delle Dogane e dei Monopoli che si è limitato ad analizzare il campione ad esso sottoposto sulla base di riferimenti indicati dal cliente Lidl (che, peraltro, non ha dato conto delle modalità di prelevamento e campionamento)".

Come correttamente censurato dall'odierno appellante incidentale, gli operatori del settore alimentare, esercenti attività incidenti su tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione, sono chiamati a garantire la sicurezza degli alimenti, adottando le misure e rispettando le condizioni necessarie per controllare i pericoli e garantire l'idoneità del prodotto al consumo umano tenendo conto dell'uso previsto.

In particolare, la disciplina sovranazionale recata dal regolamento n. 852/2004/CE in materia di igiene dei prodotti alimentari, tra l'altro, regola le modalità di campionatura o di analisi, nonché impone l'adozione di procedure di autocontrollo basate sui principi del sistema HACCP (di analisi dei pericoli e dei punti critici di controllo).

Avuto riguardo alle attività di campionatura e di analisi, ai sensi dell'art. 4, par. 5, reg. n. 852 cit., si prevede che "Se il presente regolamento, il regolamento (CE) n. 853/2004 e le relative misure di applicazione non specificano i metodi di campionatura o di analisi, gli operatori del settore alimentare possono utilizzare metodi appropriati contenuti in altre normative comunitarie o nazionali o, qualora non siano disponibili, metodi che consentano di ottenere risultati equivalenti a quelli ottenuti utilizzando il metodo di riferimento, purché detti metodi siano scientificamente convalidati in conformità di norme o protocolli riconosciuti a livello internazionale".

Con riferimento all'autocontrollo alimentare, ai sensi dell'art. 5, parr. 1 e 2, del medesimo regolamento, si prevede che "1. Gli operatori del settore alimentare predispongono, attuano e mantengono una o più procedure permanenti, basate sui principi del sistema HACCP.

2. I principi del sistema HACCP di cui al paragrafo 1 sono i seguenti:

a) identificare ogni pericolo che deve essere prevenuto, eliminato o ridotto a livelli accettabili;

b) identificare i punti critici di controllo nella fase o nelle fasi in cui il controllo stesso si rivela essenziale per prevenire o eliminare un rischio o per ridurlo a livelli accettabili;

c) stabilire, nei punti critici di controllo, i limiti critici che differenziano l'accettabilità e l'inaccettabilità ai fini della prevenzione, eliminazione o riduzione dei rischi identificati;

d) stabilire ed applicare procedure di sorveglianza efficaci nei punti critici di controllo;

e) stabilire le azioni correttive da intraprendere nel caso in cui dalla sorveglianza risulti che un determinato punto critico non è sotto controllo;

f) stabilire le procedure, da applicare regolarmente, per verificare l'effettivo funzionamento delle misure di cui alle lettere da a) ad e);

e

g) predisporre documenti e registrazioni adeguati alla natura e alle dimensioni dell'impresa alimentare al fine di dimostrare l'effettiva applicazione delle misure di cui alle lettere da a) ad f)".

Alla stregua della disciplina sovranazionale, emerge che lo scopo perseguito dal legislatore dell'Unione è quello di attribuire la responsabilità principale in materia di sicurezza degli alimenti agli operatori del settore alimentare (Corte di giustizia, sentenza del 6 ottobre 2011, in causa C-382/10, Albrecht, punto 20), imponendo l'adozione di piani di autocontrollo tendenti ad assicurare l'idoneità di un prodotto alimentare al consumo umano tenendo conto dell'uso previsto.

Nell'ambito di un tale contesto normativo, gli elementi di prova offerti dai singoli operatori e acquisiti in adempimento degli obblighi imposti in materia di sicurezza alimentare non possono essere reputati inattendibili soltanto perché provenienti dalla parte interessata alla loro valorizzazione, facendosi questione di risultanze di un'attività doverosa, puntualmente disciplinata dalla normativa di riferimento e resa effettiva, altresì, dalla predisposizione di apposito apparato sanzionatorio (cfr. art. 6, comma 6, d.lgs. n. 193 del 2007 in materia di omessa predisposizione delle "procedure di autocontrollo basate sui principi del sistema HACCP").

L'eventuale inattendibilità di siffatti elementi probatori può, invece, essere affermata soltanto se sia accertata la violazione delle disposizioni tecniche regolanti la loro acquisizione.

Anche il giudice sovranazionale, chiamato a pronunciare sull'interpretazione del regolamento n. 852 cit., ha escluso la possibilità di vagliare la responsabilità del singolo operatore alimentare "senza prendere in considerazione le misure che tali operatori hanno adottato conformemente all'art. 5 del regolamento al fine di prevenire, eliminare o ridurre ad un livello accettabile il rischio che può presentare una contaminazione ai sensi dell'allegato II, capitolo IX, punto 3, di tale regolamento e senza contestare l'insufficienza delle misure adottate a tale proposito sulla base di tutti i dati pertinenti disponibili. A quest'ultimo proposito non si può, in particolare, constatare l'insufficienza di tali misure senza che siano debitamente prese in considerazione eventuali perizie, come quelle presentate da tali stessi operatori a dimostrazione che i citati contenitori, destinati alla vendita in self service, non pongono alcun problema in materia di igiene" (Corte di giustizia, sentenza del 6 ottobre 2011, in causa C-382/10, Albrecht, punti 22 e 23).

Benché nel caso di specie non si faccia questione di sanzioni per violazione delle disposizioni in materia di sicurezza alimentare, la disciplina dettata dal regolamento n. 853 del 2004 è utilmente invocabile ai fini della soluzione della presente controversia.

Il legislatore europeo, infatti, attribuendo ai singoli operatori del settore alimentare la responsabilità principale della sicurezza degli alimenti, ravvisa nelle misure di autocontrollo uno strumento idoneo a garantire un bene primario, quale la salute umana, suscettibile di essere esposta a pericolo o danneggiata per effetto di prodotti contaminati.

La circostanza per cui si faccia questione di un sistema di autocontrollo - e, quindi, di misure adottate dallo stesso operatore esercente l'attività di produzione, trasformazione o distribuzione di alimenti sottoposta a controllo -, non è, dunque, considerata dal legislatore un motivo sufficiente per dubitare della sua efficacia, fondandosi la legislazione di settore sulla valorizzazione della responsabilità principale dello stesso operatore alimentare.

La garanzia di attendibilità delle risultanze delle misure di autocontrollo è, inoltre, assicurata dalla previsione di regole tecniche di riferimento, il cui rispetto è garantito, altresì, dalla predisposizione di un effettivo e dissuasivo apparato sanzionatorio.

Ne deriva che, se le risultanze dell'autocontrollo rilevano al fine di tutelare la salute umana, in applicazione delle previsioni in materia di sicurezza alimentare, le stesse risultanze non possono essere svalutate allorquando l'attività di produzione, trasformazione o distribuzione alimentare venga presa in esame al fine di garantire l'autodeterminazione del consumatore, sulla base della disciplina in materia di pratiche commerciali scorrette.

L'Autorità, dunque, avuto riguardo alla normativa settoriale sull'igiene dei prodotti alimentari, non avrebbe potuto ritenere inattendibili le risultanze delle misure di autocontrollo assunte dall'operatore economico, soltanto perché provenienti dallo stesso professionista interessato ad avvalersene, bensì avrebbe dovuto verificare se gli elementi di prova raccolti in sede di autocontrollo fossero o meno stati assunti in conformità alle norme tecniche di riferimento, regolanti la campionatura e l'analisi dei generi alimentari, alla stregua delle deduzioni difensive svolte dal professionista (richiamate ai parr. 13-15 del provvedimento sanzionatorio).

Una tale verifica non risulta essere stata svolta nel caso di specie, avendo l'Autorità fondato il proprio giudizio di inaffidabilità delle prove offerte da Lidl prevalentemente in ragione della loro provenienza soggettiva dallo stesso operatore interessato alla loro utilizzazione; elemento, come osservato, non rilevante, fondandosi la disciplina in materia di sicurezza alimentare proprio sui principi di autocontrollo e, dunque, sullo svolgimento delle attività di verifica da parte dello stesso operatore esercente l'attività controllata.

Né potrebbe argomentarsi diversamente sulla base del generico riferimento, recato nel provvedimento sanzionatorio, ad un'omessa indicazione delle modalità di prelevamento e campionamento, trattandosi di valutazione generica, peraltro contenuta tra parentesi a dimostrazione del suo valore non decisivo, non fondata su una specifica difformità tra la prova in concreto svolta e la regolazione tecnica di riferimento in materia di prelevamento e analisi.

Nell'ambito del provvedimento impugnato in prime cure, inoltre, non si dà conto neanche delle ragioni per le quali le prove riferite al "lotto madre" non potessero essere utilmente impiegabili nel caso di specie, tenuto conto che, benché non si fosse in presenza di campioni appartenenti al medesimo lotto interessato dal prelievo del NAS, la loro riconducibilità ad una produzione comune non consentiva di escludere, senza adeguata motivazione, la confrontabilità dei relativi campioni o comunque, a tali fini, avrebbe richiesto una motivazione specifica, assente nell'atto sanzionatorio per cui è controversia.

Anche sotto tale profilo, dunque, emerge il difetto di istruttoria censurato dall'appellante incidentale.

7. Con il quinto motivo di appello incidentale Lidl censura l'erroneità della sentenza di prime cure nella parte in cui ha ritenuto la prova organolettica idonea a fondare la sanzione irrogata con il provvedimento impugnato in prime cure, tenuto conto della natura penale della responsabilità ascrivibile in capo al professionista.

Il motivo di appello è infondato.

La disciplina di settore (Reg. CEE 11 luglio 1991, n. 2568/91/CEE) distingue i vari tipi di olio non soltanto sulla base delle caratteristiche fisico-chimiche, ma anche tenendo conto delle sue caratteristiche organolettiche, essenziali per delineare la purezza e la qualità del relativo prodotto.

Come precisato dalla Corte di cassazione, "affinché in ambito UE una partita di olio d'oliva possa fregiarsi della qualità extravergine, occorre non soltanto che essa rispetti i parametri fisico-chimici di cui all'Allegato I, punto 1, del Regolamento in discorso, ma che essa superi anche l'analisi organolettica di cui all'Allegato XII dello stesso. L'esito negativo anche solo di tale ultima indagine è sufficiente a catalogare il prodotto come "non conforme alla categoria dichiarata" (Cass. civ., Sez. V, ord. 30 giugno 2020, n. 13081; cfr. anche Cass. pen., Sez. III, 24 aprile 2015, n. 17123).

Benché l'analisi organolettica risenta della soggettività del suo autore, essendo fondata su esperienze sensoriali provocate dall'assaggio del prodotto, la normativa di riferimento limita la discrezionalità dell'organo accertatore, prevedendo: a) metodi di valutazione comuni (incentrati su un comune vocabolario specifico, nonché su previsioni tecniche regolanti il bicchiere per l'assaggio, la sala di assaggio e le condizioni della prova - cfr. all. XII reg. n. 2568 del 1991 cit.), b) una qualificata formazione di comitati di assaggiatori selezionati ed esperti (art. 4 reg. n. 2568 del 1991 cit.), c) lo svolgimento di controanalisi per assicurare la convergenza dei risultati della relativa prova organolettica (art. 2, par. 2, reg. n. 2568 del 1991 cit.).

Alla stregua del quadro regolatorio di riferimento, la valutazione organolettica, dunque:

- da un lato, è essenziale per la corretta classificazione dell'olio e, come tale, non può prescindersi dal suo svolgimento quando occorra verificare (come nella specie) se un olio pubblicizzato come extravergine di oliva possieda effettivamente la qualità e la purezza vantate (cfr. Cass., Sez. V, 2 luglio 2020, n. 13474);

- dall'altro, non si traduce in decisioni arbitrarie, non verificabili, ma implica l'esercizio di una discrezionalità tecnica limitata, governata da stringenti parametri normativi predeterminati, suscettibili di sindacato giurisdizionale.

La possibilità di sindacare la corretta formazione della prova sulla base di parametri predefiniti, riguardanti - sotto il profilo soggettivo - la competenza ed esperienza del gruppo degli assaggiatori concretamente incaricati, nonché - sotto il profilo oggettivo - la metodologia osservata (con specifico riferimento alle modalità di svolgimento della prova), consente di considerare la prova organolettica un elemento istruttorio verificabile e, quindi, attendibile, come tale idoneo a fondare anche una responsabilità del professionista a titolo di pratica commerciale scorretta (per effetto della pubblicizzazione di un prodotto avente una classificazione diversa rispetto a quella reale, come emergente dalla valutazione organolettica - cfr. Cass. pen., Sez. III, 16 maggio 2012, n. 18789, secondo cui, posto che l'utilizzazione per i controlli di panel di assaggiatori è previsto dall'art. 4 del Regolamento CEE n. 2563/1991, gli accertamenti previsti dallo stesso Regolamento CE si palesano idonei a configurare la sussistenza del fumus del reato ai fini dell'applicazione della misura cautelare).

8. Il parziale accoglimento dell'appello incidentale, conducendo, in riforma della sentenza di prime cure, all'accoglimento delle censure riferite al difetto di istruttoria inficiante il provvedimento sanzionatorio consentirebbe di assorbire la trattazione dei motivi di appello principale, tenuto conto che anche da un loro ipotetico accoglimento non potrebbe derivare alcuna utilità concreta in capo all'Autorità antitrust appellante, dovendosi comunque confermare l'annullamento dell'atto impugnato in prime cure, seppure per motivi, afferenti a carenze istruttorie in ordine alla classificazione dell'olio in accertamento, diversi da quelli accolti dal Tar.

In ogni caso, per completezza di indagine, si procede ad esaminare anche l'appello principale dell'Autorità.

In particolare, con il primo motivo di appello principale l'Autorità ha contestato l'erroneità della sentenza di prime cure nella parte in cui ha riscontrato il difetto di motivazione in ordine all'esistenza dell'elemento soggettivo della colpa, tenuto conto che:

- la motivazione fondante la pronuncia appellata risultava contraddittoria e comunque non distingueva l'elemento psicologico dell'illecito dalla contrarietà alla diligenza professionale;

- l'accertamento dell'ingannevolezza della pratica non imponeva di verificare, altresì, la sua contrarietà alla diligenza professionale;

- la clausola generale di scorrettezza ha valore di chiusura del sistema, operando soltanto per sanzionare quelle pratiche che non rientrano in nessuna delle liste nere ovvero non siano nemmeno qualificabili come ingannevoli o aggressive;

- in ogni caso, l'Autorità aveva ravvisato l'inattendibilità dei test eseguiti dal professionista;

- i controlli attivati dal professionista si erano comunque rilevati inidonei ad impedire l'illecito commesso; peraltro, trattavasi di controlli svolti da terzi o su incarico di Lidl, la quale si era limitata a svolgere in autocontrollo delle analisi a campione sui prodotti commercializzati;

- non competeva all'Autorità determinare, in sede di accertamento di una pratica commercial[e] scorretta posta in essere da un professionista, quali misure avrebbe dovuto adottare quest'ultimo onde evitare la realizzazione della pratica stessa.

Il primo motivo di appello, per ragioni di connessione, può essere esaminato unitamente al secondo motivo di appello principale, con cui l'Autorità denuncia l'erroneità del medesimo capo di sentenza, concernente il difetto motivazionale in ordine all'elemento soggettivo dell'illecito, rilevando che in materia opererebbe una presunzione di colpa in ordine al fatto vietato a carico di colui che lo abbia commesso.

Nella specie, Lidl non aveva fornito elementi idonei al superamento di siffatta presunzione legale, ragion per cui avrebbe dovuto ritenersi integrato anche l'elemento soggettivo dell'illecito sanzionato.

I motivi di appello principale sono infondati.

Preliminarmente, si osserva che alcuna contraddittorietà emerge dalla sentenza di prime cure, tenuto conto che il Tar, dopo aver richiamato la giurisprudenza formatasi in materia di illeciti amministrativi, con specifico riferimento all'accertamento del coefficiente psicologico di colpevolezza - incentrata sulla presunzione di colpa a carico di colui che abbia oggettivamente tenuto una condotta violativa del precetto normativo - ha coerentemente applicato il relativo principio di diritto, evidenziando che nella specie sussistevano elementi istruttori idonei a superare tale presunzione (relativa) di colpa, in relazione ai quali l'Autorità non aveva fornito un'adeguata motivazione.

Non sussiste, dunque, una decisione assunta in difformità rispetto alle premesse enunciate dal Tar, risultando l'accoglimento in parte qua del ricorso in prime cure motivato proprio in coerenza con il principio di diritto fissato dal primo giudice, fondato su una presunzione di colpa soltanto relativa e non assoluta, come tale superabile alla stregua degli elementi suscettibili di essere forniti dal professionista sottoposto a verifica; nella specie illustrati da Lidl nel corso del procedimento e illegittimamente non adeguatamente valutati dall'Autorità procedente.

Il capo di sentenza censurato in via principale risulta corretto anche nell'applicazione del principio di diritto posto a base della relativa decisione.

Rinviando alle considerazioni supra svolte, nell'esaminare il terzo e il quarto motivo di appello incidentale, in ordine all'impossibilità di ritenere inattendibili gli elementi di prova offerti dal professionista e derivanti da un'attività di autocontrollo svolta in ambito alimentare - occorrendo, invece, una disamina specifica di siffatte prove, al fine di vagliarne la loro corretta acquisizione nel rispetto della normativa tecnica di riferimento (esame omesso nel provvedimento impugnato in primo grado) - deve, infatti, ritenersi che in materia di sanzioni amministrative, è necessaria e sufficiente la coscienza e volontà della condotta attiva od omissiva, senza che occorra la concreta dimostrazione del dolo o della colpa, giacché l'art. 3 l. n. 689 del 1981 pone una presunzione di colpa in ordine al fatto vietato a carico di colui che lo abbia commesso, riservando poi a questi l'onere di provare di aver agito senza colpa (cfr. C.d.S., Sez. VI, 2 settembre 2019, n. 6063; Id., Sez. VI, 5 giugno 2020, n. 3575).

Ne deriva, quindi, che, sebbene in via generale - come pure rilevato dall'Autorità nel suo atto di appello - non sussista in capo all'Amministrazione procedente un obbligo di accertare e motivare specificatamente circa gli elementi da cui possa desumersi la sussistenza di un coefficiente psicologico di colpevolezza (in termini di dolo o colpa) ascrivibile in capo all'operatore sottoposto a sanzione, è pur vero che quest'ultimo abbia comunque la possibilità di allegare e dimostrare circostanze di fatto idonee ad escludere una condotta colposa, in tale modo evitando la configurazione di un comportamento rimproverabile attraverso l'irrogazione della sanzione.

Facendosi questione di sanzioni (in senso lato) aventi carattere sostanziale penale alla stregua della giurisprudenza sovranazionale (della Corte Edu, come argomentato nella disamina del secondo motivo di appello incidentale), volte ad infliggere una misura limitativa della sfera giuridica del destinatario - privata di utilità giuridico economiche in funzione punitiva e deterrente (e non semplicemente risarcitoria o ripristinatoria), in conseguenza della violazione di un precetto imperativo -, in caso di accertata assenza di un atteggiamento colpevole, al fine di evitare la configurazione di una forma di responsabilità oggettiva (di dubbia compatibilità con il principio di personalità della responsabilità penale, riferibile anche alle sanzioni penali in senso lato), deve consentirsi all'operatore economico di dimostrare l'assenza dei presupposti per l'imputazione soggettiva della condotta (oggettivamente) illecita nella specie riscontrata.

In siffatte ipotesi, qualora l'operatore sottoposto al procedimento sanzionatorio, nell'esercizio del proprio diritto di difesa infraprocedimentale, produca elementi istruttori utilmente valorizzabili per escludere la sussistenza di un comportamento colpevole, l'Amministrazione è tenuta a valutare siffatti elementi, evidenziando le ragioni per le quali gli stessi non possano risultare idonei a superare la presunzione di colpa posta dall'art. 3 l. n. 689 del 1981.

Premesso che nel caso in esame difetta pure l'integrazione dell'illecito a livello oggettivo (atteso il difetto di istruttorio censurato con il terzo e il quarto motivo di appello incidentale supra accolti), nell'ambito del provvedimento impugnato in prime cure, come correttamente rilevato dal Tar, manca una disamina puntuale degli elementi istruttori prodotti dall'operatore economico e riferiti alle misure di autocontrollo adottate; sebbene si trattasse di circostanze fattuali (dedotte e documentate) idonee ad escludere la sussistenza di un comportamento colposo imputabile in capo al professionista.

Non emergono, infatti, dal provvedimento sanzionatorio impugnato in prime cure le ragioni per le quali, a fronte del sistema di autocontrollo programmato ed attuato dall'operatore professionale e degli esiti positivi delle verifiche condotte, anche da pubbliche autorità, in relazione al prodotto alimentare commercializzato (cfr. parr. 13-15 del provvedimento sanzionatorio in cui sono riportate le difese del professionista), la condotta contestata alla Lidl non potesse considerarsi esente da colpa, in quanto rispettosa degli standard di cautela previsti dalla normativa di settore o comunque desumibili dalle comuni regole di prudenza, di diligenza e di perizia, come tale idonea ad evitare la concretizzazione dell'evento illecito e, per l'effetto, ad escludere l'imputazione soggettiva dell'illecito contestato.

A tali fini, non risultano rilevanti le valutazioni dell'Autorità riguardanti l'inattendibilità delle misure di autocontrollo riferite al lotto di produzione sottoposto ad indagine o l'inconferenza degli elementi istruttori aventi ad oggetto lotti di produzione differenti.

Tali valutazioni, infatti, tendevano a confermare l'attendibilità delle verifiche svolte dal NAS e dall'Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, sulla cui base risultava fondato il provvedimento sanzionatorio, influendo, dunque (peraltro erroneamente come supra osservato nella disamina del terzo e del quarto motivo di appello incidentale) sul solo elemento oggettivo dell'illecito, rappresentato dalla pubblicizzazione di un prodotto privo delle qualità vantate dal professionista.

Tanto emerge dal par. 21 del provvedimento impugnato in prime cure, in cui si rileva, da un lato, che l'esito del rapporto di prova riguardante il medesimo lotto di produzione sottoposto ad accertamento non poteva "inficiare la validità e la solidità delle prove trasmesse dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Firenze ed acquisite al procedimento dell'Autorità"; dall'altro, che gli esiti di altri controlli menzionati dal professionista non potevano considerarsi rilevanti "in quanto effettuati su lotti differenti da quelli campionati e analizzati per conto della Procura, su cui si basano le valutazioni del presente provvedimento".

Tali valutazioni non riguardano l'elemento soggettivo dell'illecito, non consentendo di rappresentare le ragioni per cui le misure di autocontrollo adottate dal professionista non risultassero comunque idonee a integrare una condotta esente da colpa.

In particolare, l'Autorità, dopo aver (erroneamente, per quanto supra osservato) negato l'attendibilità delle misure di autocontrollo al fine di integrare oggettivamente una pratica commerciale scorretta (in specie, l'accertata assenza in capo al prodotto sotto esame delle qualità organolettiche vantate), non ha puntualmente verificato se tali misure, con valutazione prognostica ex ante e sulla base delle circostanze rilevate nel caso concreto, fossero comunque idonee ad impedire il verificarsi dell'evento lesivo e, pertanto, corrispondessero alle misure di cautela esigibili dal professionista, nel quadro delle conoscenze e competenze pretendibili in ragione dell'attività esercitata.

Né a tali fini, come correttamente ritenuto dal Tar, risulta utilmente valorizzabile il par. 24 del provvedimento impugnato, in cui l'Autorità ha genericamente ritenuto che "non si riscontra, nel caso di specie, da parte del professionista, il normale grado di competenza e attenzione che ragionevolmente ci si può attendere, avuto riguardo alla qualità dell'operatore del settore alimentare": tale statuizione riguarda l'esito del giudizio valutativo (riguardante l'assenza del normale grado di competenza e attenzione esigibile dal professionista del settore alimentare), ma non contiene la motivazione sottesa a tale decisione.

Ne deriva, dunque, l'infondatezza dei motivi di appello principale, tenuto conto che, sebbene il professionista avesse prodotto elementi istruttori utilmente valorizzabili per superare la presunzione di colpa posta dall'art. 3 l. n. 689 cit., l'Autorità non ha motivato le ragioni per cui tali elementi fossero inidonei ad escludere l'imputazione soggettiva dell'illecito in concreto contestato.

9. Il parziale accoglimento dell'appello incidentale e il rigetto dell'appello principale comportano l'assorbimento dell'ultima censura articolata da Lidl nel proprio atto di appello incidentale, proposta in via subordinata, "[n]ella non creduta e denegata ipotesi di accoglimento dell'appello principale e di rigetto di quello incidentale" (pag. 28 appello incidentale), riguardante l'erronea quantificazione della sanzione irrogata dall'Autorità.

Difatti, la mancata integrazione dell'illecito, comportando l'annullamento integrale del provvedimento sanzionatorio impugnato in prime cure, rende inutile l'esame della congruità della sanzione in concreto irrogata.

10. L'accoglimento del terzo e del quarto motivo di appello incidentale, alla stregua di quanto supra statuito, comporta la necessità di riformare in parte qua la sentenza di prime cure, con conseguente necessità di una nuova regolazione delle spese processuali del doppio grado di giudizio; da compensare interamente tra le parti, in ragione della novità e della complessità delle questioni esaminate.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull'appello principale e sull'appello incidentale, come in epigrafe proposti, rigetta l'appello principale; in parte rigetta l'appello incidentale, in altra parte lo accoglie; per l'effetto, in parziale riforma della sentenza appellata, accoglie il ricorso in primo grado ai sensi e nei limiti di cui in motivazione, confermando l'annullamento del provvedimento originario ai sensi, per le ragioni e nei limiti di cui in motivazione.

Compensa interamente tra le parti le spese processuali del doppio grado di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.