Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia
Lecce, Sezione I
Sentenza 27 novembre 2020, n. 1321

Presidente ed Estensore: Pasca

FATTO

La ricorrente, a seguito di subingresso nel rapporto concessorio già intestato a Solemare s.a.s. di Papa Maria Lucia, risulta titolare della concessione demaniale marittima n. 3/2010, sulla quale insiste stabilimento balneare denominato "Lido Samarinda".

In data 15 febbraio 2019 (nota prot. n. 1937 del protocollo comunale), la ricorrente ha chiesto il rilascio di proroga della concessione in essere per la durata di ulteriori 13 anni ai sensi dell'art. 1, commi 682 e 683, della l. 145/2018.

Il Comune di Castrignano del Capo rilasciava quindi atto di proroga del titolo concessorio n. 3/2010 con scadenza alla data del 31 dicembre 2033, giusta clausola in calce al titolo registrato al n. 4075 del 2 aprile 2019.

Il Comune di Castrignano del Capo, con successiva nota 497 del 13 gennaio 2020 ha comunicato l'avvio del procedimento finalizzato all'annullamento di ufficio della predetta proroga della concessione invitando la ricorrente a produrre eventuali controdeduzioni.

A tanto la Solemare s.r.l. ha provveduto con nota inviata a mezzo pec in data 12 febbraio 2020.

Con l'impugnato provvedimento prot. n. 6166 del 5 maggio 2020 l'amministrazione comunale ha tuttavia disposto l'annullamento d'ufficio ex art. 21-nonies della l. 241/1990, del provvedimento di proroga della concessione demaniale de qua, in quanto ritenuto adottato in violazione del diritto comunitario e della direttiva c.d. servizi.

Con il ricorso in esame la ricorrente deduce i seguenti motivi di censura:

1) Violazione e falsa applicazione dell'art. 21-nonies l. 241/1990. Eccesso di potere per violazione del principio di illegittimo affidamento. Difetto di motivazione ed eccesso di potere sotto ulteriori profili, in relazione alla circostanza che non ricorrerebbe anzitutto nel provvedimento di proroga alcuna violazione di legge attesa la espressa previsione in tal senso portata dall'art. 1, commi 682 e 683, della legge finanziaria 2019, difettando comunque qualsivoglia valutazione dell'interesse pubblico all'annullamento ed in assenza infine di valutazione del legittimo affidamento.

2) Violazione art. 6 l.r. Puglia 17/2015 nonché eccesso di potere per violazione di circolari regionali e per contraddittorietà.

3) Violazione art. 1, commi 675, 676, 677, 682 e 683, della citata l. 145/2018 e dell'art. 182 del d.l. 34/2020, nonché eccesso di potere sotto vari profili, assumendo in particolare che l'impugnato provvedimento di annullamento d'ufficio risulterebbe supportato dall'erroneo convincimento del ritenere principio ormai consolidato in giurisprudenza quello "secondo il quale la disapplicazione della norma nazionale confliggente con il diritto dell'unione europea a maggior ragione se tale contrasto sia stato accertato dalla Corte di giustizia UE, costituisce un obbligo per lo Stato membro in tutte le sue articolazioni e, quindi, anche per l'apparato amministrativo e per i suoi funzionari qualora sia chiamato ad applicare una norma interna contrastante con il diritto comunitario".

4) Erronea applicazione della direttiva servizi 2006/123/CE del 12 dicembre 2006 in particolare con riguardo all'art. 12, assumendo in particolare la ricorrente l'inapplicabilità della direttiva servizi alle concessioni demaniali marittime, richiamando in proposito la sentenza della CGUE del 14 luglio 2016, nonché assumendo la natura non autoesecutiva della predetta direttiva Bolkestein.

Si è costituito in giudizio il Comune di Castrignano del Capo contestando le avverse deduzioni e chiedendo il rigetto del ricorso.

Dopo il deposito di documentazione e atti difensivi, all'udienza del 18 novembre 2020 il ricorso è stato introitato per la decisione.

DIRITTO

Appare opportuno muovere da una premessa di ordine generale e da un complessivo riferimento al quadro normativo.

La normativa in tema di concessioni demaniali ha subito negli corso degli anni rilevanti modifiche, dovute soprattutto all'esigenza di coordinamento della legislazione nazionale con la normativa comunitaria o euro-unionale.

In particolare la direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006, art. 12, paragrafi 1 e 2, relativa ai servizi del mercato interno ha dichiarato non compatibili i provvedimenti di proroga automatica delle "autorizzazioni" demaniali marittime destinate all'esercizio delle attività turistico-ricreative in assenza di qualsiasi procedura di selezione tra gli aspiranti, integrando peraltro siffatta normativa violazione dell'art. 49 del TFUE.

L'art. 12 della predetta direttiva servizi trova applicazione in tutte le ipotesi in cui l'attività economica preveda l'utilizzo di risorse naturali scarse o comunque quantitativamente circoscritte o limitate e così dispone: "qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, gli Stati membri applicano una procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzie di imparzialità e trasparenza e preveda, in particolare, una adeguata pubblicità dell'avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento".

Già con l'entrata in vigore dell'art. 1, comma 18, del d.l. 194/2009, convertito con modificazioni con l. 26 febbraio 2010, n. 25, è stato abrogato l'art. 37, secondo comma, del Codice della navigazione che prevedeva il c.d. diritto di insistenza del concessionario, disponendosi tuttavia una proroga delle concessioni in essere fino al 31 dicembre 2015, termine successivamente prorogato sino al 31 dicembre 2020 per effetto della successiva l. 228/2012.

La normativa nazionale suindicata è stata ritenuta non compatibile con l'ordinamento dell'Unione europea sia dalla Corte di giustizia (decisione 16 luglio 2016) sia dalla Corte costituzionale (C. cost. 180/2010, relativa alla declaratoria di incostituzionalità di leggi regionali dispositive di proroga o rinnovo automatico).

Lo Stato italiano, al fine di evitare le conseguenze connesse all'apertura di procedura di infrazione, con l'art. 24, comma 3-septies, del d.l. 113/2016 convertito con l. 160/2016 ha previsto una sanatoria dei rapporti concessori in essere in via interinale e "nelle more della revisione e del riordino della materia in conformità ai principi di derivazione europea".

La nuova normativa volta a garantire compatibilità con l'ordinamento unionale non è tuttavia mai intervenuta e, approssimandosi la scadenza del 31 dicembre 2020, con l'art. 1, commi 682 e 683, della l. 145/2018 ha disposto ulteriore proroga delle concessioni demaniali in vigore fino al 31 dicembre 2033.

Il regime di proroga ulteriore introdotto con la legge finanziaria 2019 ed avente durata di 13 anni a decorrere dal 31 dicembre 2020, in assenza della approvazione di alcuna normativa di riordino della materia, integrando evidente violazione delle prescrizioni contenute nella direttiva servizi e in disparte la certa prospettiva della riapertura di procedura di infrazione, ha determinato uno stato di assoluta incertezza per gli operatori e per le pubbliche amministrazioni.

Come già evidenziato in altre occasioni, nell'ambito del distretto giurisdizionale di riferimento di questo Tribunale, alcuni comuni hanno concesso la proroga fino al 31 dicembre 2033, altri hanno espresso diniego disapplicando la norma nazionale, altri ancora, dopo aver accordato la proroga, ne hanno disposto l'annullamento in autotutela, come nel caso in esame, altri infine sono rimasti inerti rispetto alle istanze dei concessionari (cfr. Relazione inaugurazione anno giudiziario 2020 TAR Sez. Lecce).

È necessario a questo punto fare una ulteriore premessa e una riflessione di ordine generale.

Il sistema di integrazione e di omogeneizzazione degli Stati nel contesto dell'Unione europea è in una fase intermedia e probabilmente di transizione, una sorta di "terra di mezzo", caratterizzata da incertezze nella fase della regolazione delle competenze, come si evince anche dal rapporto, a volte conflittuale, tra la Corte di giustizia europea e le Corti costituzionali nazionali.

L'esigenza di certezza delle regole del diritto richiede tuttavia anzitutto una compiuta definizione del rapporto di gerarchia delle fonti.

Ciò costituisce per l'interprete una assoluta priorità logica per la soluzione della questione proposta.

Così ad esempio occorre stabilire l'esatta collocazione delle direttive (autoesecutive e non) all'interno del sistema delle fonti, che nel nostro ordinamento vede al primo posto le norme della Costituzione italiana.

Secondo i principi generali, applicativi delle norme del trattato, a differenza di quanto previsto per i regolamenti UE (aventi diretta ed immediata efficacia vincolante), le direttive richiedono di regola il recepimento nell'ordinamento interno a mezzo di apposita legge nazionale (art. 249 del Trattato), in quanto obbligano lo Stato al conseguimento di un determinato risultato, lasciando tuttavia allo Stato medesimo di determinare autonomamente e liberamente gli strumenti e le norme necessari per il raggiungimento del fine, prevedendo all'uopo un congruo termine per l'adeguamento.

Fanno in certo senso eccezione le cosiddette direttive c.d. autoesecutive, in qualche modo di creazione pretoria, per le quali appunto la giurisprudenza euro-unionale ha previsto l'immediata efficacia nell'ordinamento interno per il caso di inutile decorso del termine assegnato allo Stato nazionale, ma sempre limitatamente a quelle statuizioni che risultino compiutamente definite e prive di condizione alcuna.

Occorre a questo punto considerare l'esatta collocazione delle c.d. direttive autoesecutive nella scala di gerarchia delle fonti del diritto.

Secondo la tesi largamente prevalente, la direttiva autoesecutiva al pari dei regolamenti, deve ritenersi come avente natura di legge ordinaria, ancorché rafforzata, atteso che la circostanza che la legge nazionale non possa derogarvi non ne modifica la sostanziale natura e forza di legge (in quanto tale idonea a determinare una regolazione - nell'ambito dello Stato membro - dei rapporti tra i cittadini).

La direttiva autoesecutiva, decorso il termine di moratoria e sempre limitatamente alle specifiche statuizioni compiute e dettagliate, ovvero quelle disposizioni che prevedano direttamente specifici obblighi o adempimenti e che non richiedano soprattutto l'esercizio di alcuna discrezionalità da parte del legislatore nazionale (CGUE 25 maggio 1993, causa 193/91), non richiede alcuna norma nazionale di recepimento, trovando immediata applicazione, con conseguente obbligo del giudice di disapplicazione della normativa nazionale con essa confliggente.

Occorre altresì considerare la natura e l'efficacia delle sentenze della Corte di giustizia nell'ambito della scala di gerarchia delle fonti del diritto.

La Corte costituzionale, già con le sentenze nn. 113/1985 e 39/1989 ha riconosciuto il principio della immediata efficacia e vincolatività delle "statuizioni risultanti dalle sentenze interpretative della Corte di giustizia", al pari di quanto statuito con riferimento alle direttive autoesecutive (C. cost. 2 febbraio 1990, n. 64 e C. cost. 18 aprile 1991, n. 168).

Nella presente fase di transizione, la Corte di giustizia - che non può intervenire ed incidere direttamente sul diritto interno - non conosce un procedimento giurisdizionale e una tipologia di pronunce assimilabili alle sentenze della Corte costituzionale nazionale e non può pertanto dichiarare l'abrogazione di norme nazionali in conflitto con la normativa euro-unionale.

Le sentenze della Corte di giustizia non sono quindi sussumibili tecnicamente tra le fonti del diritto e il riconosciuto effetto vincolante risulta circoscritto alle sole sentenze interpretative del diritto unionale, dovendosi pertanto ritenere, se non fonti del diritto in senso tecnico, tuttavia vincolanti quanto all'interpretazione e, pertanto, fonti di integrazione del diritto unionale, del quale esprimono interpretazione autentica.

Quanto sopra premesso consente di definire gli esatti termini per la soluzione delle questioni proposte con il ricorso in esame.

Anzitutto può dunque ritenersi che il provvedimento amministrativo adottato in conformità alla legge nazionale ma in violazione di direttiva autoesecutiva o di regolamento UE, secondo l'orientamento giurisprudenziale largamente prevalente, costituisca atto illegittimo e non già atto nullo, con conseguente sua annullabilità da parte del giudice amministrativo (previa disapplicazione della norma nazionale), su eventuale ricorso che potrà essere proposto da un soggetto per il quale ricorrano i presupposti della legittimazione e dell'interesse a ricorrere.

Per il caso di conflitto della norma nazionale con norma comunitaria immediatamente efficace ed esecutiva deve quindi ritenersi sussistere l'obbligo di disapplicazione della norma interna in favore di quella UE, interpretata nel senso vincolativamente indicato da eventuale sentenza della CGUE.

Così in proposito deve ricordarsi che la Corte di giustizia con sentenza del 16 luglio 2016 ha fornito interpretazione vincolante dell'art. 12, paragrafi 1 e 2, della direttiva Bolkestein: "l'art. 12, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno, deve essere interpretato nel senso che osta a una misura nazionale, come di quella di cui ai procedimenti principali, che prevede la proroga automatica delle autorizzazioni demaniali marittime e lacuali in essere per attività turistico ricreative, in assenza di qualsivoglia procedura di selezione tra i potenziali candidati; l'art. 49 TFUE deve essere interpretato nel senso che osta a una normativa nazionale, come quella di cui ai procedimenti principali, che preveda una proroga automatica delle concessioni demaniali pubbliche in essere per attività turistico ricreative, nei limiti in cui tali concessioni presentano un interesse transfrontaliero certo".

Tale pronuncia costituisce all'evidenza tipica espressione di esercizio della funzione di interpretazione autentica vincolante per il giudice dello Stato membro.

Non può invece riconoscersi natura interpretativa vincolante ad una relativamente recente pronuncia della Corte di giustizia nella quale risulta affermato il principio secondo cui la prevalenza della norma unionale su quella nazionale comporterebbe l'obbligo di disapplicazione di quella interna da parte dello Stato membro "in tutte le sue articolazioni" ovvero sia da parte del giudice che da parte dell'amministrazione.

Appare infatti evidente che tale statuizione della CGUE non possa ritenersi - a differenza della precedente - di natura interpretativa di una specifica direttiva o regolamento UE e che comunque, a prescindere da ogni altra considerazione, tale statuizione risulti ultronea e non vincolante.

Ed invero per sentenza interpretativa del diritto dell'Unione non può che intendersi una pronuncia volta a chiarire la portata e la ratio legis di una statuizione specifica e non già una qualsiasi affermazione di carattere generale volta a condizionare in senso vincolante e limitativo l'attività decisionale del giudice interno o della pubblica amministrazione, funzioni che invece soggiacciono a norme e a regole processuali inderogabili previste dall'ordinamento nazionale.

Tale orientamento sul punto specifico sembrerebbe recepito nella sentenza C.d.S., Sezione Quinta, 1219/2018 del 28 febbraio 2018, nella quale anzitutto si ribadisce che la disapplicazione doverosa della norma interna rientri nell'attività di interpretazione, finalizzata "all'individuazione della norma applicabile, riservata al giudice, in applicazione del principio iura novit curia e nel doveroso rispetto dei principi di primazia del diritto comunitario, di certezza del diritto e di leale collaborazione".

Alla stregua della chiara statuizione di cui sopra appare non significativo il successivo riferimento al doveroso rispetto dei principi di primazia del diritto comunitario e di certezza del diritto "che impongono sia alla pubblica amministrazione, sia al giudice di garantire la piena e diretta efficacia nell'ordinamento nazionale e la puntuale osservanza ed attuazione del diritto comunitario. Ne consegue che la disapplicazione della disposizione interna contrastante con l'ordinamento comunitario costituisce un potere dovere, anzi, un dovere istituzionale per il giudice...".

Siffatto orientamento risulta altresì espresso nella sentenza C.d.S., Sezione Sesta, n. 7874/2019 del 18 novembre 2019, nella quale si legge: "... il Collegio deve farsi carico di rammentare che la tesi prevalente in giurisprudenza, allo stato, e condivisa dal Collegio, tende ad affermare che il provvedimento amministrativo adottato dall'amministrazione in applicazione di una norma nazionale contrastante con il diritto eurounitario non va considerato nullo, ai sensi dell'art. 21-septies l. 241/1990 per difetto assoluto di attribuzione di potere in capo all'amministrazione procedente, sebbene alla medesima amministrazione, per quanto si è sopra riferito è fatto carico dell'obbligo di non applicare la norma nazionale contrastante con il diritto euro-unitario, in particolar modo quando tale contrasto sia stato sancito in una sentenza della Corte di giustizia UE Per effetto di tale prevalente orientamento, quindi, la violazione del diritto euro-unitario implica solo un vizio di illegittimità non diverso da quello che discende dal contrasto dell'atto amministrativo con il diritto interno, sussistendo di conseguenza l'onere di impugnare il provvedimento contrastante con il diritto europeo dinanzi al giudice amministrativo entro il termine di decadenza, pena l'inoppugnabilità del provvedimento medesimo".

L'orientamento espresso dalla giurisprudenza sopra citata, condivisibile e consolidato quanto alla configurazione del provvedimento amministrativo conforme alla legge nazionale in contrasto con la norma euro-unionale come provvedimento illegittimo e non già come nullo, non appare viceversa condivisibile quanto all'accennato obbligo posto a carico dell'amministrazione di disapplicare la norma nazionale, ritenendosi viceversa tale attività riservata solo ed esclusivamente al giudice; e ciò per le ragioni che di seguito si esporranno.

Ed invero, come già sopra evidenziato, deve anzitutto rilevarsi che la statuizione della CGUE (che peraltro sembrerebbe "isolata"), con cui si afferma che il principio di dare attuazione alla norma comunitaria disapplicando la norma interna costituirebbe un obbligo dello Stato membro "in tutte le sue articolazioni" ovvero giudice e pubblica amministrazione, non può ritenersi norma dichiarativa di interpretazione autentica della norma comunitaria, perché essa non ha ad oggetto alcuna individuazione della ratio legis di una specifica norma comunitaria, ma attiene invece alle generali regole e modalità di applicazione della normativa unionale in generale considerata, dovendosi riguardare alla stregua di mero obiter dictum.

Al fine di individuare quale sia il soggetto cui è attribuito il potere-dovere di disapplicazione della norma nazionale, è opportuno svolgere alcune considerazioni generali sulla disapplicazione di una legge dello Stato.

Appare quasi superfluo ricordare che l'attività della pubblica amministrazione deve doverosamente conformarsi alla legge e ai regolamenti e che lo stesso giudice è soggetto alla legge.

Trattando della disapplicazione della legge non può prescindersi dal collegamento logico con l'attività di esegesi e di interpretazione della norma, perché la disapplicazione della legge costituisce null'altro che il risultato del previo esercizio della funzione interpretativa.

Orbene, l'interpretazione della norma giuridica deve essere effettuata secondo precisi e consolidati canoni ermeneutici e deve tendere alla individuazione della ratio legis, ovvero della volontà perseguita dal legislatore; essa trova anzitutto la sua fonte normativa nell'art. 12 delle preleggi.

L'interprete è tenuto anzitutto ad esaminare il testo nel suo tenore e significato letterale (interpretazione letterale); in secondo luogo deve verificarne la compatibilità logica attraverso la ricerca della voluntas legis o ratio legis; deve verificare infine la compatibilità della disposizione con altre norme dell'ordinamento, tenendo conto del criterio temporale, della gerarchia delle fonti e del rapporto generalità-specialità.

La disapplicazione di una norma di legge costituisce il risultato di un'attività di interpretazione abrogativa.

Tra le varie tecniche interpretative - letterale, logico-sistematica, analogica (analogia legis e analogia juris), storico-sistematica, autentica (riservata in tal caso al legislatore) e abrogativa - quest'ultima rappresenta aspetti più problematici, perché può condurre ad una violazione delle regole, dei ruoli e delle competenze attribuiti dall'ordinamento rispettivamente al giudice e al legislatore.

Occorre pertanto che dell'interpretazione abrogante venga fatto un uso molto prudente, perché in nessun caso è consentito al giudice e, ancor meno, all'amministrazione di sottrarsi all'obbligo di osservanza della legge.

L'interpretazione abrogante pertanto è consentita solo ed esclusivamente in presenza della contemporanea vigenza di due norme in conflitto insanabile tra loro; perché si abbia un conflitto insanabile è necessario che non risulti possibile dirimere il conflitto - in una prospettiva di coerenza e completezza dell'ordinamento - ovvero facendo applicazione di regole precise e consolidate, quali quelle che fanno prevalere - ad esempio - la norma speciale successiva su quella generale precedente.

Al di fuori di siffatta particolare ipotesi, di difficile e rara configurazione, il ricorso all'interpretazione abrogante non è dunque consentito al giudice così come - a maggior ragione - alla pubblica amministrazione.

Proprio in ragione della delicatezza e complessità della interpretazione abrogativa in ipotesi finalizzata alla disapplicazione della norma, l'ordinamento nazionale attribuisce al giudice la facoltà, ricorrendo determinati presupposti, di sospensione del giudizio e rimessione degli atti alla Corte costituzionale laddove il contrasto ricorra con riferimento ad una norma della Costituzione.

La disapplicazione attiene viceversa alla decisione del caso concreto e non è pertanto idonea a determinare un effetto erga omnes.

Anche l'ordinamento euro-unionale, proprio in vista dell'eventuale disapplicazione da parte del giudice della norma nazionale in conflitto con la norma comunitaria, attribuisce allo stesso il potere di sospensione del giudizio e di rinvio pregiudiziale degli atti alla Corte di giustizia.

La facoltà di trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e quella di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia sono funzioni strumentali e ancillari rispetto al potere di disapplicazione della norma nazionale, riconosciuto al giudice.

Al fine di stabilire chi possa o debba disapplicare la norma nazionale in conflitto con la normativa comunitaria appare dirimente considerare che le predette facoltà di trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, in quanto prodromiche e funzionali rispetto alla eventuale successiva determinazione di disapplicare la norma interna, non sono invece attribuite alla pubblica amministrazione e, per essa, al dirigente o funzionario preposto.

Proprio tale considerazione induce a ritenere che la norma nazionale, ancorché in conflitto con quella euro-unionale, risulti pertanto vincolante per la pubblica amministrazione e, nel caso in esame, per il dirigente comunale, che sarà tenuto ad osservare la norma di legge interna e ad adottare provvedimenti conformi e coerenti con la norma di legge nazionale.

Occorre inoltre considerare che la disapplicazione della norma nazionale da parte del giudice si inserisce in un contesto coerente e tendenzialmente unitario, quale quello proprio del sistema di tutela giurisdizionale offerto dall'ordinamento, che - attraverso il ricorso ai mezzi di impugnazione ordinaria e straordinaria - garantisce uniformità di applicazione della norma sul territorio nazionale, laddove la disapplicazione vincolata ed automatica disposta dalle singole pubbliche amministrazioni determinerebbe una situazione caotica ed eterogenea, nonché caratterizzata in ipotesi da disparità di trattamento tra gli operatori a seconda del comune di riferimento.

Né può valere in senso contrario il considerare la posizione di inadempimento dello Stato membro rispetto agli obblighi derivanti dalla sottoscrizione del trattato, perché trattasi di profili che corrono su piani paralleli, autonomi ed interdipendenti fra loro.

Senza peraltro dimenticare (ad ulteriore significazione della complessità delle questioni coinvolte) che nello specifico la Corte di giustizia, in varie pronunce, ha riconosciuto la doverosa tutela del principio del legittimo affidamento del titolare di concessione demaniale marittima con riferimento a rapporti concessori in essere che siano sorti in epoca antecedente rispetto alla data di adozione della direttiva servizi (con ciò rendendosi evidente come non sia coerente neanche con il sistema delineato dall'ordinamento euro-unionale una astratta determinazione dell'autorità comunale che si esprima astrattamente pro o contro il regime di proroga di cui trattasi).

In conclusione rileva il Collegio che risulterebbe del tutto illogico ritenere che il potere di disapplicazione della legge nazionale, attribuito prudentemente al giudice dall'ordinamento interno e dall'ordinamento euro-unionale e supportato all'uopo dalla specifica attribuzione di poteri ad esso funzionali e prodromici, si ritenesse viceversa sic et simpliciter attribuito in via automatica e addirittura vincolata al dirigente comunale, che non dispone (e non a caso) della possibilità di ricorrere all'ausilio di tali facoltà.

Alla stregua di tutto quanto sopra risulta anzitutto fondato il terzo motivo di censura (3.b del ricorso introduttivo).

È pertanto illegittimo l'impugnato provvedimento del Comune di Castrignano del Capo con cui il dirigente preposto al settore ha determinato l'annullamento in autotutela della proroga della concessione di titolarità della ricorrente già assentita fino all'anno 2033.

Restano assorbiti i restanti motivi di censura, dovendosi tuttavia - per mero dovere di completezza - evidenziare che la circolare del Ministero infrastrutture e trasporti del 19 dicembre 2019 non è vincolante per il Comune né per le amministrazioni destinatarie della stessa, non avendo valore di interpretazione autentica e che l'esercizio dell'autotutela non è stato supportato né da adeguata valutazione dell'interesse pubblico all'annullamento, né dalla valutazione del legittimo affidamento indotto nel titolare della concessione per effetto della norma nazionale e del precedente favorevole provvedimento di rilascio del titolo concessorio in proroga fino al 31 dicembre 2033.

Ritiene il Collegio di compensare integralmente tra le parti le spese di giudizio, in ragione della assoluta novità delle questioni trattate.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, Lecce, Sezione Prima, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l'effetto, annulla il provvedimento di cui in epigrafe.

Spese compensate tra le parti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.