Corte di cassazione
Sezione VI penale
Sentenza 23 settembre 2020, n. 1863

Presidente: Di Stefano - Estensore: Silvestri

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di appello di Milano, in riforma della sentenza emessa dal Giudice dell'udienza preliminare dello stesso Tribunale all'esito del giudizio abbreviato, ha riqualificato l'originaria imputazione di corruzione propria in quella di corruzione per l'esercizio della funzione ed ha rideterminato la pena inflitta a V. Giuseppe.

All'imputato, titolare della società Costruzioni s.r.l., è formalmente contestato di avere corrisposto a B. Paolo, quest'ultimo pubblico ufficiale in quanto istruttore tecnico del settore sei del Comune di Lodi e responsabile unico del procedimento, somme di denaro, assegni ed altri beni; in cambio di dette utilità B. avrebbe favorito V. nell'aggiudicazione degli appalti del Comune e nella esecuzione degli stessi attraverso una serie di atti contrari ai doveri d'ufficio e, in particolare, nel concordare il contenuto delle offerte da presentare alla amministrazione comunale, nella consapevole omissione di qualsiasi forma di controllo sulla qualità delle prestazioni svolte, nell'utilizzo distorto dello strumento degli affidamenti dei lavori in economia al fine di aggirare le procedure dell'evidenza pubblica, nella adozione di una serie di accorgimenti diretti a garantire a V. il recupero del ribasso d'asta indicato in sede di offerta, attraverso l'introduzione di varianti in corso d'opera solo apparentemente ricollegabili a circostanze imprevedibili, ma in realtà pianificate e concordate già in sede di presentazione dell'offerta, ovvero attraverso l'affidamento dei lavori in economia o l'affidamento di singoli lavori, non computati nel quadro economico. Fatti commessi dal 2011 al dicembre del 2015 (così l'originaria imputazione di corruzione propria).

La Corte di appello ha ritenuto che "in assenza di comprovati ed individuati atti contrari ai doveri d'ufficio" (così a pag. 11 della sentenza), i fatti debbano essere ricondotti al reato di corruzione per l'esercizio della funzione atteso "il dimostrato stabile asservimento della funzione pubblica del B. in favore dell'imprenditore V.".

2. Ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell'imputato articolando cinque motivi.

2.1. Con il primo si lamenta violazione di legge e vizio di motivazione.

La Corte, esclusa la configurabilità della corruzione propria, avrebbe automaticamente ritenuto sussistente la corruzione per l'esercizio della funzione, senza tuttavia considerare come, nel corso della stessa motivazione, sia stato di fatto escluso che dalle condotte attribuite al pubblico ufficiale sia derivata una situazione di pericolo presunto; nel caso di specie, si sostiene, il corruttore non solo non avrebbe conseguito nessun giovamento dal rapporto illecito con il pubblico ufficiale, ma ne avrebbe in realtà subito nocumento dal punto di vista patrimoniale.

La stessa Corte avrebbe affermato che il pubblico ufficiale non aveva favorito il privato, ma, addirittura, avrebbe adottato atti contrari alle pretese dell'imprenditore e in realtà favorevoli all'interesse pubblico; il pubblico ufficiale non sarebbe stato dunque asservito ma si sarebbe limitato a fornire all'imputato generici suggerimenti perseguendo comunque l'interesse pubblico.

Sotto altro profilo si assume che, secondo l'interpretazione fornita prima della entrata in vigore della l. 6 novembre 2012, n. 190, l'asservimento della funzione realizzava la fattispecie di corruzione propria, atteso che diversamente - cioè se fosse stata riconducibile al 318 c.p. - non sarebbe spiegabile la successiva modifica normativa attuata con la legge indicata; tuttavia, si aggiunge, ai fini della configurabilità della fattispecie di corruzione propria, il Giudice era comunque tenuto ad individuare il genus dell'atto o degli atti oggetto dell'illecito accordo, quantomeno nell'ottica di una ingerenza funzionale; dunque, si afferma, quanto alla condotta ascritta a V. nel periodo 2011-novembre 2012 (cioè fino alla entrata in vigore della l. n. 190), la valutazione che avrebbe dovuto essere fatta per la individuazione della norma più favorevole non potrebbe essere compiuta facendo riferimento all'alleggerito onere probatorio introdotto dalla novella per far confluire le condotte contestate nel riformulato art. 318 c.p., atteso che ciò comporterebbe una applicazione retroattiva in malam partem della "nuova" norma incriminatrice.

Secondo il ricorrente, almeno un terzo delle condotte per le quali l'imputato è stato condannato sarebbe anteriore alla introduzione del nuovo art. 318 c.p., ma detta norma non potrebbe essere interpretata sulla base dei nuovi requisiti di fattispecie e dunque, sotto tale profilo, i fatti non assumerebbero rilevanza penale né sub art. 318 c.p. e neppure in relazione all'art. 319 c.p., così come interpretato prima della novella, perché anche di detto reato non sarebbero sussistenti gli elementi di struttura.

Il corretto inquadramento della questione avrebbe rilievo anche in ordine alla determinazione della pena ed all'oggetto della confisca.

2.2. Con il secondo motivo si lamenta violazione dell'art. 521 c.p.p.

Il tema è quello di cui si è già detto e si fa riferimento ad una sentenza di questa Sezione (la n. 26025 del 2018) secondo cui sussiste violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza qualora l'imputato, tratto a giudizio per rispondere del reato di cui all'art. 319 c.p., in relazione a condotte di c.d. "vendita della funzione" poste in essere prima della l. 6 novembre 2012, n. 190, sia, invece, condannato, previa esclusione dell'illegittimità degli atti compiuti, per il reato di cui all'art. 318 c.p., come novellato da detta legge, in quanto, in tal caso, si realizza una sostanziale immutazione del fatto con riferimento al grado di determinatezza dell'oggetto dell'accordo corruttivo.

Né, si aggiunge, nella specie potrebbe aversi riguardo al criterio della prevedibilità della diversa qualificazione giuridica del fatto; se è vero che lo stesso ricorrente aveva invocato la riqualificazione del fatto nel senso operato dalla Corte già nel corso del giudizio di primo grado, è altrettanto vero, si evidenzia, che detto criterio opera solo nei casi in cui vi sia una mera riqualificazione giuridica del fatto, che resta tuttavia naturalisticamente lo stesso, ma non anche nei casi in cui, come quello in esame, gli elementi costitutivi dei due fatti-reato siano diversi.

Dunque, l'aver lo stesso imputato invocato la riqualificazione del fatto non potrebbe valere come una implicita rinuncia alla garanzia prevista dall'art. 521 c.p.p.

2.3. Con il terzo motivo si deduce violazione di legge, in relazione all'art. 322-ter c.p., ed omessa motivazione.

Diversamente dagli assunti della Corte di appello, secondo cui l'appellante aveva solo genericamente dedotto questioni su una possibile duplicazione delle somme ritenute prezzo del reato, nel motivo di appello sarebbe stato invece chiarito perché vi sarebbe stata detta duplicazione tra quanto annotato nel personal computer della segretaria e quanto nell'agenda dell'imputato.

La Corte non avrebbe chiarito a quali delle diverse ipotesi ricostruttive investigative, relative alla quantificazione del prezzo, si sia fatto riferimento.

2.4. Con il quarto motivo si lamenta l'erronea applicazione dell'art. 62, n. 4, c.p. e vizio di motivazione.

La invocata circostanza attenuante non sarebbe stata riconosciuta pur avendo negato la Corte di appello la sussistenza di un pregiudizio economico per il Comune di Lodi; né, ai fini del mancato riconoscimento, potrebbe farsi riferimento al danno di immagine che il Comune avrebbe subito, non potendo detta voce di danno essere considerata come danno patrimoniale, che, al più, sarebbe imputabile al pubblico ufficiale e non al privato imprenditore.

2.5. Con il quinto motivo si lamenta violazione di legge, in relazione all'art. 62, n. 6, c.p., e vizio di motivazione.

La circostanza in parola sarebbe stata negata per non avere risarcito l'imputato il danno all'immagine arrecato alla Pubblica Amministrazione e perché la dazione di 10.000 euro non sarebbe dimostrativa del completo ristoro del pregiudizio.

Si assume invece che non sarebbe chiaro in cosa consisterebbe il danno non ancora risarcito, avendo appunto escluso la stessa Corte la esistenza di un danno patrimoniale, non potendo ascriversi all'imputato il danno alla immagine e non potendo nemmeno farsi riferimento ad altro tipo di danno non patrimoniale, cioè al danno morale.

Non sarebbe dunque chiaro quale sarebbe l'ulteriore danno risarcibile.

3. Il 20 aprile 2019 è stata depositata una memoria con le conclusioni scritte per il Comune di Lodi, costituito parte civile, con cui si analizzano i singoli motivi di ricorso proposti dall'imputato, ritenuti tutti infondati.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è nel complesso infondato.

2. Il primo motivo è infondato.

La Corte di appello, ricostruiti i fatti ed esclusa la loro riconducibilità alle fattispecie previste dagli artt. 319 o 319-quater c.p., ha chiarito come nel caso di specie vi sia stata "una concordata e libera adesione da parte di entrambi gli imputati, e per un lungo arco temporale, ad una modalità disinvolta di gestione di lavori ed appalti nell'ambito del Comune di Lodi che prevedeva, per il B., un costante mercimonio delle proprie funzioni, al fine di favorire l'amico imprenditore, e per il V. una reiterata remunerazione di tale disponibilità quale evenienza del tutto normale e implicita nell'assetto dei suoi rapporti con il pubblico ufficiale". Una remunerazione costante volta, per il V., non ad evitare "conseguenze pregiudizievoli per la propria attività economica, ma perché consapevole che l'avvio ed il mantenimento nel tempo dei riferiti rapporti collaborativi con l'amministrazione comunale lodigiana erano stati possibili - e lo sarebbero stati anche in futuro - grazie all'appoggio garantito del pubblico ufficiale" (così la Corte a pag. 12).

Una protezione globale, indeterminata, sistemica da parte del pubblico ufficiale - geometra dell'ufficio tecnico del Comune di Lodi con autonomia decisionale nell'affidamento e nella gestione dei lavori - con conseguente "presa in carico" di un interesse privato, a prescindere dalla individuazione e dal compimento di uno specifico atto dell'ufficio.

Un accordo corruttivo con cui il pubblico ufficiale "vende" l'impegno a considerare ed a curare nel tempo gli interessi del privato corruttore (sul punto, diffusamente, Sez. 6, n. 18125 del 22 ottobre 2019, dep. 2020, Bolla, Rv. 279555).

Una condotta che, secondo il consolidato orientamento della Corte di cassazione, era riconducibile al paradigma della corruzione propria prima delle modifiche apportate dalla l. n. 190 del 2012 all'art. 318 c.p.

Ai fini della integrazione del delitto di cui all'art. 319, si spiegava dalla Corte di cassazione, non era necessaria l'individuazione di uno specifico atto contrario ai doveri d'ufficio per il quale il pubblico ufficiale abbia ricevuto somme di denaro o altre utilità non dovute, a condizione che, dal suo comportamento, emerga comunque un atteggiamento diretto in concreto a vanificare la funzione demandatagli ed a violare i doveri di fedeltà, di imparzialità e di perseguimento esclusivo degli interessi pubblici che sullo stesso incombono (Sez. 6, n. 22301 del 24 maggio 2012, dep. 8 giugno 2012, Saviolo, Rv. 254055, che richiama Sez. 6, n. 34417 del 15 maggio 2008, Leoni, Rv. 241081; Sez. 6, n. 20046 del 16 gennaio 2008, Bevilacqua, Rv. 241184; Sez. 6, n. 21192 del 26 febbraio 2007, Eliseo, Rv. 236624; si tratta di pronunce tutte precedenti alla introduzione della nuova fattispecie di cui all'art. 318 c.p.).

L'atto, si aggiungeva, avrebbe potuto essere anche determinabile in astratto in ragione della competenza e della sfera di influenza del pubblico ufficiale; nel contesto della interpretazione estensiva dell'art. 319 c.p., l'indirizzo in esame si poneva in chiara continuità con il principio secondo cui, ai fini della integrazione del reato di cui all'art. 319 c.p., sarebbe stata sufficiente la mera individuabilità del genus di atti da compiere, e detta operazione era connessa alla competenza ed alla concreta sfera di intervento del pubblico ufficiale, così da essere suscettibile di specificarsi in una pluralità di atti singoli non preventivamente fissati o programmati, ma pur sempre appartenenti al genus (tra le tante, Sez. 6, n. 30058 del 16 maggio 2012, Di Giorgio, Rv. 253216; Sez. 6, n. 2818 del 2 ottobre 2006, Bianchi, Rv. 235727).

Non vi sono dubbi che la condotta contestata all'odierno imputato fosse sussumibile nella fattispecie di corruzione propria, secondo l'assetto normativo ed il diritto vivente precedente alla entrata in vigore della l. n. 190 del 2012.

Né è sostanzialmente in contestazione che, quanto al segmento di condotte compiute successivamente alla modifica dell'art. 318 c.p., il fatto contestato sia qualificabile in termini di corruzione per l'esercizio della funzione.

L'art. 318 c.p., nel testo attualmente vigente, sanziona la violazione del principio rivolto al pubblico funzionario di non ricevere denaro o altre utilità in ragione della funzione pubblica esercitata e, specularmente, al privato di non corrisponderglieli; la norma sanziona l'intesa programmatica - l'impegno del pubblico ufficiale a curare interessi indebiti senza la previa individuazione di alcunché -, previene la compravendita degli atti d'ufficio e garantisce il corretto funzionamento e l'imparzialità della pubblica amministrazione.

Il discrimine rispetto alla corruzione propria resta pertanto segnato dalla progressione criminosa dell'interesse protetto in termini di gravità (che giustifica la diversa risposta punitiva) da una situazione di pericolo (il generico asservimento della funzione) ad una fattispecie di danno, in cui si realizza la massima offensività del reato (con l'individuazione di un atto contrario ai doveri d'ufficio). Nel primo caso la dazione indebita, condizionando la fedeltà ed imparzialità del pubblico ufficiale che si mette genericamente a disposizione del privato, pone in pericolo il corretto svolgimento della pubblica funzione; nell'altro, la dazione, essendo connessa sinallagmaticamente con il compimento di uno specifico atto contrario ai doveri d'ufficio, realizza una concreta lesione del bene giuridico protetto, meritando quindi una pena più severa (cfr. Sez. 6, n. 18125 del 2019, cit.).

Si tratta di considerazioni che devono essere poste in connessione con il fatto, neanche questo in contestazione, che al ricorrente è attribuito un unico patto corruttivo, esplicitatosi nel corso del tempo (fino al dicembre del 2015), quindi anche successivamente alla entrata in vigore della l. n. 190 del 2012 ed alla modifica dell'art. 318 c.p., attraverso l'introduzione della fattispecie di corruzione per l'esercizio della funzione.

Dunque, un unico fatto corruttivo penalmente rilevante prima ma anche dopo l'entrata in vigore della l. n. 190 del 2012; un unico reato, perfezionatosi con la conclusione del patto corruttivo prima della modifica all'art. 318 c.p. e consumatosi successivamente alla modifica normativa.

Sul tema, le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno chiarito che il delitto di corruzione si perfeziona alternativamente con l'accettazione della promessa ovvero con la dazione-ricezione dell'utilità, e tuttavia, ove alla promessa faccia seguito la dazione-ricezione, è solo in tale ultimo momento che, approfondendosi l'offesa tipica, il reato viene a consumazione (Sez. un., n. 15208 del 25 febbraio 2010, Mills, Rv. 246583).

Alla luce delle considerazioni esposte, è dunque corretta la riqualificazione giuridica compiuta dalla Corte di appello che, in assenza di atti contrari ai doveri di ufficio, ha ritenuto di ricondurre il fatto-reato, perfezionatosi prima ma consumatosi dopo l'entrata in vigore della l. n. 190 del 2012, alla innovata fattispecie prevista dall'art. 318 c.p.

3. È infondato, ai limiti della inammissibilità, il secondo motivo di ricorso.

Il motivo di ricorso è, nella sostanza, privo del requisito della specificità; il ricorrente non ha prospettato alcuna concreta emergenza alla stregua della quale apprezzare come la censurata riqualificazione dei fatti abbia in qualche modo leso il diritto di difesa e l'esercizio del diritto alla prova, tenuto conto dei due gradi di giudizio, e, soprattutto, la obiettiva circostanza, evidenziata dallo stesso imputato, per cui la riconduzione del fatto, originariamente sussunto nell'art. 319 c.p., alla fattispecie prevista dall'art. 318 c.p. è stata sollecitata da V. sin dal giudizio di primo grado.

Dunque, una riqualificazione conseguente al pieno esercizio del diritto di difendersi provando.

La giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha in più occasioni escluso la violazione dei parametri convenzionali in tutti i casi in cui la prospettiva della nuova definizione giuridica sia nota o comunque prevedibile per l'imputato, censurando, in concreto, le sole ipotesi in cui la riqualificazione dell'addebito assuma le caratteristiche di un atto a sorpresa.

La stessa Corte, inoltre, non ha mancato di sottolineare come il diritto di difesa e quello al contraddittorio non siano vulnerati nei casi in cui i fatti costitutivi del nuovo reato siano già presenti nella originaria imputazione: ciò, evidentemente, anche nella ipotesi in cui la nuova definizione giuridica, diversamente dal caso di specie, non fosse di per sé prevedibile per l'imputato (v., fra le tante, sentenze 1° marzo 2001, Dallos c. Ungheria; 3 luglio 2006, Vesque c. Francia; 7 gennaio 2010, Penev c. Bulgaria; 12 aprile 2011, Adrian Constantin c. Romania; 3 maggio 2011, Giosakis c. Grecia; 15 gennaio 2015, Mihei c. Slovenia, nella quale ultima si è in particolare rilevato come l'imputato fosse pienamente a conoscenza degli elementi fattuali posti alla base della contestazione originaria, dai quali era possibile desumere l'oggetto della contestazione così come modificata nel corso del dibattimento).

In tale contesto, le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno chiarito come l'attribuzione all'esito del giudizio di appello, pur in assenza di una richiesta del pubblico ministero, al fatto contestato di una qualificazione giuridica diversa da quella enunciata nell'imputazione non determina la violazione dell'art. 521 c.p.p., neanche per effetto di una lettura della disposizione alla luce dell'art. 111, secondo comma, Cost., e dell'art. 6 della Convenzione EDU come interpretato dalla Corte europea, qualora la nuova definizione del reato fosse nota o comunque prevedibile per l'imputato e non determini in concreto una lesione dei diritti della difesa derivante dai profili di novità che da quel mutamento scaturiscono (Sez. un., n. 31617 del 26 giugno 2015, Lucci, Rv. 264438).

Né, in tale dimensione, assume rilievo la prospettata diversità strutturale del fatto, non solo perché tale diversità non è configurabile nella specie, ma, soprattutto, perché nessuna prerogativa difensiva è stata violata e il diritto al contraddittorio e quello alla prova sono stati in concreto assicurati.

4. È inammissibile per aspecificità il terzo motivo di ricorso.

La Corte di appello ha spiegato che: a) il profitto del reato è stato quantificato in 36.636,00 euro, cioè nell'utilità data o promessa al pubblico ufficiale; b) la fondatezza della pretesa ablativa non è sostanzialmente in contestazione; c) gli assunti relativi alla quantificazione dell'oggetto dell'ablazione erano generici.

Rispetto a tale quadro di riferimento, il motivo di ricorso richiama quello di appello che, tuttavia, era genericamente strutturato, essendosi limitato l'imputato e valorizzare segmenti di dichiarazioni, senza tuttavia comprovare la invocata duplicazione degli importi che sarebbero stati corrisposti dal corruttore.

5. Sono infondati anche il quarto ed il quinto motivo di ricorso.

Quanto all'art. 62, n. 4, c.p., la formulazione attuale recepisce l'aggiunta operata dall'art. 2 della l. 7 febbraio 1990, n. 190 la quale, nell'intento di rendere la circostanza in esame speculare all'aggravante di cui all'art. 61, n. 7, c.p., ne ha esteso l'applicabilità ai delitti, come quello in esame, determinati da motivi di lucro; per questi ultimi reati si richiede la necessità del proposito da parte dell'agente di conseguire un danno di speciale tenuità - o del concreto conseguimento dello stesso - purché il danno o il pericolo "evento dannoso o pericoloso" causati risultino in concreto particolarmente lievi.

Ne discende che mentre per i delitti contro il patrimonio, o che comunque offendono il patrimonio, è sufficiente accertare la speciale tenuità del danno, senza che abbia rilievo la natura dell'evento dannoso o pericoloso, non così per i delitti determinati da motivi di lucro, per i quali è necessaria la sussistenza di entrambi gli elementi.

La Corte di appello ha fatto corretta applicazione del principio indicato chiarendo, al fine di non ritenere sussistente la circostanza attenuante richiesta, come l'assenza di un profilo patrimoniale di danno nella specie non assuma decisiva valenza, attesa la esistenza di un danno non particolarmente lieve, tenuto conto anche del danno all'immagine arrecato al Comune per effetto del fatto necessariamente plurisoggettivo compiuto.

A considerazioni non diverse deve pervenirsi anche per quel che attiene alla circostanza attenuante prevista dall'art. 62, n. 6, c.p., avendo la Corte chiarito come la dazione della somma di 10.000 euro da parte dell'imputato non esaurisca il pregiudizio derivante dalla sua condotta.

Diversamente dagli assunti difensivi, giova ricordare che l'accertamento in sede penale di un'intesa corruttiva costituisce titolo della domanda risarcitoria proposta ex art. 185 c.p. dalla parte che ha subito gli effetti della corruzione, cioè nella specie il Comune di Lodi, costituitosi parte civile, e comporta la condanna del corruttore e del corrotto al risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali, cagionati dal reato di corruzione (sul tema, cfr. Sez. 6, n. 33435 del 4 maggio 2006, Battistella, Rv. 234368).

Rispetto a tale quadro di riferimento, nulla di specifico è stato dedotto, essendosi limitato il ricorrente a valorizzare l'assenza nella specie di un danno patrimoniale, ed ad affermare l'estraneità del corruttore dalle altre voci risarcitorie.

6. Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ad al pagamento delle spese di rappresentanza e difesa sostenute dalla parte civile, Comune di Lodi, che liquida in complessivi 3.500,00 euro, oltre accessori come per legge.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Condanna inoltre l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile, Comune di Lodi, che liquida in complessivi 3.500,00 euro, oltre accessori come per legge.

Depositata il 18 gennaio 2021.

A. Di Majo

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