Consiglio di Stato
Sezione IV
Sentenza 31 marzo 2021, n. 2686

Presidente: Maruotti - Estensore: Carluccio

FATTO E DIRITTO

1. Oggetto della presente decisione è l'appello proposto dalla s.r.l. Immobiliare Villa Elena avverso la sentenza del T.a.r. per il Veneto, n. 1232 del 14 novembre 2019, che ha dichiarato inammissibile il ricorso (r.g. n. 1617 del 2006) avanzato dalla stessa società nei confronti del Comune di Jesolo.

1.1. Il Comune si è costituito in giudizio, concludendo per il rigetto dell'appello.

1.2. Entrambe le parti hanno depositato memorie, anche di replica.

1.3. All'udienza pubblica del 19 novembre 2020, ai sensi dell'art. 25 d.l. n. 137 del 2020, la causa è stata trattenuta dal Collegio in decisione.

2. La controversia concerne la realizzazione di parcheggi e viabilità funzionali ad un ospedale, da parte del Comune su un terreno di proprietà della società, e si inserisce in un lunghissimo contenzioso tra le parti.

2.1. Le occupazioni di urgenza dell'area privata, effettuate negli anni 1983 e 1988, sono state annullate dal T.a.r. nel 1989, con sentenza confermata da questo Consiglio nel 2005.

2.2. Nelle more del suddetto giudizio, la società nel 1997 - deducendo l'irreversibile trasformazione dell'area - ha adito il giudice ordinario ed ha chiesto, tra l'altro, il risarcimento del danno per equivalente. Questo processo non si è ancora concluso con una sentenza definitiva passata in giudicato.

2.2.1. Infatti, la sentenza del Tribunale di Venezia n. 2451 dell'8 novembre 2005, la quale ha parzialmente accolto le domande della società, è stata gravata da appello principale da parte della società, oltre che da appello incidentale proposto dal Comune. La successiva sentenza della Corte di appello del 2013 è stata cassata con rinvio al giudice del merito, in accoglimento del ricorso della società, con l'ordinanza n. 5968 del 28 febbraio 2019.

2.2.1.2. La Corte di cassazione ha così individuato il principio di diritto: "la CdA non ha applicato il principio della medesimezza della causa petendi, che - superando il precedente orientamento giurisprudenziale - aveva equiparato l'occupazione appropriativa a quella usurpativa ed affermato che entrambe sono caratterizzate dalla mancata acquisizione autoritativa del bene alla mano pubblica e che in entrambi i casi al proprietario dell'immobile illegittimamente occupato, spetta la tutela reale e il risarcimento ex art. 2043, illecito permanente che cessa solo nel caso di restituzione, di usucapione oppure di rinuncia implicita del proprietario attraverso l'azione risarcitoria per equivalente".

2.2.2. Il giudizio, riassunto dalla società dinanzi alla Corte di appello, risulta ancora pendente.

2.3. Nel 2006, nelle more della definizione del processo per il risarcimento del danno, ha avuto inizio un altro giudizio dinanzi al giudice amministrativo, la cui fase di appello è ora all'esame del Collegio. Di seguito, si darà conto dello stesso nella misura strettamente necessaria alla decisione delle questioni controverse.

3. Nell'intento di dare esecuzione alla suddetta sentenza del Tribunale di Venezia del 2005, il Comune:

- ha provveduto (con la determinazione n. 119 del 27 gennaio 2006) al deposito presso la Cassa depositi e prestiti dell'importo complessivo di euro 384.616,36;

- ha disposto l'acquisizione dell'area in favore del Comune con decreto dirigenziale n. 3 del 9 maggio 2006, previo avvio del procedimento volto all'acquisizione dell'area irreversibilmente trasformata ai sensi dell'art. 43 del d.P.R. n. 327 del 2001.

3.1. La società ha impugnato dinanzi al T.a.r. quest'ultimo provvedimento, unitamente agli atti connessi e presupposti, ivi compresa la delibera del Consiglio comunale n. 28 del 24 febbraio 2006, ed ha agito per il risarcimento del danno derivante dalla acquisizione del bene oggetto dei provvedimenti impugnati.

3.2. Il T.a.r. - con la sentenza del novembre 2019 - ha così essenzialmente argomentato l'inammissibilità dell'originario ricorso:

a) secondo quanto risulta dalle sentenze civili e dall'atto di riassunzione dinanzi alla Corte di appello, nel giudizio civile vi sarebbe stata la "rinuncia abdicativa" del diritto di proprietà da parte della società;

a1) la suddetta "rinuncia abdicativa" avrebbe privato la società della legittimazione e dell'interesse a contrastare in sede giurisdizionale i provvedimenti del Comune impugnati al fine di ottenerne l'annullamento;

b) sulla base della "giurisprudenza prevalente", le critiche nei confronti della "rinuncia abdicativa" sviluppate dalla società non sarebbero fondate;

c) le ordinanze del 2019, con le quali il Consiglio di Stato ha rimesso alla Adunanza plenaria la questione della configurabilità della "rinuncia abdicativa", non sarebbero riferibili alla fattispecie in esame;

c1) infatti, nella fattispecie la "rinunzia abdicativa" vi sarebbe stata dinanzi al giudice ordinario, con conseguente dismissione del diritto di proprietà a far data dalla proposizione della domanda di risarcimento per equivalente nel 1997; domanda confermata, dopo la cassazione con rinvio al giudice di merito, con la riassunzione pendente dinanzi alla Corte di appello;

d) la conseguenza è che gli atti posti in essere dal Comune in epoca successiva (il decreto n. 3 del 9 maggio 2006 e la delibera del Consiglio comunale n. 28 del 24 febbraio 2006) ed oggetto di impugnazione non avrebbero potuto riguardare la sfera giuridica della società ricorrente, la quale, avendo dismesso il diritto dominicale, sarebbe priva di legittimazione e di interesse a ricorrere.

4. La società ha proposto appello affidato a quattro motivi.

4.1. Con il primo motivo, essa ha dedotto l'erroneità della sentenza in ordine alla configurabilità nell'ordinamento della "rinuncia abdicativa", specialmente dopo la sentenza dell'Adunanza plenaria n. 2 del 2020.

4.2. Con il secondo motivo, la società ha dedotto l'illegittimità del provvedimento di acquisizione ex art. 43 del d.P.R. n. 327 del 2001, per essere stata la disposizione normativa dichiarata incostituzionale per eccesso di delega dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 293 del 2010.

4.3. Con il terzo ed il quarto, sottoposti al Collegio in via subordinata al mancato accoglimento dei primi due, la società, riproponendo le censure già dedotte in primo grado, ha sostenuto l'illegittimità del provvedimento di acquisizione ex art. 43 cit. per il mancato rispetto dei criteri ivi previsti ed il proprio diritto al risarcimento del danno.

5. Il Comune ha riproposto l'eccezione di difetto di giurisdizione, limitatamente alla domanda risarcitoria proposta dalla società unitamente a quella di annullamento degli atti.

6. Ritiene il Collegio che i primi due motivi di appello sono fondati e vanno accolti, sulla base delle argomentazioni che seguono.

7. Ai fini dell'accoglimento del primo motivo, è determinante la circostanza che nel giudizio civile, del quale si è detto (cfr. § 2.2. e ss.), non si è formato il giudicato in ordine alla "rinunzia abdicativa", affermata dalla Corte di cassazione sulla base della prassi seguita dalla giurisprudenza civile per molti anni, né in ordine all'azione di risarcimento per equivalente.

7.1. Invece, il primo giudice parte dell'erroneo presupposto - sia pure non esplicitamente espresso - che si sia formato il giudicato su tale essenziale questione di diritto.

7.2. L'assenza del giudicato fa assumere rilevanza alle decisioni con le quali (cfr. nn. 2, 3 e 4) l'Adunanza plenaria, sulla base di approfondite argomentazioni cui si fa rinvio, ha affermato che la domanda di risarcimento per equivalente non è causa di cessazione dell'illecito permanente e non è idonea a determinare la perdita della proprietà in capo a chi ha subito l'illegittima ed irreversibile trasformazione del bene; la "rinuncia abdicativa", quindi, non ha alcun rilievo giuridico nelle fattispecie disciplinate dall'art. 42-bis del testo unico sugli espropri e non è idonea a determinare l'acquisto del bene in capo all'ente che occupa l'area.

Secondo le suddette pronunce, "preminenti esigenze di sicurezza giuridica, implicanti la prevedibilità, per tutti i soggetti coinvolti (compresa la parte pubblica), della fattispecie ablativa/acquisitiva, non possono che escludere la rilevanza dell'atto unilaterale di rinuncia abdicativa alla proprietà dell'immobile, ai fini della cessazione dell'illecito permanente costituito dall'occupazione sine titulo del bene di proprietà privata e della riconduzione della situazione di fatto a legalità".

L'art. 42-bis, infatti, esaurisce la disciplina della fattispecie e comporta che l'occupazione senza titolo può terminare solo con l'adeguamento dello stato di diritto a quello di fatto, con un atto di acquisizione, un accordo transattivo tra le parti, avente effetti reali, o con la restituzione dell'area.

7.3. La conseguenza è che la società, ancora proprietaria dei beni illegittimamente trasformati in modo irreversibile, va considerata legittimata ad impugnare i provvedimenti con i quali è stata disposta l'acquisizione ex art. 43 cit.

8. A questo punto, va esaminato il secondo motivo d'appello, con cui la società ha chiesto che sia annullato l'atto di acquisizione emesso nel 2006, a seguito della declaratoria di incostituzionalità dell'art. 43 del testo unico sugli espropri, disposta dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 293 del 2010, per un ravvisato eccesso di delega.

8.1. Va premesso che con il ricorso di primo grado non si è dubitato della legittimità costituzionale dell'art. 43 del testo unico sugli espropri: le uniche censure sono state quelle riguardanti il contenuto dell'atto di acquisizione, emesso nel 2006.

8.2. Tuttavia, il secondo motivo d'appello risulta di per sé ammissibile.

Va richiamato il principio enunciato dall'Adunanza plenaria di questo Consiglio, con la sentenza 10 aprile 1963, n. 8.

In quella occasione, in sede di esame di un ricorso formulato in unico grado al Consiglio di Stato, l'Adunanza plenaria ha affermato che il giudice amministrativo può anche d'ufficio rilevare l'incostituzionalità della disposizione in base alla quale sia stato emanato un provvedimento e, di conseguenza, disporne l'annullamento.

Il Collegio ritiene che, a maggior ragione, si possa rilevare in sede di appello la disposta declaratoria di incostituzionalità della norma attributiva del potere, allorquando, come è avvenuto nel caso di specie, la sentenza di primo grado abbia erroneamente dichiarato inammissibile il ricorso introduttivo (proposto quando ancora non vi era stata la declaratoria di incostituzionalità) e l'appellante - oltre a fondatamente censurare la erronea sentenza di natura processuale del TAR - abbia richiamato la sentenza della Corte costituzionale, chiedendo che se ne traggano le relative conseguenze.

8.3. A questo punto, la Sezione non può fare altro che prendere atto della sentenza della Corte costituzionale n. 293 del 2010, che ha ravvisato l'incostituzionalità dell'art. 43 del testo unico sugli espropri per eccesso di delega.

8.4. Pertanto, va annullato l'atto impugnato in primo grado.

9. Naturalmente, resta salvo il potere del Comune di riesercitare il proprio potere amministrativo ai sensi dell'art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del 2001.

10. In conclusione, vanno accolti il primo e il secondo motivo di appello, con assorbimento dei restanti, e, per l'effetto, in totale riforma della sentenza impugnata, vanno annullati gli atti del procedimento conclusosi con l'atto di acquisizione.

11. In ragione della specificità della controversia, che si è collocata in un arco temporale caratterizzato da decisivi mutamenti della giurisprudenza, sussistono giusti motivi per la integrale compensazione delle spese processuali del doppio grado del giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull'appello n. 1569 del 2020, come in epigrafe proposto, così provvede:

a) accoglie il primo e il secondo motivo di appello, con assorbimento dei restanti motivi;

c) per l'effetto, in totale riforma della sentenza impugnata, annulla gli atti impugnati con il ricorso proposto dinanzi al T.a.r.;

d) compensa integralmente le spese processuali del doppio grado del giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

A. Contrino e al. (curr.)

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