Consiglio di Stato
Sezione IV
Sentenza 3 maggio 2021, n. 3475
Presidente ed Estensore: Forlenza
FATTO
1. Con l'appello in esame, l'Autorità portuale di Civitavecchia, Fiumicino e Gaeta, l'Agenzia delle dogane e dei Monopoli ed il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti impugnano la sentenza 10 febbraio 2015, n. 2411, con la quale il TAR per il Lazio, Sez. III-ter, ha accolto i ricorsi nn. r.g. 7850/2012 e 9292/2013, proposti da TotalErg s.p.a. e Raffineria di Roma s.p.a. ed ha annullato gli atti impugnati ed in particolare:
- il decreto del Presidente dell'Autorità portuale 18 giugno 2012, n. 182, con il quale è stata aumentata del 100% a decorrere dal 1° luglio 2012, la tassa portuale per le voci merceologiche di cui al punto 3 della Tabella allegata al d.P.R. n. 107/2009, quali "carbone, olii minerali alla rinfusa, esclusi i laterizi";
- il decreto del Presidente dell'Autorità portuale 4 luglio 2013, n. 308, con il quale è stato disposto il medesimo aumento e per le stesse voci merceologiche per il periodo 1° luglio-31 dicembre 2013 e con ulteriore aumento a decorrere dal 1° aprile 2014.
Le società ricorrenti in primo grado, attuali appellate, sono operatori attivi nella movimentazione di prodotti petroliferi attraverso due terminali siti nella rada di Fiumicino e pertanto corrispondono in relazione alle merci sbarcate ed imbarcate la c.d. tassa portuale, di cui all'art. 2 d.P.R. 28 maggio 2009, n. 187. Hanno, dunque, impugnato i decreti del Presidente dell'Autorità portuale innanzi citati (e le presupposte deliberazioni del Comitato portuale), con le quali sono stati disposti aumenti della predetta tassa portuale.
Quest'ultima è prevista dall'art. 2 del d.P.R. 28 maggio 2009, n. 107 (regolamento "di delegificazione" emanato sulla base dell'art. 1, comma 989, l. 27 dicembre 2006, n. 296), con riferimento alle merci sbarcate e imbarcate ed è "commisurata alle tonnellate metriche di merce secondo le aliquote riportate, in relazione a ciascuna categoria merceologica ed alla tipologia di traffico, nella tabella allegata". Quest'ultima contempla due serie di coefficienti diversamente articolati in relazione a sei categorie merceologiche, tra le quali, per quel che interessa nella presente sede, la n. 3 "carbone, oli minerali alla rinfusa e laterizi".
L'adeguamento delle tasse e diritti marittimi è rimessa dall'art. 4 del d.P.R. ad un decreto interministeriale, secondo un criterio di gradualità e sulla base di parametri previsti al comma 2.
Su questa disciplina è intervenuto l'art. 5 d.l. n. 194/2009 che ha in particolare previsto:
- l'applicazione, a decorrere dal 1° gennaio 2012, delle disposizioni relative all'adeguamento delle tasse e dei diritti marittimi "al fine di fronteggiare la crisi di competitività dei porti nazionali" (art. 5, comma 7-undecies);
- l'attribuzione alle Autorità portuali, "nell'ambito della loro autonomia di bilancio e nel rispetto dell'equilibrio di bilancio, per gli anni 2010, 2011 e 2012, di "stabilire variazioni in aumento fino ad un tetto massimo pari al doppio della misura delle tasse di ancoraggio e portuale ... nonché in diminuzione fino all'azzeramento delle singole tasse medesime" (art. 7, comma 7-duodecies).
L'art. 11, comma 1, lett. b), d.l. n. 216/2011 ha posticipato la decorrenza degli adeguamenti dal 2012 al 2013 (in sede di conversione, tuttavia, la disposizione non è stata convertita in legge).
Successivamente, l'art. 1, comma 388, l. 24 dicembre 2012, n. 228, ha fissato al 30 giugno 2013 "il termine di scadenza dei termini e dei regimi giuridici indicati nella tabella 2 allegata", tra i quali è incluso il comma 7-duodecies dell'art. 5, innanzi riportato.
Infine, l'art. 22, comma 2, d.l. 21 giugno 2013, n. 69 (conv. in l. 9 agosto 2013, n. 98), ha previsto che "nell'ambito della propria autonomia finanziaria, alle autorità portuali è consentito di stabilire variazioni in diminuzione, fino all'azzeramento, delle tasse di ancoraggio e portuale", così come adeguate ai sensi del Regolamento, "nonché variazioni in aumento, fino a un limite massimo pari al doppio della misura delle tasse medesime".
È sulla base delle disposizioni innanzi citate che sono stati emanati i decreti impugnati. In particolare:
- il decreto n. 182/2012, riferito alle aliquote all'epoca vigenti, dispone gli aumenti in dichiarata applicazione dell'art. 5, comma 7-duodecies, citato, e con decorrenza 1° luglio 2012;
- il decreto n. 308/2013, oltre a riconoscere l'operatività del precedente decreto fino al 30 giugno 2013, ha raddoppiato le aliquote nel frattempo adeguate per l'anno 2013 (con decorrenza dal 1° luglio 2013), e per l'anno 2014.
Tanto precisato con riferimento al quadro normativo entro il quale si collocano i provvedimenti impugnati, la sentenza afferma, in particolare:
- benché l'art. 3, comma 2, l. n. 241/1990 escluda dall'obbligo di motivazione gli atti normativi e quelli a contenuto generale (categoria nella quale rientrano i provvedimenti impugnati (da ritenere atti generali, se non normativi), è "nondimeno sussistente un onere motivazionale, ancorché attenuato, riveniente dalle norme attributive della potestà in argomento, che ne individuano lo scopo e introducono un vincolo (formale e sostanziale) rilevante sul piano economico-contabile";
- le motivazioni espresse dal Comitato portuale - e recepite dal decreto n. 182/2012 - "non consentono di percepire l'effettiva preordinazione del concreto innalzamento delle tasse all'effettuazione degli interventi previsti nel documento programmatorio"; ciò in quanto "l'Autorità avrebbe dovuto dare conto oltre che della presumibile entità delle risorse da reperire per colmare l'asserito gap finanziario in vista dell'effettuazione (in tutto o in parte e secondo le ritenute tempistiche) delle inerenti spese (c.d. quadro esigenziale), anche di un ipotesi sul gettito derivante dall'aumento dei coefficienti ... in modo da evidenziare quantomeno l'esistenza di un nesso (sebbene non in termini di esatta coincidenza) tra le due poste finanziarie"; altrimenti "il generico riferimento agli investimenti degli enti portuali rischierebbe di divenire una clausola di stile, con impossibilità di verifica del perseguimento degli scopi indicati dalla legge";
- è illegittima la scelta dell'amministrazione "di incidere unicamente su una delle categorie indicate dalla norma impositiva", poiché l'intendimento del legislatore è quello "di considerare il sistema dei porti nazionali in modo unitario". Né può dedursi dal riferimento testuale di cui all'art. 5, comma 7-duodecies, alla "diminuzione fino all'azzeramento delle singole tasse", il conferimento alle Autorità portuali del "potere di modificare il riparto del carico fiscale", dato che "la legge, se avesse voluto demandare all'autorità amministrativa la facoltà di modificare il citato rapporto tra i carichi fiscali, avrebbe dovuto dettare criteri all'uopo preordinati, pena la violazione delle regole costituzionali sulle prestazioni patrimoniali imposte";
- "l'entrata in vigore del d.m. 24 dicembre 2012 e dunque dei nuovi parametri per la categoria merceologica di interesse, sostitutivi di quelli posti a base del decreto n. 182, (ha) comportato l'automatica cessazione del regime impositivo introdotto da questo provvedimento. Sicché dal 6 gennaio 2013, in assenza di nuova determinazione dell'Autorità portuale ai sensi del comma 7-d[u]odecies ... non poteva che essere applicata la nuova disciplina"; ne consegue "la delimitazione temporale del decreto n. 182 fino al 5 gennaio 2013" (e non già fino al 30 giugno 2013);
- "il decreto n. 308/2013, pur sorretto dall'art. 22 d.l. n. 69/2013, è illegittimo nella parte in cui determina la sua decorrenza a far tempo dal 1° luglio 2013, dovendo i relativi effetti essere ricondotti alla data di adozione (4 luglio 2013). Va infatti esclusa qualsiasi portata retroattiva, non consentita né dalla norma attributiva del potere - alla luce del suo chiaro tenore testuale e del principio espresso dall'art. 3, comma 1, Statuto contrib. ("le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo") - né dal principio generale di irretroattività degli atti amministrativi".
2. Avverso la decisione impugnata venivano proposti i seguenti motivi di appello:
a) difetto di giurisdizione del giudice amministrativo; giurisdizione esclusiva del giudice tributario; poiché "rientra nella competenza del giudice tributario, così come delineata anche dall'art. 7 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, valutare l'illegittimità degli atti amministrativi generali, al limitato fine di decidere la controversia relativa ad uno specifico rapporto tributario";
b) erroneità della sentenza in ordine all'affermata carenza motivazionale e di istruttoria con riferimento ad atti a contenuto generale e normativo, nonché in ordine alla affermata violazione delle norme primarie e secondarie di riferimento; ciò in quanto: b1) la decisione appare "contraddittoria nella misura in cui, da un lato attribuisce alle determinazioni impugnate la natura di atto generale e finanche normativo e dall'altro afferma l'onere di motivazione degli stessi", in violazione dell'art. 3 l. n. 241/1990; in particolare "le determinazioni contenute nei decreti impugnati, nell'attribuire all'Autorità portuale un potere di intervenire in variazione della misura della tassa portuale, fissata in altro provvedimento a carattere generale e normativo (il menzionato d.P.R. n. 109 del 2007, richiamato dall'art. 5, comma 7-duodecies, del d.l. n. 194 del 2009), indubbiamente si pongono in attuazione diretta della norma attributiva del potere e, dunque, assumono valore di atto regolamentare di livello secondario al pari del menzionato regolamento"; b2) il decreto n. 182 è stato emanato sulla base della delibera del Comitato portuale n. 75 del 2012, cui il decreto rinvia per relationem, e della memoria allegata alla stessa; la delibera "consente di risalire sia alle problematiche connesse alla possibilità di concreta attuazione dell'autofinanziamento dell'Autorità portuale, sia alla necessità, in assenza di altre fonti di finanziamento e soprattutto a causa dei ritardi attuativi delle norme sull'aggiornamento dei diritti e delle tasse portuali, di aumentare le tasse portuali al fine di far fronte al complesso Piano di investimenti già approvato nei mesi precedenti, dando in tal modo ampia evidenza delle ragioni per cui l'Autorità si sia trovata a dover adottare l'aumento in contestazione"; b3) una volta affermata la natura di atti generali e/o normativi, "l'onere di motivazione gravante sull'amministrazione può considerarsi soddisfatto con l'indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte predette, senza necessità di motivazione puntuale"; peraltro, "l'amministrazione ha un'ampia discrezionalità per quanto attiene le scelte di carattere generale, le quali costituiscono apprezzamenti di merito, sottratti al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiati da errori di fatto o da abnormi illogicità";
c) error in iudicando; legittimità della scelta di operare su un'unica categoria merceologica all'interno di quelle elencate; ciò in quanto "decidendo di aumentare l'aliquota solo in relazione a una o più categorie merceologiche, l'Autorità si muove proprio nell'intento di assicurare la competitività nei singoli porti di competenza, muovendo le leve di volta in volta necessarie al fine di assicurare tale risultato"; in tal senso, l'Autorità ha variato "le aliquote di quelle categorie merceologiche che meglio avrebbero permesso di fronteggiare la crisi di competitività dello scalo laziale"; inoltre "il corretto riparto del carico fiscale è rispettato, in quanto in relazione alla singola categoria in relazione alla quale l'aumento è disposto, il criterio di imputazione è comunque riferito in proporzione al quantitativo di merce imbarcata e sbarcata, mentre non si pone un problema di disparità di trattamento tra i vari operatori i quali operano in ambiti commerciali diversi";
d) error in iudicando, con riferimento all'efficacia temporale dei decreti; ciò in quanto: d1) la limitazione, ritenuta in sentenza, dell'efficacia del d.m. n. 182/2012 alla data del 6 gennaio 2013 "si pone in evidente contrasto con l'art. 1, comma 388, della l. n. 228/2012, che ha espressamente fissato al 30 giugno 2013 il termine di scadenza dei termini e dei regimi giuridici indicati nella Tabella 2 allegata alla legge medesima (tra i quali, al punto 7, rientra il regime in contestazione) ... l'espressa previsione normativa consentiva di ritenere le aliquote automaticamente aggiornate assicurandone l'efficacia fino al 30 giugno 2013"; d2) il decreto n. 308/2013 "pur datato 4 luglio 2013, è stato fatto decorrere dal 1° luglio 2013, nell'ottica della continuità normativa ed anche per evitare una vacatio di complessa gestione contabile";
e) error in iudicando; difetto di legittimazione passiva del Ministero per le infrastrutture e dei trasporti e dell'Agenzia delle Dogane; poiché la sentenza impugnata non ha deciso sulla proposta eccezione, con la quale si è affermato il predetto difetto di legittimazione passiva sia del Ministero, in quanto nessun atto del medesimo risulta impugnato, sia dell'Agenzia, competente solo all'accertamento e alla riscossione del tributo.
3. Si costituivano in giudizio le società appellate TotalErg s.p.a. e Raffineria di Roma s.p.a., che chiedevano il rigetto dell'appello, anche sotto il profilo di contestazione della giurisdizione.
È intervenuta ad opponendum Enel produzione s.p.a., chiedendo anch'essa il rigetto dell'appello, stante la sua infondatezza.
4.1. Con sentenza 29 febbraio 2016, n. 853, il Consiglio di Stato, Sez. IV, in accoglimento del primo motivo di appello, annullava la sentenza impugnata, dichiarando la giurisdizione del giudice tributario a conoscere la controversia.
Inoltre, la sentenza dichiarava l'inammissibilità dell'intervento spiegato da Enel Produzione s.p.a., poiché essa sarebbe stata legittimata ad impugnare autonomamente l'atto impugnato dal giudice di primo grado.
4.2. Proposto ricorso per cassazione, le Sezioni unite, con sentenza 27 dicembre 2017, n. 30991 hanno affermato la giurisdizione del giudice amministrativo, cassando la sentenza impugnata, con rinvio al Consiglio di Stato, per la decisione anche sulle spese.
Secondo la Suprema Corte, la determinazione delle aliquote, individuando un parametro generale utile alla quantificazione del debito di imposta, non può che rientrare nel novero degli atti generali, i quali esulano dalla giurisdizione del giudice tributario.
Ha precisato la Suprema Corte di cassazione:
"Il contenzioso tributario è concepito come processo impugnatorio di provvedimenti autoritativi; ed il provvedimento autoritativo impugnabile dinanzi al giudice tributario postula che con esso l'Amministrazione finanziaria comunichi al contribuente una pretesa tributaria ormai definita, ossia compiuta e non condizionata (Cass., Sez. un., 24 luglio 2007, n. 16293).
Non vi è spazio per l'impugnazione di atti che possono coinvolgere un numero indeterminato di soggetti con pronuncia avente efficacia nei confronti della generalità dei contribuenti (Cass., Sez. un., 18 aprile 2016, n. 7665).
E l'individuazione delle aliquote, che individua un parametro di valenza generale utile alla quantificazione del debito d'imposta, non può che rientrare nel novero di tali atti; è, difatti, la concreta quantificazione dell'imposta, ragguagliata, oltre che all'aliquota, alla base imponibile, a identificare la pretesa impositiva.
La controversia concernente i decreti di determinazione delle aliquote esula pertanto dalla giurisdizione delle commissioni tributarie, il potere di annullamento delle quali riguarda soltanto gli atti indicati dal d.lgs. n. 546 del 1992, art. 19 o a questi assimilabili".
5. Le amministrazioni appellanti hanno, dunque, proceduto con atto di riassunzione, chiedendo nuovamente l'accoglimento dei quattro motivi di appello "di merito" (riportati ante sub lett. b), c), d) ed e).
Hanno depositato atto di riassunzione anche la Italiana Petroli s.p.a. (già TotalErg s.p.a.) e la Raffineria di Roma s.p.a., che hanno concluso richiedendo il rigetto dell'appello, stante la sua infondatezza.
Dopo adempimenti istruttori ed il deposito di ulteriori memorie e repliche, all'udienza pubblica di trattazione la causa è stata riservata in decisione.
DIRITTO
6. L'appello è infondato e deve essere, pertanto, respinto, con conseguente conferma della sentenza impugnata.
6.1. Al fine di meglio chiarire il thema decidendum, appare opportuno precisare l'ordine logico-giuridico di esame delle questioni, come desunto dai motivi di appello, e precisamente - previa verifica della fondatezza (o meno) del quarto motivo di appello, come riassunto (sub lett. e) dell'esposizione in fatto):
- in primo luogo, occorre stabilire se il tipo di atto adottato dall'Autorità portuale per la ridefinizione della misura della tassa portuale per talune categorie necessiti di una propria motivazione, attesa la natura giuridica dello stesso, che la sentenza impugnata definisce come atto generale, se non normativo, ed al quale anche l'appellante propende ad attribuire natura regolamentare; e, laddove si convenga sulla necessità di una motivazione, se sia sufficiente che tale onere possa considerarsi soddisfatto con l'indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte predette, senza necessità di motivazione puntuale, ricordando altresì come le scelte in concreto effettuate appartengano al merito amministrativo e, come tali, sono insindacabili in sede di legittimità;
- in secondo luogo (e sempre che si concluda per la necessità della motivazione), se l'amministrazione debba motivare (e se in concreto ciò sia avvenuto in modo congruo), in ordine alla "scelta di operare su un'unica categoria merceologica all'interno di quelle elencate";
- in terzo luogo, laddove siano superati i dubbi in ordine alla legittimità degli atti impugnati sul piano motivazionale, occorre verificare la fondatezza dei motivi relativi alla esatta efficacia temporale dei decreti impugnati.
6.2. Deve essere, innanzi tutto, rigettato il motivo di appello (sub lett. e), con il quale gli appellanti lamentano la mancata pronuncia sulla eccezione di difetto di legittimazione passiva del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e dell'Agenzia delle dogane e dei trasporti.
Tali amministrazioni sono state correttamente evocate in giudizio, stante la sussistenza della loro legittimazione e del loro interesse a contraddire, posto che il Ministero, ancorché non abbia direttamente emanato gli atti impugnati, ha competenza e vigilanza nel settore e l'Agenzia delle dogane e dei Monopoli - come affermato anche in appello (pag. 27) - provvede all'accertamento ed alla riscossione del tributo e, pertanto, non è "insensibile" alla decisione del presente giudizio.
7.1. Come si è innanzi riportato, la sentenza impugnata, pur riconoscendo la inapplicabilità ai decreti impugnati di quanto previsto dall'art. 3, comma 2, l. n. 241/1990, stante "la loro natura quantomeno di atto generale (se non normativo)", ha tuttavia ritenuto sussistente "un onere motivazionale, ancorché attenuato, riveniente dalle norme attributive della potestà in argomento, che ne individuano lo scopo e introducono un vincolo (formale e sostanziale) rilevante sul piano economico-contabile".
A fronte di ciò, le amministrazioni appellanti rilevano una contraddittorietà nella motivazione della sentenza, laddove da un lato afferma l'applicabilità dell'esclusione dall'obbligo di motivazione dell'atto amministrativo, come prevista dal citato art. 3, comma 2, l. n. 241/1990, trattandosi di atti generali o (forse) regolamentari (ma ambedue comunque esentati dall'obbligo di motivazione) e, dall'altro lato, afferma sussistente una necessità di motivazione, cui l'amministrazione emanante non ha positivamente corrisposto.
La Corte di cassazione, pur affermando la giurisdizione del giudice amministrativo, non è entrata nel merito della qualificazione degli atti impugnati, essendo sufficiente, ai fini del proprio giudizio, escludere che la controversia riguardi provvedimenti autoritativi, con i quali l'Amministrazione finanziaria comunica al contribuente "una pretesa tributaria ormai definita, ossia compiuta e non condizionata" (il che avrebbe, invece, determinato la giurisdizione del giudice tributario).
Nel caso di specie, invece, sempre secondo la Cassazione, si tratta di "atti che possono coinvolgere un numero indeterminato di soggetti con pronuncia avente efficacia nei confronti della generalità dei contribuenti".
7.2. Appare evidente come, sia che ricorra la natura regolamentare dell'atto impugnato, sia che si tratti di atti generali, non mutano i termini della questione in esame, posto che il più volte richiamato art. 3, comma 2, l. n. 241/1990 prevede che "la motivazione non è richiesta per gli atti normativi e per quelli a contenuto generale".
Tuttavia, giova ricordare come questo Consiglio di Stato, nell'esaminare la distinzione tra regolamenti ed atti amministrativi generali, ha già avuto modo di affermare (C.d.S., Sez. IV, 16 febbraio 2012, n. 812) che il regolamento è definito atto amministrativo a contenuto normativo, poiché esso si presenta come atto formalmente amministrativo (in quanto adottato da una amministrazione pubblica), ma appartenente al novero delle fonti secondarie, stante il suo contenuto normativo, determinato dalla presenza di prescrizioni caratterizzate da generalità ed astrattezza, in grado di agire con carattere innovativo nell'ordinamento giuridico.
L'atto regolamento, dunque, si contraddistingue per i caratteri della generalità ed astrattezza delle proprie previsioni (pur con i limiti connessi all'uso di tali lemmi), poiché queste, per un verso, riguardano una pluralità indistinta e non determinabile di destinatari (potendosi, al massimo, circoscrivere pluralità o categorie di esse o collettività generali), il che ne determina, appunto, la "generalità"; per altro verso, tali previsioni si caratterizzano per la loro ripetibilità, e quindi applicabilità ad un numero indefinito di casi concreti (il che ne determina l'astrattezza).
La caratterizzazione in termini di generalità ed astrattezza delle previsioni del regolamento ne determina anche l'ulteriore, necessario carattere della efficacia verso l'esterno delle sue norme.
Proprio sul difetto di alcuno di tali requisiti viene tradizionalmente fondata la distinzione tra regolamenti e circolari (laddove queste ultime, pur aventi contenuto normativo, presentano tuttavia solo "norme interne", quindi caratterizzate da generalità ed astrattezza, ma prive del requisito dell'efficacia verso l'esterno); ovvero la distinzione tra regolamenti ed atti amministrativi generali, in quanto i secondi avrebbero efficacia esterna ma sarebbero privi del requisito della generalità, posta la determinabilità dei destinatari; ovvero ancora tra regolamenti e direttive (a seconda, tuttavia, della presenza o meno, in tale eterogenea categoria di atti, del requisito dell'efficacia verso l'esterno di eventuali previsioni normative).
Occorre, tuttavia, aggiungere che ciò che distingue i regolamenti dagli altri atti amministrativi generali (ad esempio, un bando di gara o di concorso) non è da rinvenirsi solo in aspetti formali (quali la autoqualificazione dell'atto come regolamento, ovvero il tipo di procedimento seguito per la sua adozione), ovvero nella circostanza che i destinatari di questi ultimi, in un primo tempo non determinabili, lo diventano in un momento successivo (e quindi nell'assenza di generalità); ma anche nella circostanza che gli atti amministrativi generali costituiscono espressione di potere della Pubblica Amministrazione volto alla cura di un interesse pubblico in riferimento ad un obiettivo concreto e determinato (la scelta del contraente, l'individuazione dei vincitori di un concorso da assumere), come tale destinato ad essere temporalmente circoscritto e strutturalmente esauribile.
Nel senso ora esposto, questo Consiglio di Stato (Sez. III, 27 gennaio 2009, n. 3900/2007), ha avuto modo di affermare che i regolamenti si distinguono dagli atti amministrativi generali e dai provvedimenti amministrativi in quanto questi ultimi costituiscono espressione di una semplice potestà amministrativa e sono diretti alla cura concreta di interessi pubblici, con effetti diretti nei confronti di una pluralità di destinatari non necessariamente determinati, ma determinabili.
In definitiva, la distinzione tra regolamenti ed atti amministrativi generali, oltre (e forse più) che fondarsi sulla definibilità o meno dei destinatari (apparendo questo aspetto una conseguenza, più che un presupposto), si determina con riferimento al distinto aspetto della astrattezza delle previsioni, e quindi con riferimento alla causa fondante l'esercizio del potere che, mentre nel caso dei regolamenti è individuabile nella predefinizione astratta della disciplina di un numero indefinito e non determinato nel tempo di casi rientranti nel "tipo normativo", nel caso degli atti amministrativi generali è invece rappresentata dal concreto perseguimento di un interesse pubblico, programmaticamente circoscritto e temporalmente definito.
Il che determina l'ulteriore conseguenza (e distinzione) che mentre l'efficacia dei regolamenti è - salvo diversa previsione di legge - temporalmente indefinita (ed abbisogna, per la sua cessazione, di un ulteriore atto normativo), nel caso degli atti generali l'efficacia degli stessi si esaurisce con il concreto raggiungimento dell'interesse pubblico, la cui cura ha costituito la causa giustificatrice dell'esercizio del potere.
La descritta efficacia temporale dei regolamenti consente anche di affermare, in adesione ad una risalente tradizione interpretativa, che gli stessi, già emanati per l'esecuzione della legge vigente in precedenza nella stessa materia, continuano a trovare applicazione anche per l'esecuzione della nuova legge, anche se questa non li dichiari ulteriormente applicabili e con esclusione invece del caso in cui la nuova legge ciò escluda espressamente, fermo il potere del giudice di procedere all'interpretazione (identificazione) delle norme della nuova legge che non trovino esplicazione nel vecchio regolamento. Ciò in quanto, diversamente opinando, si subordinerebbe l'attuazione della legge alla volontà dell'organo di esecuzione, con una chiara inversione dei rapporti tra organi costituzionali.
7.3. Alla luce di quanto innanzi esposto, nel caso di specie il Collegio ritiene che i decreti impugnati abbiano natura regolamentare, poiché essi - come affermato anche dalla Suprema Corte di cassazione - costituiscono "atti che possono coinvolgere un numero indeterminato di soggetti con pronuncia avente efficacia nei confronti della generalità dei contribuenti".
Ricorrono, infatti, entrambi i requisiti della generalità ed astrattezza, nei sensi innanzi esposti, poiché essi sono rivolti ad una pluralità indistinta e non determinabile di destinatari (ovvero ad una categoria circoscritta di questi; gli utenti dei servizi portuali) e contengono previsioni che si caratterizzano per la loro ripetibilità, e quindi applicabilità ad un numero indefinito di casi concreti.
Quanto ora esposto trova conferma nel testo di ambedue le disposizioni primarie sulle quali si fondano gli atti impugnati.
L'art. 5 d.l. 30 dicembre 2009, n. 194 (conv. in l. 26 febbraio 2010, n. 25), sulla base del quale è stato emanato il decreto n. 182/2012, prevede:
"(comma 7-undecies). "Al fine di fronteggiare la crisi di competitività dei porti nazionali, con riguardo anche all'attività prevalente di transhipment, le disposizioni relative all'adeguamento delle tasse e dei diritti marittimi di cui all'articolo 1, comma 989, lettera c), della legge 27 dicembre 2006, n. 296, e successive modificazioni, e di cui all'articolo 4, commi 1 e 2, del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 maggio 2009, n. 107, si applicano con decorrenza dal 1° gennaio 2012";
(comma 7-duodecies). "Nel rispetto delle finalità di cui al comma 7-undecies, in via sperimentale, per gli anni 2010, 2011 e 2012, nelle more della piena attuazione dell'autonomia finanziaria delle Autorità portuali ai sensi dell'articolo 1, comma 982, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, alle Autorità portuali è altresì consentito, nell'ambito della loro autonomia di bilancio e nel rispetto dell'equilibrio di bilancio, stabilire variazioni in aumento fino ad un tetto massimo pari al doppio della misura delle tasse di ancoraggio e portuale così come adeguate ai sensi del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 maggio 2009, n. 107, nonché in diminuzione fino all'azzeramento delle singole tasse medesime".
L'art. 22, comma 2, d.l. 21 giugno 2013, n. 69 (conv. in l. 9 agosto 2013, n. 98), sulla base del quale è stato emanato il decreto n. 308/2013, prevede:
(comma 2) "Nell'ambito della propria autonomia finanziaria, alle autorità portuali è consentito di stabilire variazioni in diminuzione, fino all'azzeramento, delle tasse di ancoraggio e portuale, così come adeguate ai sensi del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 maggio 2009, n. 107, nonché variazioni in aumento, fino a un limite massimo pari al doppio della misura delle tasse medesime. L'utilizzo delle entrate rivenienti dall'esercizio dell'autonomia impositiva e tariffaria delle autorità portuali, nonché la compensazione, con riduzioni di spese correnti, sono adeguatamente esposti nelle relazioni sul bilancio di previsione e nel rendiconto generale. Nei casi in cui le autorità portuali si avvalgano della predetta facoltà di riduzione della tassa di ancoraggio in misura superiore al settanta per cento, è esclusa la possibilità di pagare il tributo con la modalità dell'abbonamento annuale. Il collegio dei revisori dei conti attesta la compatibilità finanziaria delle operazioni poste in essere. Dall'attuazione delle disposizioni del presente comma non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica".
Ambedue le disposizioni ora riportate affidano alle Autorità portuali il compito di definire - mediante aumento (fino al doppio) o diminuzione (fino all'azzeramento) - la misura delle tasse di ancoraggio e portuali; le Autorità, dunque, hanno il potere di stabilire, in via generale, sia le categorie interessate (o meno) dall'aumento o dalla diminuzione, ovvero le categorie per le quali (mediante azzeramento della misura) si esclude l'applicazione stessa del tributo.
Ad esse, dunque, è attribuito un potere impositivo (con riferimento al quid, all'an ed al quantum dei predetti tributi stabiliti con legge) cui deve necessariamente riconoscersi natura normativa. Ciò, peraltro, senza che, in questo caso, la norma di legge definisca criteri e/o parametri di esercizio in concreto del potere normativo.
7.4. Stante la affermata natura normativa (regolamentare) degli atti impugnati, occorre quindi verificare se sussista (e, in caso positivo, se sia stato assolto dall'amministrazione adottante i decreti impugnati), un onere di motivazione dei predetti, onde chiarire e giustificare l'iter logico delle scelte effettuate.
Questa Sezione ha già avuto modo di occuparsi della potestà regolamentare in generale, e dei rapporti tra norma primaria che prevede l'esercizio di potestà regolamentare e regolamento, anche con riferimento alla indicazione di principi, criteri e limiti, ovvero al difetto di tale indicazione (C.d.S., Sez. IV, 10 luglio 2013, n. 3691; 16 febbraio 2012, n. 812; 28 febbraio 2012, n. 1120), e dalle considerazioni generali ivi espresse non vi è motivo di discostarsi nella presente sede.
Si è, in particolare, sostenuto che, a fronte delle diverse tipologie di regolamento - distinguibili sia in relazione all'Autorità emanante, sia in relazione alla funzione - il rapporto tra legge e regolamento non possa che ricevere una risposta diversificata.
Innanzi tutto, il conferimento espresso di potestà regolamentare e la contestuale indicazione di criteri e principi per il suo esercizio devono essere ritenuti obbligatori e come tale fondanti un presupposto di legittimità della stessa adozione dell'atto, nel caso di regolamenti di delegificazione, adottati ai sensi dell'art. 17, comma 2, della l. n. 400/1988.
In questo caso, laddove - come afferma la stessa Corte costituzionale (sent. 22 luglio 2002, n. 376) - il regolamento attua "la sostituzione di una disciplina di livello regolamentare ad una preesistente di livello legislativo"; una sottrazione di una materia alla preesistente disciplina della fonte primaria, con contestuale abrogazione delle norme di legge previgenti, non può essere priva di indicazioni (oggetto/materia, criteri e principi direttivi, limiti) volte a costituire un parametro, pur ampio e generico, per il successivo sindacato giurisdizionale di legittimità dell'atto da parte del giudice amministrativo, pena la violazione degli artt. 24 e 113 Cost.
In tal senso, lo stesso art. 17, comma 2, prevede che il legislatore, nel conferire al Governo la potestà regolamentare di delegificazione, deve indicare "le norme generali regolatrici della materia", con ciò escludendo, in via espressa, che la delegificazione comporti un affidamento "integrale" di una materia alla fonte secondaria, persistendo l'esigenza di sia pur minimi e generali riferimenti di rango primario; e con ciò affermando altresì, per implicito, che l'esercizio di detta potestà regolamentare debba essere limitato nella discrezionalità da criteri e principi dettati dal Legislativo all'Esecutivo.
A differenti conclusioni occorre, invece, giungere per le ipotesi di regolamenti di esecuzione, di attuazione e c.d. "indipendenti".
Nel caso di questi ultimi (art. 17, comma 1, lett. c), la stessa previsione legislativa, per un verso, risolve il problema della necessità della previa indicazione di legge quanto al possibile esercizio della potestà regolamentare; per altro verso, porta logicamente a concludere che il potere regolamentare possa essere esercitato in assenza di indicazione legislativa dei criteri e limiti, proprio perché il caso ipotizzato dal legislatore è quello delle "materie in cui manchi la disciplina da parte di leggi".
Restano, ovviamente, escluse da questa possibilità ora descritta, le materie "comunque riservate alla legge", intendendosi quelle sottoposte sia a riserva assoluta, sia a riserva relativa.
Pur non essendo questa la sede nella quale porsi il problema della (eventuale) illegittimità costituzionale dell'art. 17, comma 1, lett. c), è appena il caso di osservare come - rimarcata l'esclusione dall'ambito di tale disposizione delle materie sottoposte a riserva assoluta o relativa di legge - non è dato rinvenire, in Costituzione, l'esigenza per qualsivoglia materia di una previa ed indefettibile disciplina, in tutto o in parte, recata da legge (così come, argomentando a contrario, si evince proprio dalla stessa indicazione espressa della riserva di legge).
Infine, nella diversa ipotesi di regolamenti di esecuzione o di attuazione (e, ovviamente, nelle materie assoggettate a riserva relativa di legge), dove una previgente disciplina legislativa non può non esservi, occorre osservare che senza dubbio l'ordinata attuazione del sistema delle fonti auspica che tale esercizio venga espressamente previsto da legge (ciò è indispensabile per i regolamenti ministeriali, ex art. 17, comma 3; Corte cost., 21 maggio 1970, n. 79), e che sia accompagnato dall'indicazione di criteri e limiti.
Tuttavia, laddove tale indicazione risulti assente o insufficiente, ciò non comporta necessariamente l'illegittimità costituzionale della norma primaria "carente", per violazione della riserva di legge. Ed infatti:
- per un verso, la stessa riconosciuta sussistenza di una potestà regolamentare generale (anche implicitamente) attribuita alla Pubblica Amministrazione, nella misura in cui esclude la necessità della previa autorizzazione legislativa all'adozione dei regolamenti (C.d.S., Sez. atti norm., 7 giugno 1999, n. 107), non può che a fortiori escludere anche la necessità di predisposizione di criteri e limiti per il suo esercizio;
- per altro verso, ritenendo necessaria detta previa indicazione, si finirebbe per "irrigidire" oltre misura il sistema delle fonti, dovendosi affermare che, ogni qualvolta tale indicazione non vi sia o sia insufficiente, non sarebbe possibile attuare un (pur necessario) completamento dell'assetto normativo.
D'altra parte, la stessa Corte costituzionale tende a delimitare la necessità di previa definizione di criteri e limiti, anche nei casi di materia sottoposta a riserva relativa di legge. Come afferma la sentenza 20 maggio 1996, n. 157, in riferimento alle prestazioni imposte di cui all'art. 23 Cost.:
"Secondo la giurisprudenza costituzionale, il principio della riserva di legge di cui al menzionato precetto della Costituzione, in tema di prestazioni imposte, va inteso in senso relativo, ponendo l'obbligo per il legislatore di determinare preventivamente e sufficientemente criteri direttivi di base e linee generali di disciplina della discrezionalità amministrativa, tanto che la Corte ha già avuto occasione di affermare che non contrasta con tale principio l'assegnazione ad organi amministrativi non solo di compiti meramente esecutivi, bensì anche di quello di determinare elementi, presupposti o limiti, variamente individuabili, della prestazione stessa, sulla base di dati e valutazioni di ordine tecnico (sentenze n. 129 del 1969 e n. 27 del 1979). Né tale principio può ritenersi violato, anche in assenza di una espressa indicazione legislativa dei criteri, dei limiti e dei controlli che delimitano l'ambito di discrezionalità della pubblica amministrazione, quando gli stessi siano desumibili dalla composizione e dal funzionamento degli organi competenti a determinare la misura della prestazione di cui trattasi (sentenze n. 4 del 1957; n. 51 del 1960; n. 5 del 1963; n. 21 del 1969; e n. 67 del 1973) ovvero quando esista, per l'emanazione dei provvedimenti amministrativi concernenti la prestazione medesima, un modulo procedimentale con il quale venga a realizzarsi la collaborazione di una pluralità di organi al fine di escludere eventuali arbitrii dell'amministrazione (sentenza n. 507 del 1988)".
Se, quindi, può affermarsi che un regolamento di esecuzione, per il quale la legge abbia omesso di fissare criteri e limiti per l'esercizio della potestà regolamentare che ha portato alla sua adozione, non è da considerare per ciò solo illegittimo, nondimeno occorre che il giudice operi una attenta ricostruzione del parametro normativo di riferimento, e ciò al fine di evitare che sia impedito o reso difficoltoso (se non evanescente) il sindacato giurisdizionale con riferimento al vizio di violazione di legge.
In presenza di un mero regolamento di esecuzione, dunque, il sindacato di legittimità sulle disposizioni del medesimo si risolve in una ipotesi di sindacato giurisdizionale sull'atto amministrativo, per il quale il parametro di legittimità è offerto dalle norme primarie, ed innanzi tutto da quelle su cui si fonda l'esercizio della potestà regolamentare e da quelle cui il regolamento è destinato a dare attuazione (e sui principi da esse desumibili), ma è offerto anche da quelle norme costituzionali e del diritto dell'Unione europea, alle quali può essere riconosciuto un contenuto precettivo.
È, dunque, nel contesto delle indicazioni normative primarie, della disciplina generale che regola una determinata materia e delle indicazioni che emergono, in sede procedimentale, al fine di giustificare il modus operandi dell'amministrazione cui è conferito un potere normativo (in presenza di indicazioni "tenui" o assenti in sede legislativa), che deve essere ricercato il parametro della legittimità (o meno) dell'atto normativo emanato.
Diversamente considerando:
- per un verso, verrebbe meno il fondamentale principio di cui all'art. 117, comma primo, Cost., che, se pure riferito alla potestà legislativa (la quale "è esercitata nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali"), nondimeno è suscettivo di più generale applicazione, con più ampio riferimento alla potestà normativa. E ciò si verificherebbe a maggior ragione laddove la lacunosità della norma primaria (insieme ad una ritenuta inapplicabilità del citato art. 117, primo comma, ai regolamenti) consentirebbe l'aggiramento del precetto costituzionale;
- per altro verso, ne verrebbe pregiudicato il diritto alla tutela giurisdizionale delle posizioni soggettive, ex artt. 24 e 113 Cost., sia in quanto, per un verso, il sindacato giurisdizionale sui regolamenti è escluso da parte della Corte costituzionale e, al contempo, si presenta estremamente labile (per difetto o insufficienza di parametro legislativo), da parte del giudice amministrativo; sia in quanto - laddove si volesse seguire la tesi della sindacabilità da parte della Corte della legge priva di un minimo contenuto prescrittivo - si costringerebbe la parte ad attendere il giudizio di costituzionalità della norma primaria, sulla quale (malamente) si fonda la potestà concretizzatasi nell'emanazione del regolamento ritenuto lesivo.
In conclusione, l'assenza di indicazione, da parte della norma primaria, di criteri e limiti all'esercizio della potestà regolamentare, anche nei casi di materia sottoposta a riserva relativa di legge, non determina - necessariamente ed automaticamente - la (possibile) illegittimità costituzionale della norma che, pur prevedendo la successiva adozione di un regolamento, non prevede al tempo stesso detti criteri e limiti, e quindi la necessità di rimessione da parte del giudice a quo della questione all'esame della Corte costituzionale.
Viceversa, tale assenza di indicazioni si risolve in una diversa articolazione (nei sensi sopra esposti) del sindacato giurisdizionale sulla legittimità del regolamento.
7.5. Da quanto esposto consegue la necessità di una corretta lettura dell'art. 3, comma 2, l. n. 241/1990 che, nell'escludere l'obbligo di motivazione per gli atti normativi e a contenuto generale, si riferisce a quegli atti che trovano già nella norma primaria il parametro di verifica della loro legittimità (in particolare, con riferimento ad atti amministrativi a contenuto normativo, quali i regolamenti di esecuzione), ovvero trovano il fondamento della loro emanazione in precedenti e presupposti atti amministrativi, dove l'amministrazione dà conto delle ragioni che la determinano all'adozione di un atto a contenuto generale (come avviene, ad esempio, nel caso di bandi di gara o di concorso).
Nel caso in cui, invece, l'esercizio del potere normativo dell'amministrazione non risulta sorretto da chiare e pregnanti indicazioni e criteri da parte della norma primaria, occorre che sia lo stesso potere normativo a "giustificare", all'atto del suo esercizio, le ragioni delle scelte effettuate e delle norme introdotte.
Ove si ritenesse diversamente, si perverrebbe non già all'esercizio di un potere amministrativo latamente discrezionale, bensì all'esercizio di un potere amministrativo (normativo) sostanzialmente "libero", non coerente con l'assetto costituzionale, e che renderebbe evanescente se non assente il sindacato giurisdizionale (in violazione degli artt. 24 e 113 Cost.), con la conseguente necessità (laddove si negasse, o si rendesse in concreto impossibile, il sindacato giurisdizionale come innanzi definito) di rimettere alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale della norma primaria.
Come questa Sezione ha già avuto modo di affermare (proprio con riferimento ad atti aventi natura normativa dell'amministrazione finanziaria: C.d.S., Sez. IV, 28 febbraio 2012, n. 1120):
"si è già affermata la piena sindacabilità (e dei parametri a tali fini utilizzabili) dei regolamenti da parte del giudice amministrativo, anche laddove la legge non abbia indicato criteri e limiti, quindi non provvedendo a circoscrivere la discrezionalità dell'esercizio della potestà regolamentare.
Una diversa conclusione - così come quella cui è pervenuta la sentenza appellata - nella misura in cui si risolve in una sostanziale insindacabilità dell'atto-fonte, che quelle "scelte di politica economica e fiscale" concretizza, si pone a tutta evidenza in contrasto con la natura di atto amministrativo (e quindi pienamente sindacabile) riconosciuta al regolamento, e con quanto affermato, in tema di tutela dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi avverso gli atti amministrativi, dall'art. 113, commi primo e secondo, Cost.".
8.1. Alla luce di quanto esposto, non può essere accolto il motivo di appello sub lett. b), poiché - attesa la peculiarità delle norme primarie che hanno conferito all'amministrazione il potere di determinare diversamente le tasse di ancoraggio e portuali, senza particolare indicazione di criteri - deve essere ritenuto sussistente un "onere di motivazione" dell'amministrazione nell'atto frutto di esercizio di un siffatto potere normativo, onde consentirne la sindacabilità (ed è la stessa amministrazione a riconoscere la natura regolamentare dell'atto: pag. 11 app.).
Non può convenirsi con parte appellante nemmeno laddove afferma che "l'onere di motivazione gravante sull'amministrazione può considerarsi soddisfatto con l'indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte predette, senza necessità di motivazione puntuale", dato che "l'amministrazione ha un'ampia discrezionalità per quanto attiene le scelte di carattere generale, le quali costituiscono apprezzamenti di merito, sottratti al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiati da errori di fatto o da abnormi illogicità".
Una motivazione condotta sul filo della "indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte" può essere ritenuta sufficiente laddove le "scelte" sono anch'esse a carattere "generale", toccando in modo più o meno indifferenziato la totalità dei destinatari (nel caso di specie, gli utenti dei servizi portuali); invece, essa non può che esigere un maggiore livello di specificità laddove (come nel caso oggetto del presente giudizio) la "scelta" tocca solo una parte dei potenziali destinatari, creando in tal modo una "parte" distaccata dalla generalità cui la norma ordinariamente si riferisce, dovendo dunque giustificare le ragioni che la sorreggono.
Né si può invocare l'insindacabilità del merito amministrativo (nel cui ambito la "scelta" normativa rientrerebbe), poiché, in assenza di indicazioni normative primarie, il difetto di indicazione dei criteri e delle ragioni delle scelte renderebbe il potere esercitato non già discrezionale, ma libero.
8.2. Affermata l'esigenza di motivazione (da rinvenirsi anche nel complesso degli atti del procedimento), occorre in concreto verificare se la stessa si evinca, come sostenuto dalle amministrazioni appellanti (con ulteriore profilo del motivo sub lett. b), dalla delibera del Comitato portuale n. 75 del 2012, cui il decreto rinvia per relationem, e della memoria allegata alla stessa.
Secondo parte appellante, la delibera "consente di risalire sia alle problematiche connesse alla possibilità di concreta attuazione dell'autofinanziamento dell'Autorità portuale, sia alla necessità, in assenza di altre fonti di finanziamento e soprattutto a causa dei ritardi attuativi delle norme sull'aggiornamento dei diritti e delle tasse portuali, di aumentare le tasse portuali al fine di far fronte al complesso Piano di investimenti già approvato nei mesi precedenti, dando in tal modo ampia evidenza delle ragioni per cui l'Autorità si sia trovata a dover adottare l'aumento in contestazione".
Orbene, la delibera del Comitato portuale n. 75/2012 si limita a disporre, a decorrere dal 1° luglio 2012, l'aumento del 100% della tassa portuale per le voci merceologiche previste al punto 3 della Tabella delle aliquote allegata al d.P.R. n. 107/2009, e precisamente al carbone e agli olii minerali alla rinfusa, con esclusione dei laterizi.
E ciò in accoglimento di quanto proposto nella memoria allegata per sopperire alla diminuzione delle entrate correnti che non consente di mantenere gli impegni assunti nel Piano operativo triennale.
Nella documentazione ora citata (ed alla quale si riferisce parte appellante), se vi è chiaramente espressa l'esigenza di far fronte ad una diminuzione delle entrate, non vi è alcuna motivazione che renda conto della scelta, ai fini della rideterminazione dell'aliquota della tassa portuale:
- di considerare una sola delle categorie merceologiche previste (ed in disparte ogni considerazione in ordine alla possibilità di considerare una o più delle predette categorie, ma non tutte);
- nell'ambito di tale categoria, di considerare solo alcune e non tutte le merci ivi contemplate;
- della misura dell'aumento disposto.
Ciò che sembra evincersi dagli atti in esame è solo l'esigenza di ripristinare un livello di entrate correnti coerente con il Piano operativo triennale, ma nulla è detto in ordine ai metodi prescelti per fronteggiare tale esigenza.
Appare, dunque, evidente come le disposizioni normative adottate non risultano sorrette da idonea motivazione che chiarisca e giustifichi il potere esercitato.
Come condivisibilmente affermato dalla sentenza impugnata, le motivazioni espresse dal Comitato portuale - e recepite dal decreto n. 182/2012 - "non consentono di percepire l'effettiva preordinazione del concreto innalzamento delle tasse all'effettuazione degli interventi previsti nel documento programmatorio"; ciò in quanto "l'Autorità avrebbe dovuto dare conto oltre che della presumibile entità delle risorse da reperire per colmare l'asserito gap finanziario in vista dell'effettuazione (in tutto o in parte e secondo le ritenute tempistiche) delle inerenti spese (c.d. quadro esigenziale), anche di un'ipotesi sul gettito derivante dall'aumento dei coefficienti ... in modo da evidenziare quantomeno l'esistenza di un nesso (sebbene non in termini di esatta coincidenza) tra le due poste finanziarie"; altrimenti "il generico riferimento agli investimenti degli enti portuali rischierebbe di divenire una clausola di stile, con impossibilità di verifica del perseguimento degli scopi indicati dalla legge".
Altrettanto condivisibile è la sentenza, laddove ritiene illegittima la scelta dell'amministrazione "di incidere unicamente su una delle categorie indicate dalla norma impositiva", poiché l'intendimento del legislatore è quello "di considerare il sistema dei porti nazionali in modo unitario".
Ed in ogni caso, anche a voler considerare in astratto legittimo e possibile incidere su una sola categoria, appare evidente come occorra indicare specificamente le ragioni che determinano tale scelta; e ciò manca del tutto negli atti impugnati.
Né può essere condiviso quanto sostenuto dalle appellanti, laddove affermano (motivo sub lett. c) che l'Autorità ha variato "le aliquote di quelle categorie merceologiche che meglio avrebbero permesso di fronteggiare la crisi di competitività dello scalo laziale"; ed inoltre che "il corretto riparto del carico fiscale è rispettato, in quanto in relazione alla singola categoria in relazione alla quale l'aumento è disposto, il criterio di imputazione è comunque riferito in proporzione al quantitativo di merce imbarcata e sbarcata, mentre non si pone un problema di disparità di trattamento tra i vari operatori i quali operano in ambiti commerciali diversi".
Tale condivisione non è possibile, sia in quanto non è ammissibile una "integrazione postuma" della motivazione, sia in quanto il criterio di imputazione riferito al quantitativo di merce imbarcata e sbarcata altro non è che l'ordinario metodo di applicazione di una aliquota di tassazione; sia in quanto la "disparità di trattamento" è proprio rappresentata dal fatto di avere fatto oggetto di aumento della tassazione solo gli operatori di un determinato settore, lasciando indenni tutti gli altri.
9. Per tutte le ragioni sin qui esposte, il primo ed il secondo motivo di appello, come riassunto (sub lett. b) e c) dell'esposizione in fatto) devono essere rigettati, stante la loro infondatezza.
Ciò esime il Collegio dall'esaminare il terzo motivo (sub lett. d) dell'esposizione in fatto), da ritenersi assorbito.
Dal rigetto dell'appello consegue la conferma della sentenza impugnata.
Stante la natura e complessità delle questioni trattate, sussistono giusti motivi per compensare tra le parti spese ed onorari del presente grado di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull'appello r.g. n. 2837/2015, proposto da Autorità portuale di Civitavecchia, Fiumicino e Gaeta (ora Autorità di sistema portuale del mar Tirreno centro settentrionale), lo respinge e, per l'effetto, conferma la sentenza impugnata.
Compensa tra le parti spese ed onorari del presente grado di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.