Corte di cassazione
Sezione III civile
Sentenza 2 luglio 2021, n. 18808

Presidente: Sestini - Estensore: Iannello

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza n. 2592 del 1994 della Corte d'appello penale di Milano, divenuta definitiva, Graziella P. venne dichiarata responsabile del reato di associazione per delinquere finalizzata alla commissione dei reati di turbata libertà degli incanti, truffa e corruzione (reati fine dichiarati prescritti) e condannata, in solido con terzi, al risarcimento dei danni in favore del Comune di Busto Arsizio, da liquidarsi in sede civile. In forza di tale sentenza il Comune iscrisse ipoteca su diverse unità immobiliari di proprietà della predetta.

Ne scaturirono tre giudizi civili, instaurati in tempi diversi, tra il 2013 e il 2014, davanti al Tribunale di Busto Arsizio.

Il primo e il terzo vennero promossi dalla P. e furono diretti, rispettivamente, per quanto ancora in questa sede interessa:

- (il primo) all'accertamento della illegittimità dell'iscrizione ipotecaria per essere il credito risarcitorio già prescritto al momento in cui essa venne eseguita (domanda cui il Comune oppose l'esistenza di atto interruttivo);

- (il terzo) parimenti all'accertamento della illegittimità dell'iscrizione ipotecaria perché relativa a credito da considerarsi già a quel momento prescritto (in ragione dell'inidoneità della raccomandata del 23 marzo 2005 a produrre effetti interruttivi della prescrizione, poiché inviata da soggetto all'epoca privo di laurea) e, comunque, estinto, ai sensi dell'art. 1301 c.c., per effetto della remissione operata nei confronti di altro condebitore in solido, in subordine chiedendosi la detrazione dal credito risarcitorio, per effetto di tale remissione, delle quote di entrambi o almeno di uno solo degli altri condebitori e la conseguente riduzione delle ipoteche (a tale domanda il Comune resistette, eccependone, tra l'altro, l'inammissibilità per abuso del processo).

Il secondo giudizio, in ordine di tempo, venne invece promosso dal Comune di Busto Arsizio per la condanna della P. al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti in conseguenza dell'accertato delitto, quello non patrimoniale in particolare derivante da dedotto danno all'immagine. Costituendosi in tale giudizio, Graziella P. eccepì, tra l'altro, l'intervenuta prescrizione del vantato credito risarcitorio - in quanto la lettera del 23 marzo 2005 (quella stessa menzionata anche nel terzo giudizio) era stata sottoscritta dal Direttore generale e non dal Sindaco o da Dirigenti del competente settore - e il concorso del fatto colposo del danneggiato.

2. Riuniti i giudizi il Tribunale pronunciò in data 9 agosto 2016 sentenza parziale con la quale, per quanto ancora qui interessa: condannò Graziella P. al risarcimento dei danni subiti dal Comune, liquidati in euro 207.190,45 oltre interessi e rivalutazione, al netto della riduzione operata, ex art. 1227, comma primo, c.c. per il riconosciuto concorso della P.A. nella causazione del danno; rigettò la domanda di cancellazione delle ipoteche (avendo ritenuto inammissibili le domande in tal senso formulate dalla P. nel terzo dei giudizi riuniti, in quanto proposte solo per aggirare le decadenze verificatesi nei primi due giudizi); ordinò la rimessione della causa sul ruolo per valutare se il valore dei beni ipotecati dal Comune superasse di un terzo l'importo del credito.

Quindi, all'esito di tale incombente, il Tribunale rese sentenza definitiva in data 26 luglio 2017 - non impugnata e passata in giudicato - con la quale rigettò le residue domande, onerando la P. delle spese tutte di lite.

3. Con la sentenza in epigrafe la Corte d'appello di Milano ha rigettato il gravame interposto dalla P. avverso la sentenza parziale, confermando la valutazione di inammissibilità delle domande formulate nel terzo giudizio e rigettando i motivi (terzo e quinto) con i quali, rispettivamente, si contestava l'esistenza di un danno risarcibile quale conseguenza del reato associativo e si chiedeva la riduzione della percentuale di danno posta a carico dell'appellante (pari al 70%) in rapporto a quella residua riconosciuta, ex art. 1227 c.c., a carico di funzionari dello stesso Comune (tali G. e M.).

In parziale accoglimento di quello incidentale ha invece riconosciuto in capo al Comune anche la sussistenza di un danno non patrimoniale da lesione del diritto all'immagine, condannando conseguentemente la predetta al pagamento, a titolo di risarcimento, dell'ulteriore importo di euro 30.000, oltre interessi e rivalutazione.

3.1. Con riferimento al primo tema di lite ha in particolare osservato che la ritenuta inammissibilità trovava giustificazione nella «identità tra le prime due e la terza causa. Medesimo il petitum, consistente nella richiesta di cancellazione delle iscritte ipoteche; medesima altresì la causa petendi».

Hanno infatti rilevato i giudici d'appello che - causa petendi essendo nella specie rappresentata «sin dalla prima causa, e poi nella comparsa di costituzione nella seconda», dalla dedotta estinzione del credito risarcitorio - non sono state formulate modifiche tempestive nei termini di cui all'art. 183 c.p.c.; diversi sono bensì i fatti materiali addotti a sostegno dell'affermazione di estinzione (l'inesistenza di atto interruttivo, ovvero la sua inidoneità, od ancora, la remissione del debito a condebitore solidale) ma essi non valgono ad «immutare la conclusione che il fatto giuridico dedotto è sempre il medesimo».

Da qui la conclusione che «l'unica domanda, di accertamento dell'estinzione del credito dell'Amministrazione comunale, sia stata inammissibilmente frammentata in una pluralità di iniziative processuali».

Hanno in tal senso ritenuto di poter trarre argomenti dal consolidato principio secondo cui il giudicato sostanziale copre non soltanto l'esistenza del credito azionato, del rapporto di cui esso è oggetto e del titolo su cui il credito ed il rapporto stessi si fondano, ma anche l'inesistenza di fatti impeditivi, estintivi e modificativi del rapporto e del credito, precedenti e non dedotti.

Altro argomento hanno reputato di poter trarre dal principio affermato - nel «contiguo tema della modificabilità della domanda nei termini di cui all'art. 183 c.p.c.» (così in sentenza) - da Cass., Sez. un., 15 giugno 2015, n. 12310, avendo questa evidenziato come l'ammissibilità della modifica determini una maggiore economia processuale ed una migliore giustizia sostanziale, la concentrazione nello stesso processo e dinanzi allo stesso giudice delle controversie aventi ad oggetto la medesima vicenda sostanziale, e limiti l'eventualità di contrasto tra giudicati.

3.2. Con riferimento al secondo tema (sussistenza di danno risarcibile in conseguenza del reato associativo) - premesso «in via generale» che, ai fini del risarcimento del danno morale, non è necessario che il fatto reato sia effettivamente esistente in tutti i suoi elementi penalmente rilevanti o che sia punibile, ma soltanto che quel fatto possa astrattamente configurarsi come illecito penale con la conseguenza che il risarcimento può essere accordato anche nel caso di estinzione per prescrizione del reato - ha osservato che il Comune ha riportato un danno eziologicamente riferibile all'azione del soggetto attivo del reato, con la conseguenza che, ove un reato si inquadri nel piano criminoso di una associazione per delinquere, la vittima del reato fine ha titolo per il risarcimento sia per il reato fine che per quello associativo, avendo la giurisprudenza penale di questa Corte in particolare chiarito, al riguardo, che «distinguere fra danno diretto (derivante dal solo reato fine) e danno indiretto (derivante dal reato cui si chiede il risarcimento sia collegato, sulla base di un nesso di derivazione associativo) non appare corretto proprio perché si finirebbe per non considerare l'effetto moltiplicatore (in termini di gravità del reato) e, pertanto, diretto che deriva dalla circostanza che quel reato fine è stato commesso nell'ambito di un'associazione. Il danno, quindi, proprio perché i due reati risultano collegati ... non può che derivare - in modo diretto - da entrambi (Cass. pen., Sez. 2, Sentenza n. 4380 del 13 gennaio 2015, dep. 30 gennaio 2015, Rv. 262371; id., Sez. 6, Sentenza n. 7259 del 4 novembre 2004, dep. 24 febbraio 2005, Rv. 231210)».

3.3. Quanto alla richiesta di una diversa commisurazione percentuale del debito risarcitorio ha rilevato che, dalla lettura della sentenza penale, emergeva che Graziella P. era capo e promotore dell'associazione criminale finalizzata alla corruzione e turbativa d'asta, ed era sotto il profilo sostanziale la maggiore beneficiaria delle pratiche illecite instaurate, con la conseguenza che corretta doveva ritenersi una ripartizione che tenesse conto della specificità e centralità del suo ruolo nell'ambito del reato associativo.

3.4. Quanto infine al riconosciuto danno non patrimoniale da lesione del diritto all'immagine ha rilevato che «la condotta penalmente rilevante, tenuta dall'amministratore di una persona giuridica nell'esercizio delle proprie funzioni, è di per sé idonea a legittimare la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale ed all'immagine proposta dall'ente, a prescindere dalla circostanza che i fatti commessi dal responsabile abbiano avuto o meno diffusione sui mezzi di informazione», soggiungendo che «nel caso in esame consta vi sia stata anche una certa diffusione della notizia, quanto meno in ambito locale, poiché le sentenze penali di primo e secondo grado danno conto della presenza di numerosi testimoni ai fatti, poi chiamati a deporre».

4. Avverso tale decisione Graziella P. propone ricorso per cassazione affidato a quattro motivi, cui resiste l'intimato, depositando controricorso.

Chiamata la causa all'adunanza camerale del 3 luglio 2020, all'esito della stessa questa Corte, con ordinanza interlocutoria n. 23645 del 27 ottobre 2020, ritenuta la rilevanza nomofilattica della questione posta con il primo motivo, ne ha disposto, ai sensi dell'art. 375, ultimo comma, c.p.c., la trattazione in pubblica udienza.

Il controricorrente ha depositato memoria.

Il P.M. ha concluso chiedendo il rigetto del primo motivo di ricorso proposto e la declaratoria di inammissibilità, ed in subordine il rigetto, degli altri motivi di ricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Si dà preliminarmente atto che per la decisione del presente ricorso, fissato per la trattazione in pubblica udienza, questa Corte ha proceduto in camera di consiglio, senza l'intervento del procuratore generale e dei difensori delle parti, ai sensi dell'art. 23, comma 8-bis, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito dalla l. 18 dicembre 2020, n. 176, non avendo alcuna delle parti né il Procuratore generale fatto richiesta di trattazione orale.

2. Con il primo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell'art. 360, comma primo, nn. 3 e 5, c.p.c., violazione o falsa applicazione degli artt. 132, comma secondo, n. 4, e 183 c.p.c. e/o vizio di motivazione, in relazione al rigetto dei primi due motivi di gravame con i quali essa aveva censurato la valutazione di inammissibilità delle domande formulate con l'atto introduttivo del terzo giudizio, poiché identiche a quella proposta nel primo, salvo che per le ragioni di fatto che ne erano poste a fondamento.

Contesta, in tal senso, anzitutto l'identificazione della causa petendi con l'estinzione del credito risarcitorio, osservando che, secondo la giurisprudenza della S.C., «per causa petendi idonea a identificare la domanda della parte devono intendersi non le ragioni giuridiche addotte a fondamento della pretesa avanzata in giudizio bensì l'insieme delle circostanze di fatto poste a base di questa».

Rileva inoltre che l'arresto di Cass., Sez. un., n. 12310 del 2015 richiamato a fondamento della affermata inammissibilità della frammentazione della medesima domanda in una pluralità di iniziative processuali è stata pronunciata oltre un anno dopo l'instaurazione del terzo dei giudizi de quibus e che, in precedenza, era prevalente l'opposto orientamento secondo cui il mutamento della causa petendi determinava mutamento della domanda, tale da renderla improponibile, nel medesimo giudizio, trattandosi di mutatio libelli e non di semplice emendatio. Evidenzia che, proprio in ossequio a tale indirizzo, ella, venuta a conoscenza di ulteriori e nuovi fatti estintivi del credito risarcitorio vantato nei suoi confronti, ritenuti gli stessi idonei a modificare la causa petendi delle vertenze già in essere, si determinava a instaurare un nuovo giudizio.

3. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell'art. 360, comma primo, nn. 3 e 5, c.p.c., violazione o falsa applicazione degli artt. 132, comma secondo, n. 4, c.p.c., e 2947 c.c. e/o vizio di motivazione, in relazione al rigetto del terzo motivo d'appello con il quale ella aveva chiesto accertarsi che nulla fosse dovuto al Comune di Busto Arsizio a titolo di risarcimento del danno derivante dal reato di cui all'art. 416 c.p. o, quantomeno, del danno derivante dai reati di turbata libertà d'incanti, di corruzione e di truffa.

Rileva, in sintesi, che la giurisprudenza penale richiamata in sentenza affrontava il diverso problema della ammissibilità di costituzione di parte civile sia per il reato fine che per quello associativo, laddove nella specie si verteva sulla successiva azione civile per il risarcimento e la quantificazione dei danni eventuali.

Osserva al riguardo che, essendo prescritto, come evidenziato fin dalla sentenza di primo grado, il diritto al risarcimento del danno derivante dai reati di turbata libertà d'incanti, di corruzione e di truffa (reati fine), rimane irrilevante che non lo sia invece quello al risarcimento del danno derivante dal reato di associazione per delinquere, dal momento che trattasi di danno discendente dal collegamento del reato associativo con i reati fine, con la conseguenza che, se è prescritto il diritto al risarcimento del danno derivante dai reati fine, «tale diritto deve considerarsi prescritto anche con riferimento al danno da associazione a delinquere».

4. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell'art. 360, comma primo, nn. 3 e 5, c.p.c., violazione o falsa applicazione degli artt. 132, comma secondo, n. 4, c.p.c., e 1227 c.c. e/o vizio di motivazione, in relazione al rigetto del quinto motivo d'appello con il quale ella aveva chiesto «la riduzione della percentuale di danno stabilita a proprio carico ex art. 1227 c.c.».

Contro le argomentazioni sul punto svolte in sentenza, osserva che essa non poteva aver avuto una posizione superiore a quella del G. che ricopriva l'importante carica di assessore ai lavori pubblici e dell'ing. M. che era a capo del settore strade, atteso che, senza l'apporto dell'uno e dell'altro, non avrebbe potuto rendersi aggiudicataria delle gare poi oggetto del processo penale.

Osserva inoltre che, ai fini di tale valutazione, il giudice civile deve procedere a un autonomo accertamento dei fatti e della responsabilità con pienezza di cognizione, non essendo vincolato alle soluzioni e alle qualificazioni del giudice penale.

5. Con il quarto motivo deduce, infine, ai sensi dell'art. 360, comma primo, nn. 3 e 5, c.p.c., violazione o falsa applicazione dell'art. 132, comma secondo, n. 4, c.p.c., e/o vizio di motivazione, in relazione al riconoscimento, in capo a controparte, anche di un danno non patrimoniale risarcibile da lesione del diritto all'immagine.

Lamenta, in sintesi, che la Corte ha immotivatamente ritenuto sussistente la diffusione della notizia del reato, pur in mancanza di prova, con palese difetto di motivazione, rilevabile anche in punto di quantificazione del danno.

6. L'illustrazione del primo motivo rende ininfluente l'erroneo riferimento, nella intestazione, alla previsione di cui ai nn. 3 e 5, anziché al n. 4 del primo comma dell'art. 360 c.p.c. (v. Cass., Sez. un., 24 luglio 2013, n. 17931), evidenziando in modo sufficientemente chiaro che quello che si intende con esso denunciare è un error in procedendo, in tesi ricadente nell'affermazione, confermativa di quella resa dal primo giudice, della inammissibilità della domanda, svolta nel terzo dei giudizi riuniti, di accertamento della estinzione del credito risarcitorio fatto valere dal Comune nel secondo giudizio, per effetto: a) della prescrizione del credito medesimo; b) della remissione operata nei confronti di altro condebitore in solido.

Tale censura è fondata, nei termini qui di seguito precisati.

6.1. L'affermazione, contenuta in sentenza, secondo cui l'identità delle domande proposte con l'atto introduttivo del terzo giudizio rispetto a quella già svolte nel primo (oltre che con le questioni proposte in via di eccezione nel secondo giudizio), renderebbe inammissibile quella successivamente proposta - e ciò perché «l'unica domanda, di accertamento dell'estinzione del credito, sarebbe in tal modo "inammissibilmente frammentata in una pluralità di iniziative processuali"» - appare, invero, frutto di un inquadramento sommario della fattispecie e, al contempo, di una analisi insoddisfacente degli indicatori rinvenibili dal sistema.

6.1.1. È improprio il richiamo, a supporto di tale regola di giudizio, del principio secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile, atteso che non viene neanche ipotizzata nella specie la formazione, sul tema oggetto della prima domanda, di alcun giudicato, postulandosi anzi il contrario nel momento in cui si riferisce che i tre giudizi in questione sono stati riuniti e successivamente definiti con unica sentenza, fatta segno di tempestivo gravame a sua volta deciso con la sentenza qui impugnata.

6.1.2. Sarà forse utile al riguardo rimarcare che l'esistenza di un giudicato, opponibile in questa sede, sulla sussistenza e sull'entità del credito risarcitorio non potrebbe ricavarsi, a posteriori, dalla mancata impugnazione della sentenza definitiva resa dal tribunale in data 26 luglio 2017 sul residuo tema della eccedenza o meno del valore dei beni ipotecati, rispetto all'importo del credito per il quale l'ipoteca è stata iscritta.

Quand'anche tale sentenza definitiva sia stata emessa sul presupposto dell'esistenza del credito quale accertato nella sentenza parziale, non ne potrebbero infatti sortire, dal relativo giudicato, effetti vincolanti in questa sede, rimanendo al contrario anche la sentenza definitiva comunque soggetta alle sorti della sentenza parziale.

Ed infatti, secondo principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, la sentenza resa sulle questioni logicamente successive è comunque soggetta, anche se su di essa si sia formato un giudicato apparente, all'effetto caducatorio previsto, ex art. 336, comma secondo, c.p.c., quale conseguenza della riforma con sentenza passata in giudicato o della cassazione della sentenza resa su quelle logicamente precedenti, restando escluso che possa profilarsi il conflitto di giudicati (sistema sostanzialmente non alterato dalla modifica, con la riforma del 1990, dell'art. 336, comma secondo, c.p.c., che ha espunto il riferimento al passaggio in giudicato della sentenza di riforma, con incidenza sul solo art. 129-bis disp. att. c.p.c.) (v. Cass., Sez. un., n. 14060 del 26 luglio 2004 e succ. conff.); ciò, come è stato detto, per l'assorbente ragione che il giudizio è unico e che per tale ragione la sentenza resa in via definitiva è sempre soggetta alle conseguenze di una decisione incompatibile sulla statuizione oggetto della sentenza parziale» (v. Cass. n. 8664 dell'8 maggio 2020; n. 1581 del 22 gennaio 2019; n. 5894 del 24 marzo 2015; n. 814 del 19 gennaio 2010; n. 21590 del 12 ottobre 2009; n. 22944 del 30 ottobre 2007).

6.1.3. Altresì inconferente è, nel contesto in discorso, il richiamo al principio affermato da Cass., Sez. un., n. 12310 del 2015, secondo cui «la modificazione della domanda ammessa a norma dell'art. 183 c.p.c., può riguardare anche uno o entrambi gli elementi identificativi della medesima sul piano oggettivo (petitum e causa petendi), sempre che la domanda così modificata risulti in ogni caso connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio, e senza che per ciò solo si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte ovvero l'allungamento dei tempi processuali».

È evidente, infatti, che affermare che la domanda possa essere modificata, ai sensi ed entro i termini di preclusione previsti dall'art. 183, comma sesto, c.p.c., ancorché la modificazione riguardi uno o entrambi gli elementi identificativi della medesima sul piano oggettivo (petitum e causa petendi), e ciò in armonia con i principi di economia processuale e di ragionevole durata dei processi, non significa affatto, né implica, che la domanda così modificata non possa essere proposta in separato giudizio e, se proposta, debba essere dichiarata inammissibile.

Ciò si ricava testualmente dalla motivazione dello stesso richiamato arresto delle Sezioni unite, là dove (pagg. 24-25), nel riferire i riflessi dell'interpretazione adottata sull'esigenza di concentrazione delle attività processuali, si osserva che tale concentrazione è «favorita» (non, dunque, «imposta») da detta interpretazione.

6.1.4. Né potrebbe fondatamente rinvenirsi - non lo fa, per vero, nemmeno la sentenza impugnata - un legame di diretta e necessaria discendenza della regola di giudizio applicata dal giudice a quo dal principio affermato da Cass., Sez. un., 15 novembre 2007, n. 23726, secondo cui è contraria alla regola generale di correttezza e buona fede, in relazione al dovere inderogabile di solidarietà di cui all'art. 2 Cost., e si risolve in abuso del processo (ostativo all'esame della domanda), il frazionamento giudiziale (contestuale o sequenziale) di un credito unitario.

L'ipotesi in esame non ha alcun punto di contatto con quella in relazione alla quale il principio è stato affermato: l'ipotesi cioè di azioni dirette all'accertamento positivo della sussistenza di un credito unitario e già interamente sorto al momento della prima domanda, oggetto di frazionamento (contestuale o sequenziale) esclusivamente per una scelta soggettiva del suo titolare, non altrimenti giustificabile, dunque espressiva di atteggiamento contrario a correttezza e buona fede e di abuso del processo.

Nel caso in esame, ben diversamente, si è in presenza di domande di accertamento negativo di un credito, nella sua interezza, da altri vantato nei confronti di chi agisce, separatamente proposte sulla base di fatti estintivi in parte diversi (con il conseguente avvio in tempi diversi di altrettanti giudizi distinti, successivamente riuniti tra di loro e ad altro contrapposto giudizio iniziato dalla controparte per l'accertamento positivo del credito medesimo, cui si oppone eccezione parzialmente sovrapponibile).

In tal caso il frazionamento non riguarda il fatto posto a fondamento della domanda (diverso, almeno in parte, nel terzo giudizio), ma semmai la strategia difensiva, in relazione alla quale un intento strumentale può, in ipotesi, correlarsi solo all'effetto di eludere le eventuali preclusioni maturate nel primo giudizio.

È in tale prospettiva che va condotta dunque l'analisi e individuare la più plausibile risposta dell'ordinamento.

6.2. La questione posta va più precisamente ricondotta al tema delle possibili interferenze tra l'istituto della riunione di procedimenti relativi alla stessa causa o a cause connesse (artt. 273-274 c.p.c.) e il regime delle preclusioni.

Sul tema questa Corte, in adesione a tesi autorevolmente sostenuta in dottrina, ha avuto modo di affermare il principio secondo cui «le decadenze processuali verificatesi nel giudizio di primo grado non possono essere aggirate dalla parte che vi sia incorsa mediante l'introduzione di un secondo giudizio identico al primo e a questo riunito, in quanto la riunione di cause identiche non realizza una vera e propria fusione dei procedimenti, tale da determinarne il concorso nella definizione dell'effettivo thema decidendum et probandum, restando anzi intatta l'autonomia di ciascuna causa. Ne consegue che, in tale evenienza, il giudice - in osservanza del principio del ne bis in idem e allo scopo di non favorire l'abuso dello strumento processuale e di non ledere il diritto di difesa della parte in cui favore sono maturate le preclusioni - deve trattare soltanto la causa iniziata per prima, decidendo in base ai fatti tempestivamente allegati e al materiale istruttorio in essa raccolto, salva l'eventualità che, non potendo tale causa condurre ad una pronuncia sul merito, venga meno l'impedimento alla trattazione della causa successivamente instaurata» (Cass. n. 567 del 15 gennaio 2015; Cass. n. 24529 del 5 ottobre 2018; cfr. anche Cass. n. 5894 del 17 marzo 2006; n. 5455 del 10 marzo 2014; n. 22342 del 6 settembre 2019; n. 26285 del 17 ottobre 2019).

Si è, infatti, osservato che la «necessità della riunione trova giustificazione solo in tale funzione (per così dire «suppletiva») del procedimento successivamente instaurato, posto che, in caso contrario, risulterebbe del tutto incongrua la difformità di disciplina rispetto all'istituto della litispendenza regolato dall'art. 39 c.p.c., che, nell'ipotesi in cui la stessa causa sia proposta dinanzi a giudici diversi, prevede che il procedimento iniziato per secondo sia cancellato dal ruolo e non possa, pertanto, essere trattato.

«Appare d'altro canto evidente che, accedendo alla tesi contraria, si finirebbe col consentire la violazione dei doveri generali di lealtà e probità cui devono attenersi le parti ed i loro difensori, in quanto si favorirebbe l'abuso dello strumento processuale e si determinerebbe una lesione del diritto di difesa della parte in cui favore sono maturate le preclusioni» (così in motivazione Cass. n. 567 del 2015).

6.3. Detti precedenti si riferiscono, però, a ipotesi di vera e propria identità di cause (recte: di procedimenti relativi alla stessa causa), legittimante la riunione ex art. 273 c.p.c.: ipotesi, cioè, in cui la domanda, proposta in due distinti giudizi, si palesa oggettivamente e soggettivamente identica, con la conseguenza che, verificandosi una totale sovrapposizione delle cause tra le stesse parti, i due giudizi, se pendenti davanti allo stesso ufficio giudiziario, devono essere riuniti (art. 273 c.p.c.), se invece pendenti avanti ad uffici giudiziari diversi richiedono la declaratoria di litispendenza - da parte del giudice della causa successivamente proposta - con conseguente cancellazione della causa dal ruolo (art. 39, comma primo, c.p.c.) (così espressamente, in motivazione, Cass. n. 24529 del 2018).

6.4. Nel caso di specie non si verifica una tale ipotesi ma quella, contigua, della continenza di cause.

Il terzo giudizio propone, infatti, bensì, la medesima causa petendi del primo (prescrizione) ma ve ne aggiunge un'altra (la remissione al condebitore: art. 1301 c.c.), anch'essa incidente sul medesimo rapporto e idonea, in astratto, a paralizzare, in tutto o in parte, la pretesa creditoria, ma diversa.

Non può sul punto condividersi il diverso assunto espresso nella sentenza impugnata secondo cui, in buona sostanza, sortendo anch'essa, in tesi, l'effetto di estinzione del credito, se ne dovrebbe per questo affermare l'identità con la prima.

A detti fini occorre invero guardare al fatto posto a fondamento della domanda di accertamento negativo del credito (o dell'eccezione volta a paralizzare la contrapposta domanda) non già all'effetto. È noto infatti che, secondo pacifica acquisizione della giurisprudenza di questa Corte, per causa petendi, idonea a identificare la domanda, devono intendersi non solo e non tanto le ragioni giuridiche addotte a fondamento della pretesa avanzata (delle quali, del resto, il giudice può e deve avere cognizione indipendentemente alla enunciazione che la parte ne faccia), quanto e soprattutto l'insieme delle circostanze di fatto che la parte pone a base della propria richiesta (ex multis Cass. 25 giugno 2003, n. 10128).

6.5. Vi è dunque coincidenza solo parziale di causae petendi ed il terzo giudizio risulta dal contenuto più ampio del primo.

Analogo rapporto di continenza deve peraltro ravvisarsi tra il primo e il secondo giudizio (in cui il medesimo rapporto obbligatorio e lo stesso fatto estintivo della prescrizione sono dedotti a parti invertite) e, ovviamente, tra il secondo e il terzo.

La giurisprudenza di questa Corte ha, infatti, adottato un concetto di continenza piuttosto ampio, affermando che la continenza di cause ricorre non solo quando due cause siano caratterizzate da identità di soggetti e titolo e da una differenza soltanto quantitativa dell'oggetto, ma anche quando fra le due cause sussista un rapporto di interdipendenza, come nel caso in cui sono prospettate, con riferimento ad un unico rapporto negoziale, domande contrapposte, o in relazione di alternatività (c.d. continenza per specularità: v., in motivazione, Cass., Sez. un., 15 maggio 2015, n. 9935; v. anche, ex aliis, Cass. 14 luglio 2011, n. 15532; Cass., Sez. un., 10 ottobre 2007, n. 20599; Cass., Sez. un., 23 luglio 2001, n. 10011; 10 gennaio 2001, n. 281, in motivazione; Cass. 30 marzo 2000, n. 3924; 10 marzo 1999, n. 2077).

6.6. Nel caso di giudizi pendenti davanti a giudici diversi, l'ipotesi della continenza - intermedia tra quella della perfetta identità di cause e quella della connessione (art. 40 c.p.c.) - è regolata dall'art. 39, comma secondo, c.p.c., che per essa prescrive, in sostanza, la soluzione (non della cancellazione della causa successivamente iscritta, come per la litispendenza, ma) del simultaneus processus (davanti al giudice preventivamente adito, se competente, o altrimenti davanti al secondo).

Nel caso, qual è quello in esame, di giudizi pendenti avanti il medesimo giudice, secondo l'opinione prevalente ed avallata dalla giurisprudenza di legittimità, deve ritenersi obbligatoria la riunione delle cause ex art. 273 c.p.c. (v. Cass., Sez. un., n. 9935 del 2015, cit.).

6.7. La riunione ex art. 273 c.p.c. si giustifica sul sottinteso assunto che in essa possa vedersi una «litispendenza parziale» tra i due giudizi, per la parte oggettivamente comune.

Ne discende che, per tale parte comune, per evidenti ragioni di coerenza sistematica, dovranno trovare applicazione i principi sopra esposti propri della litispendenza, col risultato che la domanda già comune ai due processi originari dovrà essere trattata, di regola, nei termini in cui era stata introdotta nel processo preveniente, e comunque tenendo conto delle eventuali preclusioni in tale processo già maturate anteriormente alla riunione ex art. 273 c.p.c.

Nel caso di specie, la parte comune al primo ed al terzo giudizio (ma anche al secondo) deve identificarsi con la domanda (o l'eccezione) tendente all'accertamento dell'estinzione del credito per prescrizione.

6.8. Lo stesso però non può dirsi per la parte che comune ai due giudizi non è (nel caso, come detto, la domanda di accertamento dell'estinzione, totale o parziale, del debito per effetto della dedotta remissione in favore di altro condebitore).

È ben vero che la riunione, inserendo nel processo preveniente domande (o eccezioni) in rapporto di stretta interdipendenza con quelle in esso già avanzate, che avrebbero potuto esservi proposte ab initio, può portare, di fatto, ad un superamento delle preclusioni.

A ben riflettere, però, tale conclusione non è autorizzata dal diritto positivo: nel senso che la disciplina processuale non autorizza il convincimento che sussistano in questo caso delle preclusioni aggirate.

Non è invero condivisibile l'assunto - pure sostenuto da autorevole dottrina - che, evocando le finalità del sistema di preclusioni adottato dal legislatore, ne inferisce che «lo scattare delle decadenze interne al processo confina nell'area del non più deducibile in altri processi le attività oramai precluse in quel processo, da ritenersi per ciò stesso consegnate irrevocabilmente all'autorità del giudicato futuro».

Come s'è detto, infatti, l'efficacia preclusiva del giudicato non può in alcun modo essere invocata, seppure in combinazione con la ratio delle preclusioni interne al processo, prima che il giudicato stesso si sia formato; non foss'altro perché non è affatto certo che il processo sortisca realmente, alla fine, tale risultato e pervenga, comunque, ad una decisione di merito.

Va piuttosto ribadito che, anteriormente alla formazione del giudicato in taluna di esse, la regolamentazione dei rapporti tra più cause può trarsi solo dalla disciplina della litispendenza, della continenza e della connessione.

Ebbene in tale direzione il presupposto minimo per far valere, anche rispetto alle domande ed eccezioni introdotte nel secondo processo, le preclusioni maturate nel primo, dev'essere pur sempre ravvisato nella comunanza dell'oggetto effettivo della cognizione: nel senso, cioè, che siffatta comunanza deve sussistere rispetto (alle domande e) alle questioni concretamente sollevate nei distinti processi, non certo rispetto a quelle che potrebbero (o avrebbero potuto) essere sollevate ma non lo sono state.

6.9. Ma vi è un'altra considerazione da fare, di rilievo preliminare e assorbente.

Il regime delle preclusioni riguarda, come noto, le eccezioni in senso stretto e l'attività probatoria (artt. 167 e 183 c.p.c.).

Nel processo civile, le eccezioni consistono nell'allegazione o rilevazione di fatti estintivi, modificativi o impeditivi del diritto dedotto in giudizio ai sensi dell'art. 2697 c.c., con cui sono opposti nuovi fatti o temi di indagine non compresi fra quelli indicati dall'attore. Esse - ove non siano riservate alla parte per espressa previsione di legge o perché corrispondenti alla titolarità di un'azione costitutiva - sono rilevabili d'ufficio (è questa, come noto, la definizione di eccezioni in senso lato in contrapposizione alle eccezioni in senso stretto): il giudice, cioè, può/deve rilevarle ex se anche se non siano state oggetto di espressa e tempestiva attività assertiva, sempre che riguardino fatti principali o secondari emergenti dagli atti, dai documenti o dalle altre prove ritualmente acquisite al processo. Il rilievo officioso di tali eccezioni è dunque per definizione sottratto al regime delle preclusioni ed anche, in appello, al divieto stabilito dall'art. 345, comma secondo, c.p.c. (v. Cass. n. 8525 del 6 maggio 2020).

Con riferimento a dette eccezioni la preclusione è, dunque, predicabile solo con riferimento alle richieste di prova ad esse eventualmente correlate, non anche rispetto alla loro prospettazione.

6.10. Ebbene, la remissione del debito nei confronti del condebitore in solido costituisce, alle condizioni previste dall'art. 1301 c.c., fatto estintivo non riservato dalla legge alla eccezione della parte, né vi è altro motivo di ritenerla eccezione in senso stretto (non pertinente è, al riguardo, il riferimento, in memoria, ai precedenti di Cass. n. 11749 del 2006 e n. 1110 del 1999 che riguardano il diverso istituto della remissione del debito nei confronti del debitore, ex art. 1236 c.c., per il quale la qualificazione in termini di eccezione in senso stretto è giustificata dalla subordinazione da parte della norma dell'effetto estintivo alla volontà - ancorché manifestata tacitamente - del debitore di volerne profittare, subordinazione invece non prevista dall'art. 1301 c.c. per l'ipotesi qui in esame).

Ammesso dunque (ma non concesso, per le considerazioni sopra svolte: § 6.8) che possa predicarsi l'«espansione» nel secondo giudizio delle preclusioni maturate nel primo, non ne potrebbe per ciò solo conseguire l'inammissibilità tout court della domanda di accertamento negativo del credito fondata su detto fatto estintivo (la remissione del debito nei confronti del debitore in solido) rispetto alla cui allegazione, anche nel primo giudizio, non era predicabile alcuna preclusione.

Semmai, ove il fatto estintivo non risultasse dagli atti già ritualmente acquisiti, ma fosse posto ad oggetto di richiesta di prova (in detta prospettiva, inammissibile), avrebbe dovuto statuirsi il rigetto della domanda (per mancanza di prova, previa declaratoria di inammissibilità delle richieste istruttorie), non la sua inammissibilità.

Anche sotto tale profilo la sentenza impugnata, nella parte in cui conferma la declaratoria di inammissibilità della domanda di accertamento negativo (o di riduzione parziale) del credito per intervenuta remissione nei confronti di altro condebitore (art. 1301 c.c.), non può dunque essere avallata.

6.11. Ma le medesime considerazioni valgono anche con riferimento alle allegazioni dedotte, nel terzo giudizio, a fondamento della iterata domanda di accertamento della prescrizione del credito risarcitorio.

È ben vero che, come s'è detto, trattasi di domanda da considerare sovrapponibile a quella svolta nel primo giudizio e, a parti invertite, al contenuto dell'eccezione opposta nel secondo giudizio.

La conseguenza di ciò è però, in base alle considerazioni sopra svolte, (solo) l'impossibilità di aggirare - con la proposizione del nuovo giudizio e la sua successiva necessaria riunione - decadenze processuali verificatesi nel primo giudizio.

Nessuna preclusione o decadenza è, però, predicabile rispetto al rilievo della inidoneità dell'atto opposto dalla creditrice a interrompere la eccepita prescrizione, trattandosi di mera difesa o al più di controeccezione (in senso lato) opposta al fine di infirmare quella di contro dedotta (di interruzione della prescrizione).

L'unica preclusione in tal caso predicabile è quella relativa alle richieste di prova, ma, come detto, tale preclusione potrebbe solo portare a ritenere infondata, nel merito, detta controeccezione (perché appunto non provata) non anche alla inammissibilità tout court della sua prospettazione assertiva.

Ma se, in ipotesi, le circostanze su cui quella controeccezione si fonda risultassero già altrimenti e ritualmente acquisite nel primo giudizio, nulla impedirebbe di prenderla in esame onde valutarne nel merito la fondatezza.

7. Deve in conclusione affermarsi il seguente principio di diritto: «nel caso di riunione di cause, in rapporto di continenza, pendenti davanti al medesimo giudice, le preclusioni maturate nel giudizio preveniente anteriormente alla riunione rendono inammissibili nel giudizio prevenuto - in osservanza del principio del ne bis in idem e allo scopo di non favorire l'abuso dello strumento processuale - solo le attività, soggette alle scansioni processuali dettate a pena di decadenza, svolte con riferimento all'oggetto di esso che sia comune al giudizio preveniente e non si comunicano, pertanto, né alle attività assertive che, come le mere difese e le eccezioni in senso lato, non soggiacciono a preclusione, né alle attività assertive e probatorie che, pur soggette a preclusione, concernono la parte del giudizio prevenuto non comune con quello preveniente».

8. In ragione e nei limiti delle esposte considerazioni il primo motivo merita pertanto accoglimento; la sentenza va conseguentemente cassata, restando assorbito l'esame degli altri motivi.

La causa va rinviata al giudice a quo, il quale provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

accoglie il primo motivo, nei termini di cui in motivazione; dichiara assorbiti i rimanenti; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto; rinvia alla Corte di appello di Milano in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

L. Bolognini, E. Pelino (dirr.)

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