Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
Sezione I-ter
Sentenza 25 novembre 2021, n. 12147

Presidente: Arzillo - Estensore: Furno

Con ricorso regolarmente notificato e depositato, il ricorrente ha chiesto l'annullamento del decreto di rigetto dell'istanza di concessione della cittadinanza italiana, deducendo le censure di violazione di legge ed eccesso di potere sotto plurimi profili.

In sintesi, secondo la prospettazione del ricorrente, il provvedimento impugnato farebbe leva esclusivamente sul seguente elemento: la paventata esistenza di "pregiudizi penali" che sarebbero "sintomatici di inaffidabilità del richiedente e di una mancata integrazione nella comunità nazionale, desumibile in primis dal rispetto delle regole di civile convivenza, che si evince anzitutto dalla rigorosa e sicura osservanza della legge penale vigente nell'ordinamento giuridico italiano".

Tuttavia, nell'ottica del ricorrente, l'errore di fatto in cui sarebbe incorso il Ministero dell'interno si anniderebbe nella circostanza per cui, rispetto agli originari enunciati accusatori, alcuna sentenza di condanna sarebbe sopraggiunta a carico dell'odierno ricorrente.

A riprova dell'assunto, il ricorrente richiama le risultanze del casellario penale dalle quali emerge il suo stato di soggetto incensurato.

In secondo luogo, il ricorrente censura la mancata valutazione delle complessive risultanze concernenti la sua avvenuta integrazione sociale, anche alla luce dei radicati legami familiari esistenti nel territorio italiano.

Si è costituita per resistere in giudizio l'Amministrazione, mediante una nota nella quale la difesa erariale ha ribadito l'amplia discrezionalità di cui gode l'amministrazione nella concessione della cittadinanza, e nella quale ha compendiato gli elementi posti a base della valutazione negativa.

In particolare, l'amministrazione resistente ha addotto a sostegno del provvedimento di diniego le seguenti risultanze, ritenute ostative:

- denuncia all'Autorità Giudiziaria, effettuata in data 1° dicembre 2001 dal Comando Provinciale Carabinieri Reparto Operativo Radiomobile di Padova, per il reato di cui all'art. 416-bis;

- denuncia all'Autorità Giudiziaria, effettuata in data 5 aprile 2002, per il reato di cui all'art. 648;

- fermo di P.G. disposto dal Pubblico Ministero presso il Tribunale Ordinario di Padova del 29 agosto 2002 e successiva scarcerazione eseguita in data 31 agosto 2002 a seguito di ordinanza del G.I.P. del Tribunale di Modena applicativa [della] misura cautelare dell'obbligo di dimora.

All'udienza del 22 novembre 2021 la causa è stata trattenuta in decisione.

Il ricorso è fondato per le ragioni di seguito esposte.

Un recente e condivisibile indirizzo interpretativo del Consiglio di Stato ha avuto modo di evidenziare, con le sentenze del 20 marzo 2019, n. 1837, e del 5 marzo 2021, n. 1893, che la pubblica amministrazione, pur esercitando un ampio potere discrezionale, non può, nel denegare il riconoscimento della cittadinanza, fondare il proprio giudizio di mancato inserimento sociale dello straniero sull'astratta tipologia di un reato e sulla sua pericolosità, astratta o presunta, senza apprezzare tutte le circostanze del fatto concreto e non può esimersi da una considerazione in concreto del fatto, delle sue modalità, del suo effettivo disvalore come anche della personalità del soggetto.

Infatti, se si prescinde dalle ipotesi di reato ostative al riconoscimento della cittadinanza, contemplate dall'art. 6 l. n. 92 del 1991, peraltro con riferimento al diverso istituto dell'acquisto della cittadinanza per matrimonio, non è possibile esigere dallo straniero, per riconoscergli la cittadinanza, un quantum di moralità superiore a quella posseduta mediamente dalla collettività nazionale in un dato momento storico, sicché il giudizio sulla integrazione sociale dello straniero richiedente la cittadinanza italiana, sebbene debba tenere conto di fatti penalmente rilevanti, non può ispirarsi ad un criterio di assoluta irreprensibilità morale o di impeccabilità sociale, del tutto antistorico prima che irrealistico e, perciò, umanamente inesigibile da chiunque, straniero o cittadino che sia.

Nel caso oggetto del presente procedimento, peraltro, tali condivisibili considerazioni risultano ulteriormente avvalorate dalla circostanza per cui i reati posti a sostegno del provvedimento di diniego sono molto risalenti nel tempo (2002), e non si sono tradotti in alcuna sentenza di condanna, come comprova il certificato del casellario penale presente agli atti del presente procedimento.

Ebbene, ritiene il collegio che, sotto tale ultimo angolo di visuale, l'amministrazione avrebbe dovuto approfondire gli accertamenti istruttori espletati in correlazione agli sviluppi dei procedimenti penali posti a sostegno del provvedimento impugnato, se del caso attendendo l'esito delle valutazioni spettanti all'organo inquirente, ovvero premurandosi di verificare il relativo esito processuale.

Del resto, sotto un profilo sistematico, anche il richiamato art. 6 postula, ai fini dell'evidenziato meccanismo ostativo relativo al riconoscimento della cittadinanza per matrimonio, una sentenza di condanna in relazione ai reati da esso previsti, non ritenendo sufficiente, a tal fine, una mera iscrizione nel registro degli indagati.

Le considerazioni in precedenza svolte non disconoscono in alcun modo il consolidato principio per cui l'amministrazione, nell'esercitare l'ampio potere discrezionale di concessione della cittadinanza, non è vincolata agli accertamenti del giudice penale.

Tuttavia, non appare ammissibile, a parere del Collegio, se non incorrendo in un vizio della motivazione, desumere da mere iscrizioni nel registro degli indagati in fase di indagini preliminari, in relazione a reati pure astrattamente molto gravi, come quelli che ricorrono nel caso di specie, ed in assenza di successivi accertamenti di responsabilità penale, elementi di per sé automaticamente ostativi al riconoscimento della cittadinanza, in mancanza di ulteriori valutazioni finalizzate a concretamente verificarne gli effetti, a distanza di moltissimi anni, sotto il profilo della integrazione sociale.

In altri termini, occorre che nei casi come quello di cui al presente giudizio l'amministrazione si faccia carico di adeguatamente spiegare le ragioni di fatto sulla base delle quali, a distanza di circa 20 anni, i medesimi comportamenti per i quali il ricorrente è stato soltanto denunciato e non condannato siano ancora concretamente indice di un mancato inserimento sociale e, quindi, di una mancata compiuta integrazione nella comunità nazionale o se, al contrario, simili comportamenti, tenuto conto, nel complesso, della sua condotta di vita, della sua permanenza sul territorio nazionale, della sua attività lavorativa, e di tutti gli elementi ritenuti rilevanti a tal fine, non denotino una mancata adesione ai valori fondamentali dell'ordinamento giuridico, a cominciare dal principio personalistico e da quello solidaristico, compendiati nel valore, posto «al vertice dell'ordinamento», della dignità umana.

In secondo luogo, dalla documentazione in atti emerge che il ricorrente lavora (come risulta dai modelli CUD relativi alle ultime due dichiarazioni dei redditi depositati in atti) ed è stabilmente inserito nel contesto nazionale, e con nucleo familiare che ha già ottenuto la cittadinanza.

Con maggiore dettaglio, dalla documentazione prodotta agli atti del presente procedimento emerge che tanto la moglie quanto le due figlie hanno ottenuto la cittadinanza italiana dal 2015. Si ricava, inoltre, che anche i genitori sono soggiornanti di lungo periodo e la suocera è in possesso del titolo di soggiorno per motivi familiari.

Anche sotto questo ulteriore profilo, il provvedimento impugnato non prende in alcun modo in considerazione tali ulteriori circostanze di fatto e non svolge un'adeguata motivazione in ordine alla complessiva posizione sociale dello straniero istante.

Il ricorso, pertanto, sulla base delle considerazioni in precedenza svolte, deve essere accolto ai fini di una rivalutazione del comportamento quanto alle concrete modalità dei fatti contestati dalla Autorità, e ad una completa disamina in riferimento all'inserimento sociale e, quindi, all'integrazione nella comunità nazionale, al fine di valutare se, nel complesso della condotta di vita dell'aspirante cittadino, della sua permanenza sul territorio nazionale, dei suoi legami familiari, della sua attività lavorativa, tutti gli elementi ritenuti rilevanti denotino una adesione o meno ai valori fondamentali dell'ordinamento giuridico, a cominciare dal principio personalistico e da quello solidaristico, compendiati nel valore, posto «al vertice dell'ordinamento», della dignità umana (v., sul punto, Corte cost., 7 dicembre 2017, n. 258).

Alla luce delle considerazioni che precedono, il ricorso deve essere accolto ed il provvedimento gravato deve essere annullato.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Ter), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l'effetto, annulla il provvedimento impugnato, ai fini indicati in motivazione.

Condanna l'amministrazione resistente al pagamento delle spese di giudizio liquidate nella misura complessiva di euro 800,00 (ottocento) più accessori previsti per legge in favore della parte ricorrente.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'art. 52, commi 1 e 2, del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, e dell'art. 9, § 1, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare il ricorrente.

L. Carbone, F. Caringella, G. Rovelli

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