Consiglio di Stato
Sezione IV
Sentenza 27 dicembre 2021, n. 8627
Presidente: Maruotti - Estensore: Rotondo
FATTO
Gli appellanti impugnano la sentenza n. 1086/2016, con la quale il T.A.R. per la Calabria (sezione staccata di Reggio Calabria) ha in parte respinto e in parte ha dichiarato inammissibile, per difetto di giurisdizione del giudice adito, il ricorso n. 739 del 2012 dagli stessi proposto per l'annullamento:
- (ricorso principale) del decreto 25 settembre 2012, n. 182, con il quale sono stati acquisiti al demanio dello Stato i terreni in Locri, al foglio 35, particelle 281 (parzialmente estesa mq. 27.750) e 285, di proprietà comune degli appellanti;
- del provvedimento di cui alla nota 9 maggio 2012, con il quale la Soprintendenza Archeologica di Reggio Calabria ha avviato la procedura di liquidazione definitiva delle indennità presso la Commissione Espropri di Reggio Calabria, invece che nominare i tecnici per la procedura pararbitrale di cui all'art. 21 del testo unico 327/2001, ottemperando alla tempestiva richiesta dei proprietari espropriandi;
- (motivi aggiunti) dell'avviso di avvio del procedimento, effettuato con nota 12 dicembre 2008, n. 22879, siccome successivo rispetto al decreto n. 42 del 2 settembre 2008 di approvazione del progetto definitivo;
nonché per ottenere il risarcimento del danno per l'illegittima detenzione dei detti terreni.
Il ricorso di primo grado veniva proposto per impugnare il decreto di esproprio con il quale il Ministero per i beni culturali aveva acquisito, nel 2012, le aree di proprietà dei ricorrenti allo scopo di realizzare opere migliorative dell'accesso e della fruibilità del Parco Archeologico di Locri.
I ricorrenti (come sintetizzato in fatto dal T.A.R.) esponevano che l'amministrazione espropriante si trovava nel possesso dei beni sin dagli anni cinquanta; a seguito di vari decreti di occupazione temporanea annualmente prorogati, con decreto del 2 agosto 1992, veniva approvato il progetto definitivo dell'opera e dichiarata la pubblica utilità della stessa con fissazione dei termini per le espropriazioni; con decreto del 26 luglio 2000, l'amministrazione prorogava il termine per l'adozione del decreto di esproprio; il T.A.R. di Reggio Calabria, con la sentenza n. 213 del 2001, annullava il decreto di proroga; in data 25 settembre 2012, il Ministero adottava il decreto di esproprio n. 182 con il quale venivano acquisiti al demanio dello Stato i terreni di proprietà dei ricorrenti.
Quest'ultimi impugnavano il decreto denunciando (i) violazione dell'art. 13 e dell'art. 42-bis del testo unico approvato con d.P.R. 327/2001, (ii) violazione dell'art. 21 del testo unico 327/200[1]: l'acquisizione al demanio dello Stato dei beni oggetto del provvedimento impugnato non avrebbe potuto avvenire, attesa la situazione di precedente occupazione illegittima, che con il provvedimento acquisitivo previsto dall'art. 42-bis del d.P.R. n. 327/2001; (iii) violazione delle regole procedimentali relative alle modalità di liquidazione della indennità definitiva (art. 21 t.u. espropri).
Si costituiva il Ministero, per resistere al ricorso.
Il T.A.R., come sopra anticipato, in parte respingeva il ricorso (impugnatorio), in parte lo dichiarava inammissibile (avuto riguardo alla richiesta di determinazione della indennità di esproprio, rivolta dal Ministero alla Commissione espropri).
Il giudice di primo grado non si pronunciava sull'istanza di risarcimento chiesta dai ricorrenti per il periodo di occupazione senza titolo del terreno espropriato, precedente al decreto di espropriazione, a far tempo dall'8 marzo 2001 al 25 settembre 2012.
Appellano la sentenza gli originari ricorrenti, lamentando la mancata pronuncia del giudice di primo grado sull'istanza risarcitoria relativa al periodo di occupazione senza titolo del terreno espropriato, precedente al decreto di espropriazione, a far tempo dall'8 marzo 2001 al 25 settembre 2012.
In questi limiti oggettuali essi perimetrano il petitum di appello, con ciò rinunciando a coltivare le originarie richieste caducatorie respinte dal T.A.R. (decreto di esproprio) e quelle dichiarate inammissibili (per difetto di giurisdizione).
Si è costituito il Ministero appellato, che ha chiesto il rigetto del gravame.
Gli appellanti hanno depositato memoria difensiva e di replica.
All'udienza del 2 dicembre 2021, l'appello è stato trattenuto per la decisione.
DIRITTO
Preliminarmente, il Collegio dà atto che, a seguito della proposizione dell'appello, è riemerso il thema decidendum del giudizio di primo grado - che perimetra necessariamente il processo di appello ex art. 104 c.p.a. - sicché, per ragioni di economia dei mezzi processuali e semplicità espositiva, secondo la logica affermata dalla decisione della Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 5 del 2015, verranno presi direttamente in esame gli originari motivi posti a sostegno del ricorso introduttivo, nei limiti, beninteso, soltanto della domanda non esaminata dal T.A.R. e riproposta nel giudizio di appello come motivo di impugnazione (cfr. ex plurimis C.d.S., Sez. IV, n. 1137 del 2020).
La domanda risarcitoria è infondata.
I ricorrenti, nel formulare il petitum originario, hanno fatto rinvio integrale alla (sollecitata in via istruttoria) c.t.u. per la quantificazione dei danni.
È pacifico in giurisprudenza, amministrativa e civile (cfr. C.d.S., Sez. IV, 6 ottobre 2001, n. 5287; Cass. civ., Sez. III, 8 gennaio 2004, n. 88), che nel procedimento giurisdizionale la consulenza tecnica di ufficio è un mezzo istruttorio sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso al potere discrezionale del giudice, il cui esercizio tuttavia incontra il limite del divieto di servirsene per sollevare le parti dall'onere probatorio, non potendo essa supplire al compito delle parti di allegare i fatti e di introdurli nel processo.
Più in particolare, la giurisprudenza ha chiarito che la c.t.u. non può essere utilizzata per colmare le lacune probatorie in cui sia incorsa una delle parti o per alleggerirne l'onere probatorio (v. Cass. civ., Sez. III, ord. 18 settembre 2020, n. 19631).
Le parti, pertanto, non possono sottrarsi all'onere probatorio di cui sono gravate, ai sensi dell'art. 2697 c.c., e pensare di poter rimettere l'accertamento dei propri diritti all'attività del consulente. La c.t.u. non è, infatti, qualificabile come mezzo di prova in senso proprio.
Il ricorso al consulente deve essere disposto, quindi, non per supplire alle carenze istruttorie delle parti o per svolgere una indagine esplorativa alla ricerca di fatti o circostanze non provati, ma per valutare tecnicamente i dati già acquisiti agli atti di causa come risultato dei mezzi di prova ammessi sulle richieste delle parti (Cass. 6 dicembre 2019, n. 31886).
Nel caso di specie, i ricorrenti non hanno allegato (nel ricorso principale, nei motivi aggiunti e nelle memorie conclusive) alcun elemento probatorio utile a supportare la domanda risarcitoria in termini di danni concretamente subiti, rinviando, per ogni accertamento sul quantum debeatur, alla c.t.u.
Gli elementi fattuali a comprova dei danni asseritamente subiti (quanto alla prova circa la loro stessa entità e consistenza, quindi allegata esistenza materiale) sono stati introdotti, per la prima volta, con l'atto introduttivo dell'appello.
Sennonché, essi sono tardivi e inammissibili in quanto prodotti in violazione del divieto dei nova sancito dall'art. 104, comma 1, c.p.a. (cfr. ex plurimis C.d.S., Sez. IV, n. 2319 del 2020).
Ne consegue, per un verso, l'inammissibilità del richiesto mezzo istruttorio; per l'altro, l'inaccoglibilità della domanda risarcitoria refluendo in pregiudizio dell'attore gli effetti dei risultati del potere di iniziativa [a] lui riservato in materia probatoria.
In conclusione, giusto il principio dell'onere della prova che stabilisce a quale delle parti il giudice deve porre a carico le conseguenze della mancanza di prova, va respinta la domanda in esame, non avendo la società ricorrente dato la prova dei fatti (quantum debeatur) sui quali la pretesa è fondata.
Per quanto sin qui argomentato, il Collegio, pronunciando sull'appello, respinge la domanda di risarcimento dei danni per il periodo di occupazione senza titolo del terreno espropriato, precedente al decreto di espropriazione, a far tempo dall'8 marzo 2001 al 25 settembre 2012.
È pertanto irrilevante esaminare la portata del principio per il quale il giudice civile, potendo qualificare il provvedimento ablatorio dell'Amministrazione, può esaminare le domande volte ad ottenere la liquidazione degli importi spettanti a seguito della sua emanazione.
Le spese del grado [di] appello, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull'appello n. 789 del 2017, come in epigrafe proposto, respinge la domanda di risarcimento dei danni di cui in motivazione.
Condanna parte appellante al pagamento delle spese di appello che si liquidano, in favore del Ministero della cultura, in euro 2.000,00 (duemila/00), oltre accessori legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.