Corte di cassazione
Sezione II penale
Sentenza 27 aprile 2022, n. 21826
Presidente: Rago - Estensore: Messini
RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza emessa in data 10 novembre 2021 il tribunale del riesame di Potenza, decidendo sull'appello presentato nell'interesse di Raffaele D., confermava il provvedimento con il quale il g.i.p. dello stesso tribunale aveva rigettato la richiesta intesa a ottenere la declaratoria di inefficacia della misura cautelare della custodia in carcere cui l'imputato era sottoposto dal 12 aprile 2021 per una numerosa serie di reati ovvero, in subordine, la sostituzione della stessa con quella degli arresti domiciliari.
2. Ha proposto ricorso Raffaele D., a mezzo del proprio difensore, chiedendo l'annullamento dell'ordinanza impugnata per violazione di legge e difetto di motivazione sotto due distinti profili, relativi alla richiesta principale e a quella subordinata, entrambe respinte dai giudici della cautela.
2.1. Quanto al primo aspetto, rileva la difesa che il g.i.p., nell'ordinanza genetica, aveva disposto la misura di massimo grado, escludendo però la sussistenza dell'aggravante dell'agevolazione mafiosa, con la conseguenza che nella prima fase il termine di durata massima della custodia cautelare andava individuato in sei mesi, ai sensi dell'art. 303, comma 1, lett. a), c.p.p., e pertanto era già decorso in data 11 ottobre 2021.
Il tribunale ha erroneamente ritenuto che l'accoglimento dell'appello del pubblico ministero da parte del tribunale del riesame sulla sussistenza dell'aggravante avrebbe portato a un anno il termine di durata massima della misura, avendo escluso nella fattispecie l'effetto sospensivo della esecuzione, previsto dall'art. 310, comma 3, del codice di rito, nel caso in cui sia il tribunale a disporre la misura.
Questa ultima norma, invece, opera anche nella ipotesi in cui, in sede di appello, il tribunale disponga una misura estendendo il titolo cautelare a una circostanza aggravante, dovendosi applicare principi di garanzia che siano tali da consentire una coerente lettura delle disposizioni in materia di libertà personale.
La citata disposizione, peraltro, e non già quella eccezionale prevista dall'art. 588, comma 2, c.p.p., è stata dalla giurisprudenza ritenuta applicabile nel caso in cui il tribunale del riesame, in accoglimento dell'appello del pubblico ministero, aggravi la misura cautelare originariamente disposta.
2.2. Quanto alla richiesta subordinata, l'ordinanza ha fatto riferimento solo al decorso del tempo, ritenuto irrilevante, trascurando gli altri elementi di novità indicati dalla difesa, quali la conclusione delle indagini preliminari e l'intervenuto sequestro delle società.
Il tribunale ha poi descritto la personalità del ricorrente in un modo che non trova riscontro negli atti processuali e ha altresì confuso il piano della sussistenza delle esigenze cautelari con quello dell'adeguatezza e della proporzionalità della misura in atto, non considerando che il presidio domiciliare era stato richiesto in una Regione diversa dal luogo di origine di Raffaele D. e da quello di commissione dei fatti.
3. Disposta la trattazione scritta del procedimento in cassazione, ai sensi dell'art. 23, comma 8, del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito nella l. 18 dicembre 2020, n. 176 (così come modificato per il termine di vigenza dall'art. 16 del d.l. 30 dicembre 2021, n. 228, convertito nella l. 25 febbraio 2022, n. 15), in mancanza di richiesta di discussione orale, nei termini ivi previsti, il procuratore generale ha depositato le proprie conclusioni, come in epigrafe indicate, con argomentazioni condivise dalla difesa, che ha chiesto l'annullamento dell'ordinanza impugnata e la immediata scarcerazione di Raffaele D., attualmente sottoposto alla misura degli arresti domiciliari, ovvero, in subordine, l'annullamento con rinvio dell'ordinanza impugnata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso va rigettato perché proposto con un motivo infondato.
2. Preliminarmente va rilevato l'interesse del ricorrente alla impugnazione.
Il riconoscimento dell'aggravante dell'agevolazione mafiosa, circostanza ad effetto speciale che incide sulla determinazione della pena agli effetti dell'applicazione delle misure cautelari (art. 278 c.p.p.), ha comportato che il termine di durata massima della custodia cautelare nella fase delle indagini sia passato da sei mesi a un anno, ai sensi dell'art. 303, comma 1, lett. a), nn. 2) e 3), del codice di rito.
Pertanto, se si fosse esclusa la immediata esecutività del provvedimento con il quale il tribunale, in accoglimento dell'appello del pubblico ministero, ha ritenuto sussistente detta aggravante, la misura cautelare applicata a Raffaele D. sarebbe effettivamente divenuta inefficace in data 11 ottobre 2021.
L'interesse non è venuto meno neppure in seguito al sopravvenuto rinvio a giudizio dell'imputato, disposto nel marzo 2022, che ha determinato il passaggio a una fase successiva, anche ai fini del computo dei termini di custodia cautelare (ex art. 303, comma 1, lett. b), c.p.p.), in quanto la scarcerazione dell'imputato per decorrenza dei termini di fase della custodia cautelare alla quale non si sia tempestivamente provveduto deve essere disposta nella fase successiva (cosiddetta scarcerazione ora per allora), purché la scadenza di detti termini - come nel caso di specie - riguardi tutte le imputazioni oggetto del provvedimento coercitivo e non solo alcune di esse (Sez. un., n. 26350 del 24 aprile 2002, Fiorenti, Rv. 221657).
3. La questione di diritto in esame è stata correttamente inquadrata dal tribunale, che ha posto in correlazione l'art. 310, comma 3, c.p.p. («L'esecuzione della decisione con la quale il tribunale, accogliendo l'appello del pubblico ministero, dispone una misura cautelare è sospesa fino a che la decisione non sia divenuta definitiva») con quanto previsto in tema di impugnazioni dall'art. 588 dello stesso codice.
Questa seconda norma, regolando il profilo della esecutività dei provvedimenti impugnati, prevede una disposizione generale, al comma 1 («Dal momento della pronuncia, durante i termini per impugnare e fino all'esito del giudizio di impugnazione, l'esecuzione del provvedimento impugnato è sospesa, salvo che la legge disponga altrimenti»), derogata per le impugnazioni contro i provvedimenti in materia di libertà personale, che «non hanno in alcun caso effetto sospensivo» (comma 2).
Questa ultima disposizione ha una portata di ordine generale ed è coerente con la natura delle misure cautelari, che presuppongono un pericolo rilevante e la correlativa necessità di un rimedio immediato.
L'art. 310, comma 3, c.p.p., dunque, costituisce una eccezione alla regola generale secondo la quale i provvedimenti in materia di libertà personale sono immediatamente esecutivi.
La difesa ha richiamato alcune pronunce secondo cui detta eccezione si applica anche alle ordinanze con le quali il tribunale, in accoglimento dell'appello del pubblico ministero, aggrava la misura cautelare in atto, stante la identità di presupposti tra queste e quelle che dispongono una misura ex novo a seguito di gravame del p.m. (in questo senso v. Sez. 6, n. 37773 del 30 settembre 2010, Buonerba, Rv. 248595; Sez. 6, n. 32526 del 9 luglio 2010, Esposito, Rv. 248158; Sez. 4, n. 37718 del 4 dicembre 2002, dep. 2003, D'Ascanio, Rv. 226267).
Nel caso di cui si tratta, però, non vi è stato alcun aggravamento della misura cautelare, che già in origine era quella della custodia in carcere; il tribunale non ha neppure esteso la misura a un ulteriore reato, con la creazione di un nuovo titolo, ipotesi in cui l'eventuale prolungamento del termine di fase non avrebbe avuto alcun effetto fino alla definitività della decisione, trattandosi di una misura che sarebbe stata disposta ex novo per quel reato.
Si è in presenza, invece, di una diversa definizione giuridica del fatto (in senso lato), con il riconoscimento di una circostanza aggravante, situazione analoga a quella in cui, ad esempio, il tribunale, in accoglimento dell'appello del pubblico ministero, riqualifichi il fatto (in senso stretto: sul tema v. Sez. 5, n. 31996 del 27 marzo 2019, Messina Denaro, Rv. 277249) da lesione personale grave a tentato omicidio aggravato ex art. 576 o 577 c.p., con conseguente diverso e più lungo termine di fase della custodia cautelare.
Sulla questione in esame le Sezioni unite di questa Corte, con una recente sentenza, hanno ribadito l'orientamento ormai consolidato espresso dalla giurisprudenza di legittimità (cfr., ad es., Sez. 3, n. 2888 del 19 dicembre 2013, dep. 2014, Macrì, Rv. 258371; Sez. 5, n. 39029 del 16 settembre 2008, Bruni, Rv. 242316; Sez. 6, n. 20479 del 12 maggio 2005, Laagoub, Rv. 232264; Sez. 1, n. 8722 del 3 dicembre 2003, dep. 2004, Malorgio, Rv. 228158; Sez. 1, n. 5163 del 21 ottobre 1998, Nicolosi, Rv. 211890), secondo cui l'ordinanza con la quale il giudice del riesame, in sede di rinvio, conferma l'originaria ordinanza di custodia cautelare precedentemente annullata è immediatamente esecutiva e determina il ripristino dello stato di custodia anche qualora avverso il nuovo provvedimento l'indagato proponga a sua volta ricorso per cassazione, non trovando applicazione per analogia l'effetto sospensivo previsto dall'art. 310, comma 3, c.p.p., in relazione alle decisioni assunte nell'appello cautelare: ciò proprio in quanto questa ultima norma - hanno rimarcato le Sezioni unite - è «di stretta interpretazione, derogando la stessa al principio generale di cui all'art. 588, comma secondo, c.p.p., per cui le impugnazioni contro i provvedimenti in materia di libertà personale non hanno in alcun caso effetto sospensivo» (Sez. un., n. 19214 del 23 aprile 2020, Giacobbe, Rv. 279092, in motivazione).
In ragione della natura eccezionale, di stretta interpretazione, dell'art. 310, comma 3, c.p.p., non vi sono i presupposti per derogare alla disposizione generale, dettata per i provvedimenti in materia di libertà personale dall'art. 588, comma 2, del codice di rito, nel caso in cui il tribunale, in accoglimento dell'appello del pubblico ministero, dia al fatto una diversa qualificazione giuridica ovvero - come nella fattispecie - riconosca la sussistenza di una circostanza aggravante a effetto speciale.
4. La sopravvenuta sostituzione della misura di massimo grado con quella degli arresti domiciliari comporta la carenza di interesse in ordine al secondo motivo di ricorso.
5. Al rigetto della impugnazione proposta segue, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Depositata il 6 giugno 2022.